Un senso precipite d’abisso


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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

(lettere al futuro 9)

Il messaggero giunse trafelato/ disse che ormai correva/ solo per abitudine/ il rotolo non aveva più sigilli/ anzi non c’era rotolo, messaggio,/ non più portare decrittare leggere/ scomparse le parole/ l’unica notizia essendo/ visibile nell’aria/ scritta su pietre pubbliche/ in acqua palese ad alghe e pesci./ Tutto apparve concorde con un giro/ centripeto di vortice/ un senso precipite d’abisso.

(B.Cattafi, La notizia)

1. Introduzione: un mondo condannato

L’attuale civiltà planetaria si sta avviando all’autodistruzione, a un collasso generalizzato che porterà violenze e orrori. Una organizzazione economica e sociale che ha come essenza della propria logica di azione il superamento di ogni limite è ormai arrivata a scontrarsi con i limiti fisici ed ecologici del pianeta. Non potendo arrestarsi, essa devasterà l’intero assetto ecologico del pianeta prima di collassare. Il fatto che questo sia il percorso sul quale è avviata la società globalizzata contemporanea emerge con chiarezza da molte ricerche, interessanti in sé e anche perché svolte da studiosi di formazione scientifica (nel senso delle scienze “dure”) e lontani da impostazioni teoriche legate al marxismo o in generale all’anticapitalismo. Uno dei centri di ricerca di questo tipo è lo Stockholm Resilience Center dell’Università di Stoccolma [1]. Al suo interno viene sviluppata da anni la ricerca relativa ai “limiti planetari” che la società umana non deve superare per non rischiare la devastazione degli ecosistemi planetari e quindi, in ultima analisi, l’autodistruzione. Gli studiosi del Resilience Center hanno individuato nove di questi limiti (fra i quali, ad esempio, la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani). Nelle prime versioni di tali studi [2] questi limiti non erano tutti quantificati in termini di un parametro oggettivo, mentre recentemente questo obbiettivo è stato raggiunto [3]. La buona notizia è allora che oggi è possibile misurare tali parametri e avere un’indicazione oggettiva sul superamento dei limiti planetari individuati dagli studiosi. La cattiva notizia è che sei su nove di questi limiti sono stati superati, vale a dire che la società umana contemporanea si sta muovendo in una zona altamente pericolosa.

Ulteriori interessanti considerazioni si possono trovare in un recente libro di Vaclav Smil [4]. L’autore mostra con molta chiarezza mostra come le basi concrete, materiali, della nostra attuale civiltà consistano in una massiccia produzione di alcuni materiali fondamentali: acciaio, cemento, ammoniaca (per i fertilizzanti), plastica. Senza questa produzione massiccia, che richiede enormi quantità di energia, non è pensabile poter fornire cibo, riparo, indumenti agli otto miliardi di esseri umani attualmente viventi (e in procinto di diventare nove o dieci); non è possibile, possiamo aggiungere, se intendiamo mantenere l’attuale organizzazione economica e sociale. Ma questa produzione massiccia e crescente è esattamente l’origine materiale di quel superamento dei limiti planetari del quale si è sopra parlato, e quindi dell’attuale crisi generalizzata degli ecosistemi terrestri. Ulrike Herrmann [5] e Andrea Fantini [6], d’altra parte, mostrano come non ci si possa aspettare una miracolosa soluzione tecnologica che ci permetta di continuare il “business as usual”, magari con qualche piccola correzione, come l’uso dell’auto elettrica al posto di quella tradizionale. Ad esempio, nota Herrmann, le fonti di energia rinnovabile (eolico, solare) hanno problemi di intermittenza, ben noti, che al momento non sappiamo come superare, e che rendono impossibile pensare che l’attuale struttura economica e sociale possa basarsi sul loro uso esclusivo. Un’altro problema significativo sta nel fatto che l’energia solare arriva sulla Terra con una intensità molto bassa. Per farne la base dell’attuale struttura industriale ed economica “avremmo bisogno di trasformare completamente i nostri attuali sistemi di cattura e stoccaggio dell’energia, creando una massiccia infrastruttura (di pannelli solari, turbine eoliche, impianti bioenergetici, turbine mareomotrici e, soprattutto, tecnologie per immagazzinare quell’energia, come le batterie) basata su risorse materiali che, a differenza della luce solare, non sono rinnovabili. Un’economia basata sul solare può contare solo sui materiali esistenti e dunque, a lungo termine, la sua crescita sarà limitata”[7].

Questi sono solo alcuni esempi dei problemi che sorgono se si vuole pensare una crescita economica indefinita nel rispetto dei vincoli posti dalla necessità di preservare gli ecosistemi terrestri. Ma questo vuol dire semplicemente che l’ecosistema planetario, che è l’ambiente nel quale la civiltà umana può esistere, non è in grado di reggere la crescita economica tipica del capitalismo, crescita che non può ammettere limiti. Di conseguenza, l’ecosistema planetario è sul punto di crollare, e le misure necessarie non possono essere ulteriormente dilazionate. Per fare l’esempio del cambiamento climatico (che è solo uno degli aspetti dell’incipiente crollo ecosistemico), alcuni obiettivi di riduzione delle emissioni dovrebbero essere raggiunti già entro il 2030, e al momento gli impegni assunti dai vari paesi non sono sufficienti. Come ricorda il rapporto UNEP 2022 dedicato a questi problemi (che si intitola significativamente “The closing window”) “si calcola che le politiche attualmente in essere, senza azioni ulteriori, porteranno ad un riscaldamento globale di 2,8 gradi nel ventunesimo secolo” [8].

Date queste premesse, che ci dicono in sostanza che la crescita illimitata del capitalismo porta al collasso degli ecosistemi terrestri e quindi all’autodistruzione della civiltà umana, la risposta, almeno sul piano teorico, sembra facile: è necessaria una rivoluzione che abbatta l’attuale organizzazione sociale ed economica capitalistica e al suo posto costruisca una società che rinunci alla crescita infinita, al superamento di ogni limite, e sappia comunque assicurare a tutti gli esseri umani una vita dignitosa; e per poterlo fare, dovrà essere una società molto più egualitaria dell’attuale. È questa la risposta che viene data, in un modo o nell’altro, da parte delle varie correnti di pensiero che, in tutto il mondo, si richiamano a una qualche versione di “ecomarxismo”. Si tratta di correnti di pensiero di grande valore: a mio parere, si può anzi affermare che esse producono alcune fra le più valide elaborazioni teoriche della cultura contemporanea [9]. Se si approfondisce l’abbondante letteratura che possiamo far rientrare nella categoria dell’ecomarxismo contemporaneo, emergono però con chiarezza alcuni problemi, che nel complesso privano queste acute analisi teoriche di efficacia politica. Un elenco approssimativo di tali problemi potrebbe essere il seguente: in primo luogo, non è affatto chiaro come possa essere concretamente organizzata una società non capitalista, equa, sicura, entro i limiti di sostenibilità degli ecosistemi terrestri. In secondo luogo, non è chiaro quali possano essere le forze sociali su cui basarsi per indirizzare l’attuale civiltà planetaria verso un superamento ecosocialista del capitalismo. In terzo luogo, le riflessioni ecomarxiste sono sempre piuttosto vaghe e generiche quando si viene al tema del “che fare?”, cioè alla proposta di un percorso politico concreto che, partendo dalla situazione attuale, riesca realmente a incidere sulla dinamica sociale. È abbastanza evidente che questi problemi, che ho appena elencato come se fossero punti distinti, sono in realtà strettamente collegati fra loro, sono sfaccettature diverse dello stesso problema: così, la mancanza di un’idea di società futura implica la difficoltà di pensare un percorso politico concreto, e questo comporta l’impossibilità di coinvolgere forze sociali significative, che possono aderire a un progetto politico solo se questo esiste. D’altra parte, è proprio la mancanza di un impegno da parte di grandi forze sociali che impedisce la creazione di immagini della società futura e di progetti politici concreti.

È chiaro che continuare la discussione sul piano di questi diversi fattori e delle loro interazioni ci porterebbe a restare imprigionati in un circolo di rimandi nel quale A causa B che causa C che a sua volta però causa A, e così via. Per uscire da questo circolo, e arrivare una comprensione unitaria della situazione fin qui descritta, ritengo sia necessario tentare la strada di un’ipotesi unitaria in base alla quale comprendere i vari fenomeni. Per arrivare a questo, mi sembra utile focalizzare quel carattere dell’odierna realtà sociale al quale abbiamo già accennato, cioè la sua “illimitatezza”, intesa come superamento di ogni limite. Questo aspetto, che è in contrasto con ogni forma di cultura umana precedente il capitalismo (anche con la cultura occidentale premoderna, fra l’altro) è chiaramente legata alla natura del rapporto sociale capitalistico. Il capitalismo è accumulo incessante di profitto, senza fine e senza fini; nella sua incessante ricerca di sempre nuove occasioni di profitto deve necessariamente superare ogni limite, naturale o sociale, che si trovi davanti. È proprio in questa “illimitatezza” che si trova la radice della crisi ambientale contemporanea, e questo punto è ben messo in luce dalla letteratura ecomarxista cui facevamo riferimento poc’anzi.

L’ipotesi che propongo è allora la seguente: questo rifiuto di ogni limite è stato assorbito e fatto proprio dall’umanità contemporanea.

Questa ipotesi, fondamentale per il resto della mia argomentazione, è a sua volta la specificazione di una tesi generale dovuta al compianto Massimo Bontempelli: si tratta della tesi della sussunzione della personalità umana sotto il capitalismo, nell’attuale fase storica [10]. La tesi di Bontempelli è cioè che il capitalismo nella fase attuale arriva a plasmare la personalità secondo la propria logica, in modo che, anche quando cercano di contrapporsi all’esistente, gli oppositori ne condividono la logica profonda:

“Così il sistema socioeconomico vigente ha avuto il suo funzionamento sempre più assicurato dagli automatismi comportamentali di massa, paradossalmente proprio da quando le sue contraddizioni lo hanno reso più vulnerabile, e da quando ha pienamente mostrato di non poter funzionare se non trascinando il genere umano nel baratro del disfacimento sociale e del collasso ambientale (…). I suoi oppositori per lo più non sanno comprendere la plasmazione capitalistica della loro personalità, e non ne sanno quindi correggere le determinazioni immediate.”[11].

La tesi che propongo è quindi che una forma di manifestazione della “plasmazione capitalistica della personalità”, teorizzata da Bontempelli, è l’assunzione generalizzata, da parte dell’umanità contemporanea, di quel rifiuto dei limiti che è intrinseco alla logica capitalistica di crescita illimitata. Un aspetto concreto e molto evidente di questo rifiuto del limite è il consumismo, che è ormai diventato un dato praticamente universale dell’umanità contemporanea, naturalmente in forme diverse nelle varie situazioni: nei ceti superiori è consumo di merci di lusso, nei ceti inferiori consumo di merci povere, nei paesi poveri è aspirazione al modello di vita occidentale e, appunto, ai suoi consumi. Il problema allora sta nel fatto che uscire dal capitalismo e cercare una forma sociale non distruttiva degli ecosistemi significa, fra molte altre cose, anche reintrodurre dei limiti. Ma questo, data l’attuale organizzazione della società, comporta cambiamenti radicali in ogni aspetto dell’organizzazione sociale e di conseguenza in ogni aspetto della vita quotidiana. Per di più, nessuno è in grado prevedere in maniera precisa quali potrebbero essere tali cambiamenti. Fuoriuscire dal capitalismo e costruire una società alternativa, e tutto questo in una situazione di crisi ecologica ormai attiva, è un’impresa talmente gigantesca che rende impensabile l’idea di poter preventivare quale sarà la realtà complessiva che potrebbe risultarne. In sostanza, l’impresa che l’umanità dovrebbe tentare si configura in primo luogo come la rinuncia ad una organizzazione della vita basata sui consumi, che per molti è diventata, in forma implicita o esplicita, l’unico modo di concepire una vita umana decente; in secondo luogo, come l’assunzione del rischio di muoversi in una direzione della quale non si sa esattamente dire dove porti. La situazione fin qui descritta presenta naturalmente aspetti diversi per i ceti dominanti e per quelli subalterni, ma la conclusione è in ambo i casi la stessa: nessuno vuole realmente questo tipo di radicale cambiamento. È per questo che mancano le forze sociali che potrebbero essere la base su cui costruire un movimento storico di superamento del capitalismo. È dunque facile prevedere che l’attuale sistema sociale, ormai esteso all’intero pianeta, proseguirà la sua spirale distruttiva e autodistruttiva fino al collasso sociale generalizzato.

Cerchiamo adesso di esaminare le diverse modalità con le quali questa dinamica di fondo si manifesta nelle diverse situazioni. Cercheremo di mostrare, con qualche argomento in più rispetto a quanto fin qui detto, perché non ci si può aspettare che qualche significativo strato sociale prenda in carico il compito della trasformazione necessaria a salvare la civiltà umana. Discuteremo separatamente ceti dominanti e ceti subalterni, nelle due sezioni seguenti. Faremo poi qualche rapida osservazione su altri aspetti della situazione attuale (passaggio al mondo multipolare, impotenza del radicalismo accademico) e chiuderemo con qualche parola sulla situazione italiana.

2. I ceti dominanti

In questa sezione riprendo alcuni degli argomenti già esposti in interventi precedenti [12]. Il dato di fondo è comprendere che i ceti dominanti, in tutto il mondo, sono immersi in dure lotte di potere. Per schematizzare, ogni gruppo dominante nazionale, oltre a essere attraversato da divisioni interne, deve da una parte riuscire a controllare i ceti subalterni del proprio paese, dall’altra scontrarsi, in molte forme diverse, fra cui quella militare, con i gruppi dirigenti degli altri paesi. Iniziamo esaminando il secondo punto, cioè il tema dello scontro con i ceti dominanti degli altri paesi, che si traduce naturalmente in scontro fra Stati o fra alleanze di Stati. Dopo due anni di guerra in Ucraina, credo non ci sia bisogno di insistere sull’importanza di questo tipo di dinamiche. Il punto teorico da comprendere qui è in fondo semplice: negli scontri, militari o no, in cui sono immersi i ceti dominanti, ciò che conta è la forza di cui si dispone, nelle sue varie dimensioni, fra cui quella militare. Ma il carattere illimitato del capitalismo e della sua crescita assicura, a chi lo cavalca, una crescita continua di forza (militare ed economica, e politica come conseguenza). È allora evidente che nessuna frazione statale dei ceti dominanti può neppure pensare a superare il capitalismo e costruire una organizzazione sociale che rispetti i limiti ecosistemici: farlo sarebbe un suicidio, perché significherebbe limitare il proprio potere di fronte agli avversari. Significherebbe avere meno carri armati, missili e aerei, e averli meno efficienti. Significherebbe essere sconfitti e spazzati via, negli scontri già in atto e in quelli che si preparano. I ceti dominanti non possono rinunciare alla crescita capitalistica. Non possono pensare a ciò che succederà alle generazioni future, perché il loro orizzonte è ristretto al breve periodo. E questo non dipende da limiti individuali (certo presenti), ma è una necessità logica: se negli scontri in atto oggi tu corri il rischio di essere spazzato via, non puoi pensare al futuro ma devi concentrarti sulla vittoria, perché la sconfitta implica che tutti i tuoi progetti sul futuro scompaiono assieme a te. È facile rendersi conto di questi fatti, nell’essenza piuttosto ovvi: nella guerra in corso, Ucraina e Russia usano tutti i mezzi a loro disposizione, e i loro alleati li riforniscono di tali mezzi, senza che nessuno, in tutto questo, si preoccupi di salvaguardia dell’ambiente o di emissioni di gas serra. Non se ne preoccupano nemmeno quei ceti dirigenti dell’Unione Europea che nei giorni pari parlano con molta serietà di riduzione delle emissioni, e nei giorni dispari di aumento della produzione di armi. Naturalmente, l’attuale guerra prima o poi finirà, ma non finiranno le tensioni e gli scontri, piccoli o grandi, e quindi non finirà la necessità, per i ceti dirigenti, di ottenere il potere che solo la crescita illimitata del capitalismo può dare.

Per quanto riguarda i problemi interni a ciascun paese, cioè lo scontro, attuale o potenziale, di ciascuna frazione nazionale dei ceti dominanti con i propri ceti subalterni, il ragionamento si sovrappone largamente a quello appena svolto: i ceti dominanti sono impegnati in aspre lotte interne per il potere, sia sul piano politico sia su quello economico, e non possono permettersi scelte politiche che effettivamente incidano sullo sviluppo illimitato della logica capitalistica, perché questo si tradurrebbe in una perdita di competitività (in un senso ampio, non solo economico, della parola) e in sostanza in una sconfitta e in una perdita della propria posizione dominante.

Per queste ragioni, non è dunque sensato immaginare che una svolta verso una società che accetti di vivere entro i limiti ecosistemici possa venire dai ceti dominanti dell’attuale società capitalistica globalizzata.

3. I ceti subalterni

I ceti subalterni sono quelli che maggiormente soffriranno del collasso prossimo venturo, e di conseguenza sono quelli che maggiormente dovrebbero sentire la necessità di attivarsi per evitarlo. È abbastanza evidente che non è quello che sta succedendo. Esistono certamente, in tutto il mondo, forme di resistenza e di lotta contro il degrado mortifero degli ecosistemi, generato dal capitalismo, e tali lotte talvolta possono persino ottenere qualche successo. È però evidente che quello che manca è la capacità di trasformare queste meritorie lotte in difesa del “locale” in capacità politica di contrastare il carattere distruttivo “globale” del capitalismo. Talvolta possono persino nascere, nei ceti subalterni, momenti di protesta quando misure penalizzanti nei loro confronti vengono giustificate con motivazioni di tipo ecologico: l’esempio più noto è quello della massiccia mobilitazione dei “gilets jaunes” francesi. In questo atteggiamento di rifiuto, da parte dei ceti subalterni dei paesi occidentali, vi è un elemento di verità: il fatto cioè che le politiche ecologiche dei ceti dominanti occidentali si configurano molto spesso come uno scaricare i costi della transizione sui ceti subalterni, preservando una situazione di profonda e ripugnante disuguaglianza. È chiaro che, per rendere accettabili le politiche di restaurazione dei limiti, che sono necessarie per preservare il funzionamento degli ecosistemi, bisognerebbe per prima cosa incidere sulle disuguaglianze sociali: bisognerebbe cioè, per essere espliciti, che a pagare per la transizione ecologica fossero, per primi e per la maggior parte, proprio i ceti superiori delle società occidentali. Di nuovo, è abbastanza evidente che i ceti dominanti non hanno nessuna intenzione di procedere in questa direzione. Potrebbe cambiare questa situazione? Dopotutto la storia del secondo dopoguerra mostra come sia stato possibile, per i ceti dominanti dei paesi occidentali, proporre ai ceti subalterni un compromesso avanzato, che non metteva in questione il loro dominio ma faceva ampie concessioni ai bisogni delle classi inferiori. Si potrebbe pensare che un nuovo compromesso di questo tipo dovrebbe essere possibile, di fronte all’evidenza sempre più angosciante del crollo degli ecosistemi terrestri. Purtroppo, sembra che questa sia una speranza non ben fondata. I “trent’anni dorati” del compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra hanno potuto basarsi su alcuni dati di realtà che oggi appaiono scomparsi e non più ripetibili. Senza tentare qui un’analisi dettagliata, mi concentro su due punti: in primo luogo si era in presenza, in quegli anni, di una crescita economica vigorosa che forniva la ricchezza necessaria per dare una base materiale al compromesso; in secondo luogo i paesi europei e il Giappone, dovendo recuperare vigore economico dopo il trauma della guerra, non erano in grado di esprimere una concorrenza che mettesse in questione l’egemonia statunitense. Entrambi questi dati di realtà sono radicalmente cambiati: l’economia capitalistica non è più in grado, da decenni, di esprimere i livelli di crescita del secondo dopoguerra, e lo sviluppo economico dei paesi europei e del Giappone (a cui si sono poi aggiunti altri paesi di più recente industrializzazione) ha portato ad una lotta economica durissima. La debolezza delle economie capitalistiche implica che ci sono poche risorse da mobilitare, e la durezza della concorrenza fra capitali e ceti dirigenti implica che tali risorse vanno indirizzate nell’acquisire posizioni in questa lotta: di conseguenza, non vi sono le risorse necessarie per un compromesso di tipo “socialdemocratico”. Il glorioso riformismo socialdemocratico, che ci ha dato il Welfare State, è stato spazzato via e non potrà tornare.

Si potrebbe allora pensare che, se non sono più possibili le riforme, l’unica alternativa sia la rivoluzione. In effetti è proprio così. Il problema è che oggi la rivoluzione anticapitalista appare altrettanto impossibile delle riforme interne al capitalismo. Non esiste né una forza politica organizzata e incisiva che sia lo strumento di una tale rivoluzione, né un significativo corpo di militanti, magari al momento disorganizzati, che possano costituire il nerbo di una tale forza politica, né uno strato sociale combattivo dal quale possano emergere militanti e ceti dirigenti della rivoluzione, né un’ideologia di riferimento sulla base della quale possano unirsi i militanti. Si può certo pensare che questa situazione sia solo una fase transitoria, e tutto quello che oggi non c’è possa sorgere in futuro. Ma a questo punto, dopo decenni di sconfitte e arretramenti subiti dai ceti subalterni, è forse il momento di cercare di capire perché le cose sono andate così male. Una semplice spiegazione potrebbe forse essere la seguente: se non c’è nessuno degli elementi necessari ad una rivoluzione anticapitalista, è probabilmente perché una tale rivoluzione anticapitalista non la vuole nessuno. E questo perché, secondo l’ipotesi che facevamo sopra, anche i ceti subalterni hanno introiettato il carattere “illimitato” del capitalismo, e non sono interessati a costruire una realtà sociale che rinunci alla crescita senza limiti. Non possiamo sapere come potrebbe essere una società post-capitalista in equilibrio con l’ambiente, ma è certo che essa non potrà oltrepassare le soglie di sostenibilità che rendono possibile il funzionamento degli ecosistemi planetari. Sarebbe una società sicuramente molto più egualitaria dell’attuale, ma in essa sarebbe impossibile il consumismo che oggi è la forma di vita ormai universale, come aspirazione se non come realtà. Ebbene, dobbiamo ripetere che una simile società, egualitaria e solidale, ma non consumistica, una società di “abbondanza frugale” (la bella espressione è di Serge Latouche), non la vuole nessuno, dove “nessuno” va inteso come “nessuno strato sociale significativo sul piano numerico, e capace di azione effettiva sul piano politico”.

Se tutto questo suona astratto, possiamo fare un esempio concreto, quello delle discussioni sull’auto a motore elettrico, che viene sostenuta da alcuni come un passaggio necessario alla transizione ecologica verso una società non distruttiva dell’ambiente, ma viene criticata da altri con vari tipi di argomentazioni. Ciò che mi sembra interessante è il fatto che buona parte della discussione verte sulle prestazioni e sulle comodità o scomodità dell’uso dell’auto elettrica. Coloro che criticano l’idea di un passaggio generalizzato all’auto elettrica sostengono, fra le altre cose, che essa è meno “performante” o più scomoda o più costosa rispetto all’auto a motore termico tradizionale. Questo a me pare interessante perché mette in grande evidenza il punto di cui stiamo discutendo. Infatti queste argomentazioni, per stare in piedi, richiedono un’ovvia premessa, che viene lasciata implicita: la premessa che i mutamenti tecnologici o di altro tipo, necessari alla transizione ecologica, devono lasciare immutata la vita quotidiana. Se volete che io usi l’auto elettrica, è la premessa implicita, questa deve funzionare esattamente come quella a motore termico, in maniera tale che io non debba cambiare nulla della mia vita e delle mie abitudini. Dovrebbe essere evidente che il punto è proprio questo, come abbiamo sopra spiegato: poiché è l’intera organizzazione sociale ed economica delle nostre società che si sta autodistruggendo, è l’intera forma di vita che in esse si sviluppa che va radicalmente cambiata. Per cui, tornando al problema dell’auto elettrica, è ovvio che dovremo, in un modo o nell’altro, passare dai motori termici ai motori elettrici, ma questo sarà solo un aspetto, e non il più importante, di una radicale riorganizzazione del nostro modo di vivere, che quasi sicuramente implicherà un abbandono sia dell’auto come elemento integrante della vita quotidiana, sia della forma di vita legata all’auto che si è imposta nel secondo dopoguerra. Le attuali discussioni sull’auto elettrica dimostrano il fatto che questi radicali cambiamenti sono esattamente ciò che nessuno vuole. E questo vale per l’auto e per ogni altro aspetto della nostra attuale organizzazione economica e sociale.

Come nel caso dei ceti dominanti, anche nel caso dei subalterni questo atteggiamento di sostanziale accettazione dell’esistente non deriva da limiti morali o cognitivi dei singoli, o almeno non in modo decisivo: si tratta di una scelta che ha una sua razionalità, almeno nel breve periodo. La vita dei ceti subalterni, nei paesi occidentali, nonostante il consumismo, è in realtà una vita difficile, stretta da infiniti vincoli, vita di persone sempre di corsa e sempre con l’ansia di non farcela. È chiaro allora che qualsiasi proposta di cambiamento della vita quotidiana genera sospetti, perché si ha paura che la renda ancora più difficile. È cioè naturale che la persona media si chieda se l’auto elettrica ha, oppure no, lo stesse prestazioni di quella tradizionale, perché una diminuzione di tali prestazioni può significare gravi complicazioni nella vita quotidiana. Ma, seguendo il filo di questa osservazione, in sé corretta, si torna sempre allo stesso punto: questa obiezione è sensata solo se si accetta l’attuale organizzazione della vita quotidiana come l’unico orizzonte possibile della vita stessa. Se si capisce che ciò che è richiesto per salvare la civiltà è il radicale cambiamento di ogni aspetto della vita, si capisce che le obiezione sopra riportate perdono completamente la loro rilevanza. Ma questo cambiamento radicale è appunto quello che nessuno vuol fare, perché tutti (ceti dominanti e subalterni) hanno fatto proprio l’assioma che non si dà vita al di fuori del capitalismo.

Concludendo: non ci sarà nessuna rivoluzione diretta a sostituire il capitalismo con una società ecosocialista, perché i ceti subalterni hanno introiettato il capitalismo e la forma di vita ad esso associata come dati imprescindibili, che non possono essere messi in discussione.

4. Ci salverà il mondo multipolare?

È ormai un luogo comune delle analisi geopolitiche il fatto che il mondo stia passando da una fase unipolare, cioè egemonizzata da un’unica superpotenza mondiale (gli USA), ad una fase multipolare caratterizzata da più forze in precario equilibrio (l’Occidente globale egemonizzato dagli USA, la Cina, la Russia, l’India, forse altre ancora). Mi sembra si tratti di un’ipotesi ragionevole, e in questo scritto non la esamino criticamente ma la prendo come base per la discussione. Partendo da questa ipotesi si potrebbe pensare che si aprano delle possibilità per un cambiamento radicale del rapporto fra le società umane e la natura. I momenti di transizione sono nella storia appunto quelli in cui diventano concretamente possibili svolte storiche prima quasi impensabili. Inoltre, è chiaro che oggi gli USA sono l’architrave fondamentale del capitalismo globalizzato ecocida, e se ne potrebbe dedurre che un loro relativo indebolimento comporti un rallentamento della distruzione ecologica oggi in corso. Purtroppo, mi sembra si possa affermare che queste speranze appaiono irrealistiche.

In primo luogo, è del tutto ovvio che il passaggio che stiamo considerando comporterà un periodo di vere guerre, piccole e grandi. Non è mai successo che un paese egemone si rassegni alla perdita dell’egemonia in maniera pacifica. Basta ricordare, a questo proposito, la classica ricostruzione fatta da Arrighi ne “Il lungo ventesimo secolo” [13]: in esso, la storia moderna viene esaminata come storia del succedersi delle egemonie di vari paesi, e i passaggi da una egemonia all’altra sono appunto sempre segnati da guerre. Per quanto riguarda la realtà contemporanea, è del tutto palese che si sta aprendo una fase di confronti militari. È però chiaro, e lo abbiamo già ricordato parlando della guerra in Ucraina, che la guerra è la situazione meno adatta possibile per operare i profondi cambiamenti economici e sociali che sono necessari per evitare il crollo degli ecosistemi planetari. Essa, tutto al contrario, spinge al saccheggio e al dispendio sempre maggiore delle risorse, perché ovviamente se si è in guerra la vittoria è l’obbiettivo fondamentale e tutto il resto passa in secondo piano. Si può aggiungere che il passaggio ad una società meno distruttiva richiederebbe una forte collaborazione internazionale fra le maggiori potenze, che è esattamente ciò che viene meno in una fase di scontri per l’egemonia.

in secondo luogo, occorre ricordare che le potenze impegnate nello scontro egemonico fanno comunque riferimento ad una economia di tipo capitalistico, in forme naturalmente abbastanza diverse: in particolare, è chiaro che in Cina (e anche in Russia, forse in grado minore) lo sviluppo capitalistico è sottoposto a un forte controllo politico. Non so se questo sia sufficiente a parlare di “socialismo” nel caso della Cina, e la cosa, rispetto al tema qui in discussione, non ha in realtà molta importanza: gli elementi di capitalismo presenti nell’economia cinese sono sufficienti a spingerla sul sentiero dell’accumulazione illimitata, che è quello che porterà la Terra al collasso ecosistemico. Nel caso di Russia e USA, il carattere capitalistico delle loro società non è ovviamente in discussione. Il problema è che, se tutti gli attori in lotta per l’egemonia sono avviati sul sentiero della crescita illimitata, rispetto al problema del collasso ecosistemico non fa nessuna differenza né la natura unipolare o multipolare dei rapporti geopolitici, né chi sia l’egemone, se ve n’è uno. Non è possibile sapere quale sarà la realtà geopolitica fra dieci o vent’anni, ma è assolutamente certo che il mondo continuerà il percorso autodistruttivo attuale.

In definitiva, la risposta alla domanda contenuta nel titolo di questa sezione è un convinto “No”. Il passaggio a un mondo multipolare, sebbene possa essere auspicabile da molti punti di vista, non appare rilevante rispetto al problema che stiamo qui discutendo.

5. Il radicalismo antisistemico.

Abbiamo detto sopra che, fra le tante mancanze che impediscono la formazione di una realtà politica antagonistica alla dinamiche mortifere contemporanee, c’è anche la mancanza di un pensiero forte capace di informare di sé una solida base militante. Questo può apparire strano, visto che abbiamo parlato sopra del valore dell’attuale pensiero ecomarxista, e visto che, oltre alla scuola ecomarxista, nel mondo accademico internazionale vi sono molte altre correnti fortemente critiche verso l’attuale organizzazione economica e sociale. Il punto, che abbiamo più volte sottolineato, è che tale imponente messe di elaborazioni teoriche non riesce a tradursi in una effettiva azione politica. Si potrebbe sospettare che tale impotenza politica sia la spia di qualche serio limite teorico, che essa mostri una specie di “punto cieco” nel mondo del radicalismo accademico. Un’indagine approfondita su questo tema sarebbe, io credo, assai utile, e dovrebbe ovviamente discutere quello “spirito del tempo” conosciuto sotto il termine generico di “politicamente corretto”, e che rappresenta una delle forme di manifestazione del radicalismo antisistemico contemporaneo. In questo scritto non è possibile una simile disanima approfondita, e mi limito quindi a rilevare alcuni aspetti generali che, mi sembra, contribuiscono a questa impotenza politica del radicalismo accademico contemporaneo. Prenderò spunto dal testo di Fantini sopra citato, che è significativo proprio perché in esso c’è un lodevole sforzo di mettere a fuoco i problemi di cui stiamo discutendo.

In primo luogo il radicalismo contemporaneo non sembra tirare le conseguenze che discendono dalla presa di coscienza del fatto che la caratteristica fondamentale del capitalismo contemporaneo è il suo carattere “illimitato”, cioè il suo spingere al superamento di tutti i limiti. Alcune correnti radicali chiedono anzi una illimitatezza ancora più spinta, e in sostanza si configurano come correnti ultracapitaliste, che criticano il capitalismo per non essere abbastanza veloce nel suo superamento di ogni limite (si tratta dei cosiddetti “accelerazionisti” vedi [14]). Queste correnti sono però minoritarie, mentre la maggioranza del pensiero critico contemporaneo mi sembra abbia una coscienza abbastanza chiara di come l’illimitatezza del capitale rappresenti un grave problema. Il punto delicato è però il fatto che questa coscienza non si traduce in una chiara presa d’atto della necessità per l’umanità di restare dentro i limiti degli equilibri planetari, e quindi della rinuncia al consumismo, sia esso attuale o solo desiderato. Questa rinuncia riguarda tutti, non solo i ceti dominanti. Se si vuole transitare dal capitalismo ad una società non distruttiva di se stessa e del mondo, anche i ceti subalterni devono ristrutturare completamente la propria vita, le proprie aspirazioni e i proprio desideri. Per fare un esempio concreto, occorre ridurre i viaggi, specie i viaggi aerei, e in generale il turismo.

Si può leggere facilmente questa difficoltà nel testo di Fantini, quando egli propone come base di rivendicazioni, da parte dei ceti subalterni, la richiesta di aumentare i salari e contemporaneamente ridurre la produzione di merci [15]. È facile rendersi conto della contraddittorietà di queste richieste: a che servono i salari, se non ad acquistare merci? Se si aumentano i salari, aumenta la domanda monetaria, e quindi deve aumentare la produzione di merci, altrimenti l’aumento dei salari si traduce semplicemente in inflazione. La contraddizione è interessante proprio perché non si tratta di un lapsus individuale dell’autore citato, ma esprime le contraddizioni interne all’ambiente del radicalismo contemporaneo.

Un secondo aspetto dell’impotenza politica del radicalismo contemporaneo è legato alla sua radicata diffidenza nei confronti dello Stato. In sostanza il pensiero radicale contemporaneo, nella quasi totalità, ha nei confronti dello Stato un pensiero di fondo che è di tipo anarchico. Lo si vede, utilizzando ancora una volta il testo di Fantini, nelle pagine che egli dedica al tema, dove in sostanza arriva a proporre di “rompere l’alleanza fra capitale e Stato” [16], ma non sembra porsi il problema della presa del potere statale e del suo uso. Di nuovo, non è un problema specifico del testo in questione, è l’intero pensiero radicale a trascurare tale tema. Il problema è che queste scelte teoriche condannano all’impotenza. Se c’è una cosa che l’aggressione russa all’Ucraina ha dimostrato con smagliante chiarezza, è che, per usare uno slogan, le cose le fanno gli Stati: sono gli Stati ad agire, a cambiare le carte in tavola (o magari a rovesciare il tavolo). È solo attraverso il potere statale che si può ottenere un radicale cambiamento economico e sociale, ed è solo la forza, anche militare, dello Stato che può proteggere un simile cambiamento dai suoi nemici. Con questo non intendo negare che l’azione dello Stato possa essere la manifestazione di una determinazione da parte di altri livelli della realtà sociale, per esempio, marxianamente, del modo di produzione storicamente dato. Ciò può benissimo essere vero, ma il punto fondamentale è che queste altre sfere sociali, per essere storicamente significative, devono appunto attingere al livello della politica dello Stato, che rimane un passaggio ineludibile. Senza di esso non si concretizza nulla, sul piano della storia. Il fatto che il pensiero radicale contemporaneo nella sostanza si disinteressi di questo passaggio, è solo l’altra faccia della sua impotenza e inesistenza politica.

Come abbiamo già osservato, un esame approfondito del radicalismo antisistemico contemporaneo richiederebbe uno spazio molto maggiore. Queste brevi osservazioni vogliono solo essere una prima indicazione dei motivi per i quali si può sostenere che tale radicalismo non può in nessun modo essere d’aiuto nel contrastare le dinamiche mortifere del capitalismo contemporaneo.

6. C’è un futuro per l’Italia?

Chiudiamo questo intervento con qualche rapida osservazione sulle prospettive dell’Italia. Esse appaiono piuttosto cupe. Il nostro paese è oppresso dal peso di una serie di problemi che appaiono irresolubili: la debolezza dell’economia, che rende difficile qualsiasi politica redistributiva a favore dei ceti subalterni, il livello ormai irrecuperabilmente degenere del dibattito pubblico, la passività di una massa di popolazione che, pur vivendo nel quotidiano il lento peggioramento della propria vita, non riesce in nessun modo ad esprimere una qualche forma di opposizione, la miseria di un ceto politico-mediatico che appare totalmente asservito agli interessi di potenze straniere, tanto da rendere lo status del paese sempre più simile a quello di una specie di semi-colonia. Ora, a tutti questi problemi che restano irrisolti da decenni, si sta aggiungendo quello del cambiamento climatico. Quando si viene all’area mediterranea, gli studi sembrano indicare che la prospettiva più probabile sia quella di un progressivo inaridimento dell’intera area. Per fare solo un esempio, nell’ultimo rapporto dell’IPCC si scrive che “nel Mediterraneo (…) il futuro inaridimento supererà di gran lunga la grandezza dei cambiamenti visti nell’ultimo millennio”[17]. Per l’Italia, questo potrebbe significare un clima simile a quello attuale del Nord-Africa. Ora, è vero che si può vivere anche in un clima “nordafricano”, e lo provano appunto gli attuali Stati della sponda Sud del Mediterraneo. Ma mi sembra davvero dubbio che, dati i problemi elencati all’inizio, un’Italia “nordafricana” possa reggere il peso di una popolazione di 60 milioni di abitanti (in via di invecchiamento, fra l’altro). E che riesca a fare questo affrontando il problema delle grandi migrazioni causate dal cambiamento climatico, che attraverseranno il paese in cerca di salvezza da un clima divenuto impossibile. L’unico fattore che potrebbe aiutare il nostro paese sarebbe il passaggio a un mondo multipolare, del quale abbiamo sopra discusso in termini generali. Nel caso specifico del nostro paese tale passaggio, se affrontato in modo abile, spregiudicato, avendo come riferimento l’interesse dei ceti subalterni, aprirebbe indubbiamente spazi interessanti per ricontrattare gli assetti economici e geopolitici dell’Italia. Ma per fare questo ci vorrebbe un vero ceto politico, capace di autonomia e coraggio, come non sono certamente gli attuali politici italiani, di destra e di sinistra, che sono persone di scarso valore il cui unico ruolo è quello, come dicevamo sopra, di servire interessi stranieri.

Mi sembra che, in queste condizioni, lo scenario più probabile sia quello del crollo della struttura statale, probabilmente in anticipo rispetto al collasso generale dell’attuale società globalizzata. Il crollo dello Stato darà luogo nel nostro paese a scontri, violenze, crisi umanitarie di vario tipo, e probabilmente alla fine di una continuità culturale che è ciò che continuiamo a chiamare “Italia”. Poiché non vedo possibilità di sfuggire a un simile destino, mi sembra che l’unica scelta sensata per i giovani italiani, uomini e donne, sia quella dell’emigrazione, seguendo il consiglio di Gaia Vince [18]. In questo testo, nel quale non si parla specificamente dell’Italia, Vince sostiene che se lo sviluppo dell’attuale crisi climatica dovesse realizzare le previsioni peggiori, è probabile che gran parte delle attuali terre emerse diventerebbe inadatta alla civiltà umana, per esempio perché l’agricoltura sarebbe impossibile o scarsamente redditizia. In una situazione estrema di questo tipo, che purtroppo non si può escludere, le uniche zone del globo nelle quali potrebbe sopravvivere una civiltà organizzata sarebbero quelle della parte nord dell’emisfero nord, in particolare Scandinavia, Russia, Canada, Alaska, che al momento sono sottopopolate. È probabile, vista la maggiore fragilità del nostro paese, che queste osservazioni siano per noi ancora più significative. Possiamo aggiungere, per concludere, che se una tale emigrazione, oltre a salvare le vite dei giovani, portasse alla nascita di zone “italiane”, linguisticamente omogenee, con scuole e mezzi di comunicazione, questo potrebbe rappresentare una possibilità di sopravvivenza della tradizione culturale italiana, e quindi in sostanza del popolo italiano, risultato che non è affatto scontato, nelle tempeste che si stanno preparando.

Note

[1] https://www.stockholmresilience.org/

[2] Si può vedere per esempio il cap.5 del seguente testo: J.Rockström, A.Wijkman, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente 2014.

[3] Richardson, K., Steffen, W., Lucht, W., Bendtsen, J., Cornell, S.E., Donges, J.F., Drüke, M., Fetzer, I., Bala, G., von Bloh, W., Feulner, G., Fiedler, S., Gerten, D., Gleeson, T., Hofmann, M., Huiskamp, W., Kummu, M., Mohan, C., Nogués-Bravo, D., Petri, S., Porkka, M., Rahmstorf, S., Schaphoff, S., Thonicke, K., Tobian, A., Virkki, V., Weber, L. & Rockström, J. 2023. Earth beyond six of nine planetary boundaries. Science Advances 9, 37.

Si veda anche:

https://www.stockholmresilience.org/research/research-news/2023-09-13-all-planetary-boundaries-mapped-out-for-the-first-time-six-of-nine-crossed.html

[4] V. Smil, Come funziona davvero il mondo, Einaudi 2022

[5] U.Herrmann, La fine del capitalismo, Castelvecchi 2023

[6] A.Fantini, Un autunno caldo, Codice 2023

[7] M.Schmelzer, A.Vetter, A. Vansintjan, Il futuro è decrescita, Ledizioni 2023, pag.125. Nel brano citato gli autori stanno esponendo alcune tesi di Georgescu-Roegen. Il numero di pagina si riferisce all’edizione in ebook.

[8] “Policies currently in place with no additional action are projected to result in global warming of 2.8°C over the twenty-first century. “, United Nations Environment Program, The closing window. Climate crisis calls for rapid transformation of societies, Emission gap report 2022 pag.XVI. Il successivo rapporto del 2023 descrive come gli aumenti di temperatura, di emissioni di gas climalteranti, e di concentrazione atmosferica di anidride carbonica, continuino indisturbati. I rapporti UNEP si possono trovare al seguente indirizzo:

https://www.unep.org/resources/emissions-gap-report-2023

[9] Non è possibile dare conto in una nota della vigorosa e abbondante produzione teorica ecomarxista, che in Italia è purtroppo ancora relativamente poco nota. Il lettore interessato può cercare in rete i lavori di esponenti autorevoli di tale corrente, come J.Bellamy Foster, P.Burkett (purtroppo scomparso di recente), K.Saito, I.Angus. Si può inoltre consultare il sito gestito da Angus:

https://climateandcapitalism.com/

e naturalmente la “Monthly review”, storica rivista della sinistra statunitense, che oggi vede Bellamy Foster fra i redattori:

In italiano si posso trovare, a mia conoscenza, i seguenti testi

I.Angus, Anthropocene, Asterios 2020,

K.Saito, L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi 2023

A. Cocuzza, G.Sottile (cura di), Frattura metabolica e Antropocene, Smasher 2023

Molti articoli tradotti si trovano sul seguente sito:

https://antropocene.org/

[10] Si veda il saggio “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”:

https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1503-massimo-bontempelli-capitalismosussunzione-

nuove-forme-della-personalita.html

e inoltre i testi raccolti in M.Bontempelli, Un pensiero presente, Indipendenza-Editore

Francesco Labonia 2014, in particolare “Capitalismo e personalità antropologiche”,

pagg.49-62.

[11] M.Bontempelli “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”, cit.

[12] Si vedano le precedenti “lettere al futuro”:

http://www.badiale-tringali.it/2020/06/riflessioni-su-sinistra-radicale-e.html
http://www.badiale-tringali.it/2020/09/fra-antropocene-e-capitalocene.html
http://www.badiale-tringali.it/2020/10/il-muro.html
http://www.badiale-tringali.it/2021/03/fine-partita.html
http://www.badiale-tringali.it/2021/07/verso-il-collasso-lettere-al-futuro-5.html
http://www.badiale-tringali.it/2022/02/la-trappola-dellantropocene.html
http://www.badiale-tringali.it/2022/07/spiegare-lassurdo.html
http://www.badiale-tringali.it/2023/01/il-patto-suicida.html

e anche

http://www.badiale-tringali.it/2019/12/sulle-elite-contemporanee.html

[13] G.Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Il Saggiatore 2014

[14] A.Williams, N.Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza 2018.

[15] A.Fantini, cit., pag.191.

[16] A.Fantini, cit., pag.210.

[17] “In the Mediterranean, south-western South America, and western North America, future aridification will far exceed the magnitude of change seen in the last millennium (high confidence).” Sesto rapporto IPCC-WGI, capitolo 8, pag.1058. I vari rapporti IPCC sono liberamente scaricabili dal sito https://www.ipcc.ch/

[18] G.Vince, Il secolo nomade, Bollati Boringhieri 2023.

Genova, inizio 2024 [testo corretto 31-3-24] Pubblicato da Marino Badiale alle 09:09Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest

Fonte foto: da Google

4 commenti per “Un senso precipite d’abisso

  1. Giulio larosa
    2 Aprile 2024 at 7:44

    Ma perché ogni volta devo leggere che non resta altro che emigrare agli italiani intendendo fondamentalmente i duo siciliani? Xché non resta altro che fuggire da Ragusa o pescara mentre non si sente alcuna necessità di dover emigrare da Filadelfia da città del messico da Lagos Calcutta dakka, manchester o Bucarest?? In realtà 3/4 dei consumi energetici idrici e di cibo sono dovuti alla follia della società capitalista attuale. Esempio estremo la produzione di cibi che portano all obesità e la medicina che la cura lasciandoti dipendente per tutta la vita. Invece di fuggire in posti ben più orrendi di Enna, Chieti e Cerignola quello che serve è una sana rivolta della ragione per dirla con Ted Grant e questa rivolta può iniziare dal basso e perfino da quei posti da cui bisognerebbe emigrare secondo alcuni.

    • Fabrizio Marchi
      2 Aprile 2024 at 10:03

      Completamente d’accordo. Ho già espresso personalmente il mio dissenso all’autore per il finale dell’articolo che trovo anche un pochino surreale, a dirla tutta, oltre ad essere pervaso da un pessimismo radicale e assoluto che, per quanto comprensibile, non può che portare inevitabilmente alla passività e all’inazione. Il resto dell’articolo invece è largamente condivisibile.

  2. Giulio larosa
    2 Aprile 2024 at 18:14

    Il resto dell articolo è egregio e concordo pienamente

  3. Giulio Bonali
    4 Aprile 2024 at 10:14

    Dissento soltanto sulla valutazione delle cause della (conseguentemente irripetibile nell’ assenza di esse attuale e ragionevolmente prevedibile per il prossimo futuro) fase riformistica del capitalismo “nordoccidentale” nei primi quattro decenni del secondo dopoguerra.
    Per ma determinate fu la coesistenza relativamente pacifica ma in sostanza irriducibilmente, violentissimamente conflittuale (in quanto di un conflitto di natura classista si trattava) con l’ URSS socialista, principale vincitrice della barbarie nazista, e con i paesi della sua sfera di influenza sostanzialmente avviati, malgrado enormi difficoltà oggettive e limiti ed errori soggettivi dei loro gruppi dirigenti, verso profonde trasformazioni socialiste.

    Inoltre non sarei drastico come l’ amico Badiale nel concludere che probabilmente la rivoluzione socialista non la vuole “nessuno”.
    Mi ritengo (e cerco comunque di essere) un marxista conseguente, e dunque, fra l’ altro non dogmatico né semplicisticamente “oggettivista” (per ragioni filosofiche, ontologiche preferisco questo aggettivo a “determinista”, in quanto sono in realtà determinista) e dunque credo il materialismo storico correttamente inteso affermi che che in ogni momento della storia umana la relazione dialettica fra tendenziale sviluppo delle forze produttive (da intendersi, correggendo secondo un atteggiamento autenticamente scientifico, i classici Engels e Marx, in senso qualitativo e per lo meno a partire dalla metà del XX secolo assolutamente non quantitativo circa i beni e servizi materiali prodotti e consumati) e rapporti di produzione non imponga mai necessariamente un’ unica scelta ineluttabile all’ umanità, ma invece sempre un limitato e determinato “ventaglio di opzioni possibili”; o meglio: così considerabili “con buona approssimazione ai fini pratici”).
    Già il Manifesto del 1848 constatava nel passato e prevedeva, come eventualità a quei tempi inevitabilmente ritenuta “ragionevolmente” ma erroneamente improbabilissima, la “rovina comune delle classi in lotta” come sempre inevitabilmente possibile esito di ogni fase della lotta di classe alternativo alla “canonica” instaurazione di “superiori rapporti di produzione”.
    E dunque ritengo che né ineluttabilmente prima o poi la stragrande maggioranza degli sfruttati e non solo, né altrettanto ineluttabilmente “nessuno” (nell’ accezione qui bene spiegata da Badiale) sia a priori fatalmente destinato a volere il superamento rivoluzionario del capitalismo nel socialismo; ma che invece l’ integrazione, a tal fine necessaria, delle ineluttabili condizioni oggettive (necessarie ma non sufficienti), già da tempo presenti, da parte di adeguate scelte soggettive di massa dipenda da scelte collettive (e in qualche misura e per qualche aspetto individuali e di natura etica: per esempio fra lunghe, asperrime, sanguinose lotte e durissimi sacrifici in termini di benessere materiale in larga misura inevitabili per la possibile ma non ineluttabilmente certa vittoria della rivoluzione e comodi e “materialisticamente” -o meglio: edonisticamente- gratificanti compromessi riformistici, peraltro possibili solo in una piccola parte del mondo e sulla pelle della stragrande maggioranza dell’ umanità; ma pure fra la frugalità necessaria anche solo alla conservazione della stessa umanità a prescindere dagli assetti sociali che si potrebbe dare e in alternativa il possibile -anche se per pochi e in ben diversa misura anche fra questi!- godimento di miopi, grette, meschinissime, egoistissime, letteralmente disumane comodità edonistiche al presente e nell’ immediato futuro: vedi l’ illuminante esempio citato da Marino Badiale della questione della scelta fra auto elettriche -a prescindere dal carattere illusorio della loro pretesa “compatibilità ambientalistica”- ed auto a motore termico).

    Sui motivi dell’ incapacità di fatto per la corretta consapevolezza teorica dei termini del drammatico problema, pur esistente a livello di ristrette elitès intellettuali, di diffondersi a livello di massa e diventare “mentalità diffusa” così da poter incidere efficacemente sulla pessima realtà dei fatti in fieri la mia opinione é molto diversa da quella dell’ amico Marino Badiale.
    Per me infatti determinante in proposito é soprattutto l’ imporsi della falsa credenza sul preteso “fallimento” o “implosione” del cosiddetto “socialismo reale”.
    Senza negare i gravi limiti ed errori (ANCHE) che hanno caratterizzato quelle esperienze storiche (direi quasi “ovviamente”, almeno in qualche misura, data l’ enormità dell’ impresa), non si é trattato del “naturale” afflosciamento di pessimi tentativi di percorrere vie dell’ inferno lastricate di buone intenzioni, ma della sconfitta in una guerra sanguinossissima condotta innanzitutto dai suoi avversari -e ovviamente e giustamente, eticamente non solo- senza esclusione di colpi, impiegando i mezzi più abbietti e disumani disponibili.
    Una guerra che alla fine é stata vita dai nemici dell’ umanità dopo averle pesantemente condizionate in senso negativo (“complementarmente” ai miglioramenti riformistici che il “socialismo reale” stesso ha imposto al capitalismo reale nei “trent’ anni gloriosi”) contro esperienze non affatto semplicisticamente liquidabili come “fallimentari”, ma invece caratterizzate anche da importantissimi elementi di autentico progresso umano e civile, come la diffusione a livello di massa di un discreta cultura al posto di una preesistente e altrove coesistente nel capitalismo ignoranza diffusa; ma in particolare anche da conquiste di capitale importanza per la salvaguardia dell’ ambiente naturale necessario alla sopravvivenza umana come la pianificazione centralizzata dell’ economia (produzioni e consumi bene o male “calcolati a priori”) e la preferenza per mezzi di trasporto e per la fruizione di esperienze di vita “ricreative” o dilettevoli collettivi anziché individuali. Qui mi aspetto da molti la solita obiezione dei disastri ambientali verificatisi (ANCHE E NON SIGNIFICATIVAMENTE DI PIU’ CHE ALTROVE, come vorrebbero farci credere) nel socialismo reale; ma a questo proposito vale il discorso dei condizionamenti negativi subiti dal capitalismo reale in generale e in particolare quanto Marino Badiale dice circa ciò che é costretta a fare nell’ attuale contesto internazionale estremamente conflittuale la Cina, che sia socialista o sulla via della realizzazione del socialismo o meno, cosa su cui pure io sospendo il giudizio.
    Questo falso pregiudizio sul preteso “fallimento” del “socialismo reale” secondo me pesa come un macigno sulla possibilità a livello di massa di prendere in considerazione come desiderabile la prospettiva dei cambiamenti rivoluzionari indispensabili alla sopravvivenza dell’ umanità in quanto induce a ritenerli una presunta “buona intenzione lastricante (pretese) vie dell’ inferno”

    Per il resto concordo nella sostanza (salvo considerazioni e dettagli che considero per lo meno “secondarie” relativamente alla terrificante posta in gioco), e in particolare con le conclusioni insuperabilmente pessimistiche (“della ragione”).
    Il che non mi pare comunque un valido motivo per smettere di lottare per il socialismo, ergo (fra l’ altro) per la sopravvivenza e lo sviluppo della civiltà umana.
    Come ho già detto e scritto varie volte (probabilmente anche qui: abbiate pazienza, sono un vecchio semiricoglionito; e fra l’ altro per far prima da qui in poi in gran parte “copio-incollo”), anche se, come é assai probabile, questa lotta “sacrosanta” si dovesse concludere con una sonora sconfitta va comunque combattuta col massimo sforzo per l’ esigenza etica di vivere degnamente, di “fare il proprio dovere morale di persone buone e giuste”. Perché, come sostenevano fra gli altri gli antichi stoici (e il teista -cristiano- Severino Boezio nella splendida Consolazione della filosofia [N.B.: e NON della religione, con le sue pretese pene e i suoi pretesi premi eterni, in cui pure credeva!!!] “la virtù é premio a se stessa”, anche a prescindere dai risultati effettivamente conseguiti o meno.
    Anche se l’ esito delle nostre lotte dovesse essere la sconfitta, esse dovrebbero comunque essere combattute fino in fondo, “fino alla disperazione”.
    E mi consola e conforta anche (residuo insuperato della educazione religiosa ricevuta in famiglia nella mia lontana infanzia?) il pensiero che certamente nell’ universo infinito:
    da qualche parte, su altri pianeti la vita é comparsa (e comparirà) ma non ha superato (e non supererà) la condizione dei batteri procarioti o altre più o meno analoghe forme “elementarissime”;
    da qualche altra parte non ha superato (e non supererà) la condizione degli eucarioti monocellulari o “similia”;
    da qualche altra parte non ha superato (e non supererà) la fase comprendente animali e piante pluricellulari (o “similia”) ma non dotati di linguaggio, autocoscienti, erogatori di pluslavoro, iniziatori, sul tronco della storia naturale, di una storia “similumana” (come siamo noi uomini terrestri; così sarebbe stato anche su questo nostro pianeta se, per qualche anche modesta diversità delle sue condizioni fisiche, chimiche, biologiche di allora, insieme ai dinosauri si fossero estinti anche i precursori degli odierni mammiferi;
    da qualche altra parte (come quasi sicuramente da noi) la presenza umana (o “similumana”) non ha superato (e non supererà) la fase capitalistica (o “similcapitalisitica”) della sua storia civile ed é esitata (ed esiterà) nella sua “estinzione prematura e di sua propria mano” (Sebastiano Timpanaro);
    Ma da qualche altra parte ancora certamente il potenziale superamento del capitalismo (o “similcapitalismo”) certamente si é attuato e si attuerà. E quei fortunati soggetti coscienti che che l’ hanno e l’ avranno vittoriosamente conseguito pensano e penseranno a noi sfortunati che altrove siamo (e saranno) stati sconfitti con rispetto e ammirazione, come noi pensiamo a Spartaco, a Hus, a Gioacchino da Fiore, a Giordano Bruno, ai Comunardi, a Salvador Allende, a Thomas Sankara e a tanti altri rivoluzionari caduti ma in realtà non sconfitti

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