Si vis bellum, para bellum


Difficile stabilire, basandosi su dichiarazioni contrapposte e video falsificabili, se la ritorsione iraniana contro Israele sia stata un parziale successo (asseriti duri colpi inferti a una base aerea nel deserto del Neghev) o un flop (99% degli ordigni abbattuti, secondo NATO e sionisti): di certo è stata un’operazione dimostrativa cui la Repubblica Islamica non aveva modo di sottrarsi, pena la perdita di credibilità politico-militare presso alleati e fiancheggiatori.

Il fatto che gli USA e alcuni paesi dell’area siano stati preavvertiti rafforza il convincimento che la leadership persiana si sia mossa con la massima cautela dopo l’attacco terroristico (così l’ha correttamente definito Massimo Cacciari) commesso da Israele contro il consolato iraniano a Damasco il primo aprile scorso – attacco che, malgrado la data, non è certo derubricabile a scherzo. I fuochi artificiali che hanno illuminato il cielo sopra Gerusalemme significano in sostanza “siamo pari e patta, finiamola qui”: il problema è che, a differenza del Pakistan (ricordiamoci dello scambio di razzi a inizio anno), lo Stato ebraico non concorda mai le regole della partita, preferendo imporle a partner e contendenti.

Il richiamo da parte iraniana all’articolo 51 della Carta dell’ONU appare ineccepibile, poiché la norma così recita: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. L’attacco-presupposto ha avuto luogo, il Consiglio di Sicurezza è rimasto in silenzio, paralizzato da veti incrociati; le misure di autotutela sono state portate a conoscenza di chi di dovere: ergo la reazione è stata pienamente legittima.

Tutto risolto, dunque? Sembra proprio di no, perché anche in diritto internazionale vale il famoso motto: “la legge si applica per i nemici (dell’Occidente) e si interpreta per gli amici” – e, come ben sappiamo, veritas amica, sed magis amicus Israel. Netanyahu e la sua corte dei miracoli hanno già annunciato che l’affronto non resterà “impunito”, anche se – per logica – a un atto lecito non consegue una sanzione: i governanti di Tel Aviv, tuttavia, reputano le preoccupazioni legalitarie nient’altro che fisime e sanno per esperienza diretta che le regole del diritto sono rovesciabili a piacere da chi ha la forza per farlo. Visto inoltre che gli Stati (“democratici” o meno che siano) solitamente ponderano le loro decisioni e ne prevedono i potenziali effetti, è presumibile che il mortifero pesce d’aprile sia stato non una mattana, bensì un’esca esplosiva lanciata a un nemico con cui si progetta di regolare i conti in via definitiva. Lo schema operativo parrebbe essere il seguente: si costringe lo storico avversario a reagire a un’inaccettabile provocazione, poi si enfatizza la portata di una reazione già messa in conto, infine si scaglia un assalto progettato per essere risolutivo. Il fatto che gli Stati Uniti si siano ambiguamente “chiamati fuori” non esclude a priori un loro sostegno attivo: l’ingresso nel Mar Rosso della portaerei nucleare Eisenhower e di unità missilistiche ben difficilmente può essere visto come una misura a tutela della libertà di navigazione o un mero scudo “difensivo”; inoltre l’Iran è da decenni una spina nel fianco della superpotenza, che ha cercato in ogni modo – ricorrendo talvolta alla violenza, talaltra all’inganno e ad iniziative variopinte – di destabilizzare il paese degli ayatollah. Non va da ultimo dimenticato che il potere a stelle e strisce parla da secoli con lingua biforcuta, assumendosi impegni – per citare Catullo – “scritti sull’acqua corrente”: quando si ha a che fare con simili predoni a poco servono moderazione e prudenza (si noti che la dirigenza sciita ha sempre abbinato a proclami incendiari condotte, nel complesso, guardinghe). Non è quindi da escludersi che a Teheran sia stata tesa una trappola abbastanza simile a quella in cui è stata attirata in precedenza la Russia di Vladimir Putin, e che l’obiettivo sia per l’appunto un conflitto su larga scala: fra l’altro, la propaganda nostrana si è già messa all’opera, blaterando con sprezzo del ridicolo di “aggressione” (!) iraniana. Nulla vieta di sperare che il governo Netanyahu si limiti, a conti fatti, a un’esibizione muscolare relativamente innocua, ma gli indizi disponibili e certi reiterati atteggiamenti pregressi non inducono a prognosi consolatorie. In un suo recente intervento Nicolai Lilin preconizza una guerra che, voluta dalle élite occidentali, potrebbe coinvolgere direttamente anche l’Europa: attenti, ci ammonisce, le scene di distruzioni e arruolamenti forzati che rimbalzano dall’Ucraina potrebbero ripetersi tali e quali anche nelle nostre città. Ovviamente chi si beve la favola bella di una UE “democratica”, rispettosa delle diverse opinioni (chiedere a Varoufakis…) e attenta al benessere dei propri cittadini ride di siffatte profezie apocalittiche, ma a ben vedere sono rinvenibili delle analogie fra l’esperimento ucraino e quello greco risalente a un decennio fa, senza contare che fra le due crisi si situa quella del Covid-19, a sua volta una prova generale di irreggimentazione delle masse e delle opinioni pubbliche, persuase con le cattive che da una situazione descrittaci come disperata vi fosse un’unica via d’uscita – lo stato di eccezione imposto dalle istituzioni con il pieno sostegno dei media di regime, che per un paio d’anni hanno blandito i fedeli (cioè coloro che plaudivano a divieti e vessazioni) e demonizzato i critici, etichettati come devianti, traditori, “nemici del popolo”. Oggi si aggiungerebbe: antisemiti.

Ma quale interesse possono avere le grandi lobby occidentali a provocare un mezzo Armageddon? Alla brama di conservare il traballante dominio su un mondo che inevitabilmente uscirebbe dall’ecatombe esausto e rimpicciolito potrebbe accompagnarsi il disegno di “sfoltire i ranghi”, eliminando una quota di popolazione nei paesi c.d. ricchi e azzerando la spesa sociale in un’epoca in cui moltissimi cittadini, cacciati senza colpa dai circuiti produttivi, vengono giudicati inutili zavorre e si fa strada l’automazione. Rischiamo però di inoltrarci nel territorio scivoloso della distopia: è più onesto confessare che ignoriamo i loro piani.

In un quadro in drammatico cambiamento non è però il caso di far finta di niente e attendere fiduciosi che le cose si aggiustino gratis et amore Dei, perché è altamente improbabile che ciò avvenga.

Fonte foto: Il Post (da Google)

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