Tra le persone anche non molto celebri che sono andate (parafrasando Conchita De Gregorio) alla manifestazione del 25 novembre per la giornata contro la violenza sulle donne non è mancata anche la figlia del premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, il quale, essendo lui al contrario molto celebre – per cui anche se non ci è andato di persona vale per estensione il pudico classismo segnalato qui sull’Interferenza da Ferdinando Pastore – qualche giorno dopo ha dato un’intervista [1] in cui afferma, senza troppe sorprese, visto le posizioni della redazione di dove si è concesso, che “l’assassinio di Ipazia è l’esempio di una mentalità patriarcale che sopravvive ancora oggi” e più avanti “era una donna che non stava al suo posto, aveva una vita pubblica, insegnava e non temeva di prendere posizione…”. Poco dopo sembra affermare che “se fosse stato un matematico uomo non sarebbe stato ucciso”. Infine, chiosa che ci sarebbe una similitudine tra i nostri tempi e quelli del V secolo dopo Cristo nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo, speculando sul fatto che i Romani non capissero a fondo la filosofia greca e che fossero interessati solo alla tecnica. Naturalmente va da sé che per la stampa mainstream qualsiasi cosa dica un premio Nobel in un campo che non è il suo diventa subito una sorta di testimonianza oracolare, probabilmente dovendone anche forzare il pensiero [2]. Questa serie di affermazioni strampalate e discutibili dimostrano in verità solo una scarsa conoscenza della reale storia di Ipazia di Alessandria, filosofa e astronoma, e della storia in generale del V secolo d.C., ma sono interessanti per comprendere il clima nazional popolare che è stato creato attorno al 25 novembre dell’anno 2023 in seguito alla tragica sorte di Giulia Cecchettin, in cui tanti molto celebri, come Parisi, si sono affannati a dire la loro, attratti o viceversa cercati, come opinionisti femministi per caso dalle redazioni dei giornali, salvo qualche notevole eccezione, per portare acqua al mulino della narrazione dell’aborrito patriarcato.
Come per le sorelle Mirabal è molto probabile che l’assassinio di Ipazia sia stato un omicidio politico [3]. Dico molto probabile perché la lontananza temporale del V secolo si fa sentire, e dobbiamo affidarci solo a fonti di seconda mano e resoconti di persone che hanno interesse a presentare la cosa dal loro punto di vista politico o religioso. Su Ipazia si è costruito nel tempo un castello di speculazioni che l’hanno portata ad essere un’eroina del libero pensiero, una femminista ante litteram e persino una grande scienziata di cui qualcuno (maschio ça va sans dire) ha nascosto o fatto sparire le sue scoperte.
Tralasciando la similitudine tra il nostro tempo e il V secolo d.C. o la trita questione se fossero i romani o i greci ad essere più o meno colti, per quanto scontate e banali le affermazioni di Parisi avrebbero interesse per dirimere uno dei totem della artatamente malconcia definizione di femminicidio nei media mainstream ma anche in bocca a molte ragazze dichiaratesi femministe che credono di lottare contro il sistema patriarcal-neoliberale. Infatti, è interessante considerare se sia vero che “un matematico uomo non sarebbe stato ucciso”, ossia se Ipazia sia stata uccisa proprio in quanto donna che è la classica tiritera conosciuta a memoria ormai da ogni donna (e uomo), femminista o casalinga di MonteCucco, essendo il cardine, e allo stesso tempo la parte più oscura, della definizione di femminicidio strombazzata ai quattro venti dai media mainstream ed apparsa anche nei documenti ufficiali delle commissioni parlamentari che hanno trattato questo tema.
Per capire questo dobbiamo far ricorso a chi ha studiato le fonti e ne ha dato un’interpretazione coerente nei limiti di quello che si può capire di un mondo molto lontano da noi, per questo motivo da qui in avanti mi riferirò quasi sempre al pregevole libro di Silvia Ronchey Ipazia la vera storia[4] testo fondamentale per capirci qualcosa dell’omicidio della filosofa alessandrina del V secolo. Già dall’introduzione possiamo comprendere come le cose prendano subito una piega molto diversa da quanto ci si potrebbe aspettare; scrive l’autrice (pag. 11): Siamo certi, o quasi, di ciò che quella donna non è stata. Non una filosofa cinica, non una criptocristiana, non una scienziata perseguitata dalla chiesa per le sue scoperte astronomiche, non una protofemminista. In generale nulla di tutto quello che hanno voluto vedere in lei, con più o meno conscia o deliberata sublimazione o mistificazione, gli storici e i letterati che hanno disegnato la sua fortuna postuma.
Ipazia era figlia di Teone, filosofo e matematico, discendente di pacati professori nella civile Alessandria… fin da piccola, raccontano le antiche fonti, Ipazia era stata allevata allo studio. Da Teone aveva imparato tutto quello che poteva. Ma non si era accontentata della disciplina del padre, aveva voluto imparare di più… l’allieva era ancora più intelligente del maestro (pag. 16). Ipazia insegnava ‘geometria’, fondamentalmente le basi su cui era costruito il sistema tolemaico, ma non disdegnava probabilmente qualche incursione in altri campi del sapere come il neoplatonismo. Ebbe molti allievi, alcuni sembra persino innamorati di lei, ma che sempre respinse, in modo anche un po’ estremo: lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente (pag. 28). Quello che è certo è che Ipazia apparteneva all’aristocrazia di Alessandria (come le sorelle Mirabal appartenevano in altro tempo e in altro luogo alla buona borghesia), e che questa aristocrazia si appoggiava ancora all’Impero Romano d’Oriente: Complessi rapporti legavano nel quarto e quinto secolo dell’impero i governatori romani alle élite autoctone dei territori provinciali. Trasmesso per nascita, fra i secolari privilegi di casta c’era quello di una speciale educazione ‘ellenica’ dalla forte connotazione politica. Influente nell’aristocrazia, erede della dinastia intellettuale che faceva capo alla scuola del Museo, Ipazia, ci fanno capire le fonti, era soprattutto maestra del ‘modo di vita ellenico’(pag.38). Per cui ella era sicuramente un’importante alleata del potere centrale, rappresentato ad Alessandria dal prefetto augustale Oreste. “Tu hai sempre avuto potere. Possa tu averlo a lungo, e possa tu di questo potere fare buon uso” si legge nella lettera di raccomandazione per due giovani amici, espropriati dei loro beni, che le indirizzò il più devoto dei suoi allievi Sinesio (pag.39). Ipazia era esattamente al suo posto in quanto protettrice della cultura ellenica, tutt’altro che una ribelle ante-litteram.
Ma nell’Alessandria dell’inizio del V secolo d.C. quello di Oreste, e di Ipazia, non era l’unico potere, l’altro polo era rappresentato dal vescovo cristiano Cirillo. Vi era una lotta tra i due poteri per cercare di dominare da soli: nel V secolo d.C. …prende avvio la trasformazione delle classi dirigenti nelle diverse regioni dell’impero indotta dal legittimarsi politico della chiesa dopo l’ascesa del cristianesimo a religione di stato, permessa dall’editto di tolleranza del primo imperatore di Bisanzio, Costantino, e poi imposta dall’’editto di intolleranza’ di Teodosio. Nella città della grande provincia bizantina sarà d’ora in poi il vescovo, non più il filosofo, come in precedenza a farsi consigliere e ‘garante civico’ del rappresentante dello stato. “il vescovo cristiano deve avere il monopolio della parrhesia!” si è scritto, proponendo appunto sul caso Ipazia, un sillogismo storico fin troppo immediato: se nella fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo il ruolo del filosofo e del vescovo vengono a sovrapporsi, cosa fa il vescovo se non eliminare il filosofo? (pag. 41-42). Scrive citato da Ronchey il contemporaneo Socrate Scolastico: Il fatto che Ipazia si incontrasse spesso con Oreste…fece nascere nel popolo della chiesa il sospetto che in realtà fosse proprio Ipazia a non lasciare che Oreste si riconciliasse con il loro vescovo (pag. 43).
Cirillo aveva molto potere, soprattutto aveva al suo servizio una truppa di monaci del deserto, i parabalani, considerati dei fanatici zeloti, agitatori, definiti esseri abominevoli, vere bestie. Vent’anni prima i fanatici cristiani avevano distrutto il Serapeo decapitando la statua del dio, nel 414 d.C. sotto gli ordini di Cirillo, i parabalani si scagliarono contro gli ebrei di Alessandria dando luogo ad un pogrom e costringendoli all’esilio. L’anno successivo lo stesso corteo di Oreste viene attaccato: una pietra, …raggiunge Oreste fin dentro la carrozza, lo ferisce alla testa (pag. 55).
Nello stesso anno l’invidia per la sapienza di Ipazia e per il favore che lei ha presso Oreste si impossessa di Cirillo: la fatale rivalità del vescovo verso il filosofo, dunque; e certo anche la naturale gelosia del chierico per la donna di mondo. “Un giorno” si legge in Suida, “accadde al vescovo dell’opposta setta Cirillo, mentre passava davanti alla casa di Ipazia, di vedere una gran ressa di fronte alle sue porte, insieme di molti uomini e di cavalli, alcuni che entravano, altri che uscivano, altri ancora che sostavano lì in attesa. Avendo domandato cosa fosse quella folla, e il perché di un tale andirivieni intorno a quella casa, si sentì dire che era il giorno che Ipazia riceveva” (pag. 58).
Poco tempo dopo avviene l’omicidio: i parabalani attaccarono il corteo di Ipazia e la uccidono sembra prima scorticandola con cocci aguzzi (ostraka) e poi facendola a pezzi. L’omicidio fu insabbiato per motivi sembra di corruzione o forse a causa di un’altra donna di potere, Pulcheria, l’imperatrice reggente devota cristiana seguace di Cirillo, nonostante esso fosse stato denunciato e vi fosse stata un’indagine. Il vescovo, quasi sicuramente il mandante, fu assolto sul piano giudiziario, non su quello politico teologico in quanto la sua dottrina, il monofisismo sarà poi condannata dal concilio di Calcedonia. Tuttavia, tutta la cultura bizantina si schiererà a favore di Ipazia contro Cirillo, mentre quella cattolica in parte continuerà a difenderlo fino ai nostri giorni [5]. È il caso di notare come l’invidia mortale di Cirillo, la follia, irrazionale accesso di frustrazione secondo Ronchey, che gli fa decidere per l’omicidio, fa sicuramente eco con quella del dittatore Trujillo nel caso Mirabal [3].
A questo punto possiamo già affermare che l’omicidio di Ipazia fu quasi sicuramente un omicidio politico: l’eliminazione di una pericolosa rivale che ostacolava la piena presa del potere da parte del vescovo di Alessandria. Quindi di certo Ipazia non fu uccisa in quanto donna ma in quanto rivale politica. Il fattore dell’invidia verso la donna di mondo, una qualche forma di misoginia di un vescovo cristiano del V secolo d.C.non era improbabile ed ha certamente contato, ma questo è bilanciato dal fatto che per molti, quasi per tutti quello di Cirillo fu un errore, un’imprudenza, un’insensata pazzia (fatta eccezione per una parte dei cattolici come detto). Come nel caso delle sorelle Mirabal [3], quasi tutti giudicarono l’omicidio un fatto molto grave, una macchia indelebile sull’opera di Cirillo. Il motivo è ovvio per chi non crede alle superficiali affermazioni della ‘mentalità patriarcale’: non è affatto vero che il ‘patriarcato’, se vogliamo proprio usare questo termine per caratterizzare un modello sociale nei tempi precedenti la rivoluzione industriale, fosse ostile alle donne. L’omicidio di una donna è sempre stato considerato più grave di quello dell’uomo da sempre sacrificabile. È alquanto curioso che l’indignazione suscitata oggi dal caso Cecchettin trovi oggi un eco nell’indignazione, quasi universale, per l’omicidio di Ipazia, testimoniando una volta di più che la donna è il genere degno di protezione al contrario dell’uomo. Se al posto di Ipazia ci fosse stato un Teone o un Sinesio, non avrebbero certo avuto la stessa fortuna postuma: sarebbe passato come un omicidio ‘normale’ conseguenza politica della lotta tra l’emergente cristianesimo e l’aristocrazia ellenica, persino a Oreste poteva andare peggio con quella pietra, le cronache avrebbero semplicemente annotato che un prefetto augustale morì a causa di una rivolta di fanatici. Altri due passaggi dal libro della Ronchey fanno ulteriore chiarezza:
L’assassinio di Ipazia traumatizzò tutto il mondo della cultura e tutta la classe alta dell’Impero Romano d’oriente ormai a ogni effetto impero bizantino. Da Damasco in poi, la storiografia laica ha riflettuto sull’assassinio di Ipazia facendone l’emblema dell’odio contro la cultura di un dogmatismo politico populistico e demagogico, l’evento simbolo dell’intolleranza e della fanatica violenza di cui la mentalità chiesastica può essere capace quando una religione, o un’ideologia pervasiva, diviene ideologia di stato e inaugura il suo connubio con il potere statale (pag. 127).
Il contrasto tra Ipazia e Cirillo è stato tradizionalmente letto nei termini di un conflitto tra religioni e tra opposte filosofie e visioni del mondo, come un dramma confessionale e ideologico la protagonista paga con la vita “l’onorevole libertà di parola” (semneparrhesia) propria del filosofo pagano, che la pone in discordia col vescovo cristiano, figura maschile antitetica alla sua, aggressivo propugnatore di una fede popolare quanto Ipazia è sostenitrice dell’ellenismo aristocratico, che la avvicina, contro il radicalismo cristiano, al tollerante pragmatismo del governo romano. Ma questo non è vero, o lo è solo in parte. Il dramma è più concretamente e contingentemente politico. Nella tragedia di Ipazia il potere statale, personificato in Oreste, ha un ruolo non inferiore a quello di Cirillo, e il coro è formato dagli ebrei. Gli elementi in conflitto non sono tanto paganesimo e cristianesimo quanto le classi dirigenti (locale e romana), le categorie sociali (antica aristocrazia, nuova nomenklatura ecclesiastica), i bellicosi gruppi etnici, nel clima di instabilità che accompagna il passaggio dei poteri e l’instaurarsi del ‘nuovo credo’(pag. 182).
Naturalmente non si può non essere dalla parte di Ipazia nel suo conflitto con Cirillo, ma attribuire con disinvoltura le categorie post-moderne [6], già di per sé fallaci, ad un evento accaduto nel V secolo d.C. è testimonianza di una certa superficialità che viene abilmente sfruttata dall’invasivo pensiero unico per propagare l’idea di un patriarcato asfissiante e femminicida, funzionale alla Grande Narrazione femminista. L’inganno del discorso che si astrae dalla realtà dei fatti diventa così impalcatura ideologica, il presunto dominio maschile, una sovrastruttura che si sovrappone al reale generando falsa coscienza.
[1]Il premio Nobel Parisi, Ipazia e il patriarcato: «Sopravvive ancora oggi nei femminicidi»
[2] L’affermazione se fosse stato un matematico uomo non sarebbe stato uccisonon è tra i virgolettati delle affermazioni di Parisi, sembra che sia qualcosa detta da lui forse con altre parole non riportate o una deduzione del giornalista che lo ha intervistato e/o scritto l’articolo (peraltro non firmato). C’è da dire anche che il riferirsi a Ipazia come ‘collega’ di Parisi, altra affermazione di chi ha scritto il testo,appare riduttiva per entrambi dato che gli accomuna al massimo solo l’essere insegnanti di cose scientifiche, neanche della stessa materia probabilmente, ma tutto il resto è quasi certamente completamente diverso a cominciare dal problema di dover far riferimento alle fonti che raccontano la storia di Ipazia valutabili solo da chi ha una profonda esperienza nello studio della storia e della letteratura del V secolo d.C..
[3] Giacomo Rotoli, Femministe per caso, L’interferenza 20 novembre 2022.
[4] Silvia Ronchey, Ipazia la vera storia, Rizzoli 2010. Le pagine citate sono tratte dalla decima edizione del 2020.
[5] Scrive a proposito la Ronchey: La posizione ufficiale della chiesa cattolica, nonostante le scuse e le richieste di perdono dispensate un po’ a tutti tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo, e malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio, deplorato invece, come si è visto, dalla rivale chiesa ortodossa, non ha mai voluto chiedere perdono a Ipazia né mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Fino alla celebrazione che ne farà il 3 ottobre 2007 Benedetto XVI, lodando la “grande energia” del suo governo ecclesiastico “senza spendere due righe” come è stato osservato “per assolverlo da quell’ombra che la storia ha fatto pesare su di lui”(pag. 92, i virgolettati sono tratti da un articolo di Umberto Eco sull’Espresso dell’aprile 2010).
[6] Nel libro della Ronchey vi è un ampio commento bibliograficosulla ‘santificazione’ di Ipazia da parte del femminismo dei gender studies, dove l’autrice stronca anche le fantasie che la volevano una proto-Galilei o Copernico, della quale vale la pena citare qualche frase: la storia femminile…(è) l’ambito degli studi nel quale più recentemente e più frequentemente il personaggio di Ipazia ha destato attenzione e addensato scritti e ricerche, specialmente della scuola post-femminista. Purtroppo, quasi tutti gli studi apparsi in questo ambito hanno tratto, sia dai dati sulla morte violenta di Ipazia, sia da quelli sulla sua vita, funzione politica e condizione sociale e sulla sua attività filosofica, o sacerdotale, ricostruzioni fervide quanto pretestuose, réveries fantasiose, affidate più spesso all’arbitrio che all’esame delle fonti e più spesso, ancora una volta, funzionali alle mode del presente – il femminismo, il neospiritualismo new age, la controstoria della scienza – che all’effettiva comprensione di quella del passato(pag. 276).E ancora, limitandoci al caso italiano: …piuttosto che del saggio scientifico, mantiene spesso i toni della réverie. …Al vezzo di fantasticare su Ipazia e all’espediente letterario di ‘tradurre’ le memorie delle sue lezioni di un suo contemporaneo e allievo…(l’autrice) la presenta come una teorica del pensiero femminista(pag. 286).