Non può che stupire l’enorme produzione di libri. Le case editrici sono in media fonte di produzione di libri. In genere, quasi sempre, la pubblicazione di un testo prevede l’elargizione di notevoli somme di denaro. Il libro è così svilito allo status di merce. Una merce che spesso non risponde a una visione del mondo, semplicemente soddisfa la vanità e il narcisismo dell’autore. Nello società dello spettacolo, si è alla estrema ricerca di approvazione sociale e di soddisfazione del proprio narcisismo. Il libro è diventato uno tra gli innumerevoli mezzi per affermarsi. L’autore non più attento ai contenuti o a una visione del mondo, soddisfa un desiderio tra i tanti. Non a caso la pubblicazione è singola e non ha seguito. Senza una visione del mondo che trasforma la propria esistenza in un’opera d’arte, ovvero in impegno quotidiano, l’interesse per la pubblicazione decade velocemente. Si attende, un po’ ingenuamente, il successo editoriale, si utilizza il libro come fosse un fondo di investimento da cui trarre guadagno o quanto meno rientrare nelle spese.
“Chi non ha incontrato autori che sollecitavano l’acquisto del proprio testo?”
Si incontrano nella mercificazione totalitaria del libro le componenti essenziali del capitalismo contemporaneo. L’illimitato desiderio di affermazione sollecitato dal capitalismo attraverso la perpetua campagna di rieducazione al culto idolatrico dell’io narcisistico; il calcolo delle entrate e delle uscite, la mente è ridotta a semplice calcolatore, pertanto si conteggiano entrate e uscite finanziarie, l’autore in preda allo scollamento dalla realtà sogna il successo; il mercato delle case editrici che incoraggiano i “talenti” per il loro lucro, ben sapendo che il “capitale” ha prodotto in serie personalità fragili che oscillano tra l’ingenuità e la tracotanza di sé. L’incultura regna sovrana, in quanto il pensiero che esige la fatica del concetto è considerato meno di niente, pertanto fulminati dalla propria vanità e abituati alla solitudine si giudica il pensare un’attività meccanica e automatica; la decadenza della formazione, specie nei più giovani, rende inconsapevoli, per cui si punta sull’investimento senza pensare alla qualità e al senso della pubblicazione. La produzione di libri e di autori che durano lo spazio di un mattino sono il segnale di una realtà sociale curvata fanaticamente alla sola quantità. La categoria della quantità è selettiva, in quanto la maggior parte degli investitori del libro, verificato che il successo materiale è solo una chimera, si ritira dal mondo dei libri, in quanto deluso nelle sue aspettative. La quantità è categoria totale, ho visto in tv la presentazione del testo di un saggista, l’editore per pubblicizzare il testo lo ha agguantato e mostrato al pubblico la pesantezza del testo e il numero delle pagine. La quantità incombe anche sulle persone migliori, è diventata la verità non vista e non pensata nella quale siamo malinconicamente gettati. L’industria de libro con le sue apparizioni e sparizioni non è, come spesso capita di sentire, una forma di democratizzazione della pubblicazione dei testi, in quanto la democrazia presuppone la qualità e il libero accesso consapevole alle pubblicazioni. Siamo dinanzi ad un accesso per censo e per reddito. Il prodotto libro rientra nel ciclo di produzione e consumo.
Le produzioni accademiche devono sottostare agli stessi criteri quantitativi: un accademico vale per il numero di pubblicazioni e articoli, questi ultimi su riviste selezionate da una nomenclatura di “altissimi signori e padroni della parola”. Anche in questo caso abbiamo davanti a noi l’immagine di una realtà senza qualità e senso oggettivo. Le logiche clientelari e di censo prevalgono sulla fatica sociale dello spirito.
Il capitale con le sue logiche è dentro di noi, agisce e induce ad essere parte del ciclo di produzione, assimila con le parole buone e suadenti: creatività, stima di sé, espressione delle potenzialità nascoste ecc. Prima di pubblicare testi bisognerebbe procedere all’esame di tali parole che avvolgono il potenziale autore in modo da capire, se siamo parlati dal “mondo capitale” o da noi stessi. Se in noi dopo attento esame c’è la passione mossa da parole vere, allora bisognerebbe procedere alla pubblicazione, in quanto si è parzialmente liberi, almeno, dai tentacoli del “capitale” che omologa e produce utili con le parole vuote degli slogan che a volte risuonano in noi, ma sono solo echi che provengono dalle tenebre del capitalismo.
Le università di Pisa, Warwick e Aalto hanno stimato che pubblicare articoli su riviste scientifiche predatorie ha avuto un costo di circa 2,5 milioni di dollari per i ricercatori italiani saccheggiati dalla precarietà e dalle pubblicazioni. Il 30% dei libri, inoltre, vende zero copie.
Anche i vincenti del libro non si sottraggono alla mercificazione, capita spesso che autori già noti nei loro interventi espongono i loro testi. L’autopromozione è la morte del pensiero, sottrae credibilità anche ai pensatori più validi. Il libro di qualità si testimonia con la vita.
La capacità predatoria del “capitale” è inaudita, si infiltra ovunque e trasforma ogni esperienza in profitto trasformando le fragilità e le illusioni di molti in mezzo. Sotto le macerie del mercato del libro possiamo immaginare un numero considerevole di esseri umani che hanno investito le loro poche risorse. Alcuni ne escono indenni altri vivono una esperienza dolorosa e depressiva che incide nella loro vita personale e relazionale.
Adeguamento o lotta?
Per difendersi dalle illusioni che il “capitale” instilla l’unico modo è imparare a conoscersi per capire se la scrittura risponde ad un bisogno profondo di concettualizzazione del reale o è solo un abbaglio momentaneo. Difendersi dalle spire del capitalismo non è mai semplice per nessuno, per cui è preferibile combatterlo politicamente e trovare le ragioni per lottare lungamente. Ci si sottrae in tal modo alle insidie spinose del “capitale”. Si è sempre ad un bivio come ci ha insegnato Parmenide, sta a noi scegliere tra δόξα e ἀλήθεια. Non bisogna disperare, vi sono case editrici, spesso minori, che faticosamente restano fedeli alla qualità, sono il nostro “porto sicuro”, mentre il mare è in tempesta. Sono il rifugio che prepara il “mondo nuovo” già nel presente, in quanto sono comunità dove si pensa il mondo per trasformarlo, mentre nelle grandi case editrici si riproduce il mondo del capitalismo. Le case della cultura ci sono, rendiamole vive con la nostra lucida presenza e con la speranza dell’impossibile che prende forma nel possibile. La prima rivoluzione è dunque la definizione di libro per incamminarci sul sentiero della verità e sottrarlo alle spire del capitale. Il libro è la storia di un’anima, in esso vive il pensiero dell’autore, è il punto finale di una lungo tormento interiore in cui prendono vita le contraddizioni, le domande, le inquietudini e le risposte di un’epoca. Il libro conserva nella carta le parole e i sospiri di una comunità. Non è una merce, per cui difendendo i libri dalla loro banalizzazione e mercificazione difendiamo l’umanità tutta, perché il pensiero è il fine di ogni processo di umanizzazione. La qualità di una civiltà si misura anche e specialmente dal rapporto che intrattiene con la lettura, la scrittura e i libri. Il capitale ha trasformato i libri in produzione finalizzata al plusvalore e alla visibilità, da ciò non possiamo che trarre le logiche conseguenze sulla qualità della civiltà a forma di capitale. La violenza è ad esso consustanziale, pertanto sta a noi scegliere la strada da percorrere. Siamo sempre ad un bivio, ogni nostro gesto denuncia il livello di consapevolezza raggiunto. Sottrarsi alle logiche del capitale è sempre una vittoria, perché su di esso vince l’umanità. Sembra impossibile, ma tale miracolo accade e accadrà in modo sempre più solido e strutturato. “I porti sicuri” sono luoghi da cui partono concetti che creano nuovi mondi e contengono l’avanzata del deserto anche nella forma cartacea. La tempesta si affronta con la qualità delle parole.