Qual è oggi il progetto nazionale palestinese? Di fronte alla tragedia di Gaza è lecito interrogarsi sul dato che l’equilibrio delle forze in campo, considerando in primo luogo quella di Israele, è sempre stato storicamente sbilanciato a sfavore del popolo palestinese? É corretto insinuare il dubbio che questo impari rapporto di forza sia anche dovuto a una inadeguata leadership del movimento nazionale palestinese? Prima di rispondere a queste domande è opportuno sottolineare che la cruenta e drammatica vicenda attuale, sviluppatasi dal 7 ottobre, a prescindere dal giudizio politico su Hamas, ha riproposto con grande forza, internazionalizzandola, la questione palestinese che per troppi anni era dormiente, fuori dalle priorità delle cancellerie delle più importanti potenze regionali e mondiali.
In premessa delle mie riflessioni sul tema tengo a rimarcare che l’intento non è quello di giustificare l’azione criminale che lo Stato di Israele sta commettendo a Gaza. Un crimine contro l’umanità. Con questo intervento si intende cercare invece la risposta ad una domanda fondamentale: come mai, dopo circa cento anni, la questione palestinese non ha avuto una soluzione con l’esito della costruzione di uno Stato, la cui formazione è ancora oggi considerata da molti storicamente ineluttabile.? Ovviamente sulla mancata soluzione forti sono le responsabilità del sionismo che ha permeato lo Stato di Israele, delle potenze coloniali, in primo luogo della Gran Bretagna e dell’imperialismo statunitense, insomma dell’Occidente nel suo insieme. Inoltre, un’altra delle cause dell’impossibilità di trovare un accordo risiede nelle divisioni, vere proprie fratture, nel mondo arabo e islamico. Tutto ciò comunque non toglie che vi siano stati limiti e insufficienze nel movimento nazionale palestinese. Da questa specifica considerazione parte e si sviluppa la riflessione.
È stato relativamente facile per i governi israeliani che si sono succeduti dalla formazione dello Stato sino ad oggi sfruttare le divisioni del mondo arabo e islamico e la debolezza del movimento nazionale palestinese per portare avanti i progetti di isolamento dei palestinesi, di insediamento e colonizzazione nei territori occupati, fino al tentativo di questi giorni di liquidare la causa palestinese con lo sterminio della popolazione di Gaza o con la sua deportazione.
Per comprendere le vicende palestinesi di oggi, occorre tornare alla Prima Guerra Mondiale il cui esito portò a uno sconvolgimento di tutto il Medio Oriente. Emerse allora chiaramente il tratto egemonico e coloniale dell’Occidente con la disintegrazione dell’Impero ottomano e con la formazione delle singole entità arabe e altresì esplose il conflitto tra i sostenitori della creazione di Stati teocratici, nei quali la gestione delle attività religiose islamiche e di quelle governative laiche coincidono, e i sostenitori della separazione tra religione e Stato. Questi sconvolgimenti determinarono una regressione sensibile del movimento religioso riformatore portatore di un pensiero illuminista moderno, razionalista, aperto e tollerante, che interpreta lo Jihad (lo sforzo) come impegno e predicazione per realizzare “la luce di Dio sulla terra”. E con l’indebolimento di questo movimento, che affronta anche la questione della ricomposizione delle tre religioni monoteistiche, dal momento che sono computati tra i mussulmani Abramo, Isacco, Mosè, Davide e Gesù, arretra anche la sua idea che possa porsi da ponte tra l’umanesimo arabo e quello europeo.
La disintegrazione dell’Impero ottomano fu accompagnata anche da un altro radicale processo che riguardava l’antico Impero persiano, mussulmano ma sciita. Un processo che ha portato prima alla costituzione della Repubblica islamica dell’Iran e in seguito ha determinato la crescente influenza in tutto il Medio Oriente di questa nazione.
Lo scisma tra sunniti e sciiti nell’Islam avviene dopo la morte di Maometto. Occorre però dire che tra le due correnti religiose non c’è stato uno scontro paragonabile a quello avvenuto nell’ambito del cristianesimo, in particolare con la Guerra dei trent’anni in Europa iniziata nel 1618 tra gli Stati protestanti e quelli cattolici. L’Islam sciita ha una struttura gerarchica ben definita, per molti versi paragonabile al clero cristiano, che vede al vertice l’ayatollah, considerato una guida spirituale, e in una certa misura pure politica, in quanto questa figura viene ritenuta un riflesso di Allah sulla terra, I sunniti invece basano la loro pratica religiosa su atti e insegnamenti tramandati dal profeta Maometto. La forte gerarchizzazione dell’Islam sciita comporta un approccio al Corano molto più rigido, ma proprio per questo si presta molto meno a diverse interpretazioni del testo sacro dell’Islam, tipiche del mondo sunnita, in quanto gli ayatollah sono i “garanti della verità”. Per questo paradossalmente l’Islam sciita è molto tollerante, soprattutto verso altre confessioni monoteistiche. È evidente che la crescente influenza dell’Iran è considerata dai sunniti, in particolare da quegli Stati conservatori e integralisti, cioè sostenitori della legge islamica, una minaccia per la stabilità del loro paese. D’altronde è scritto nella storia dell’Impero persiano la distinzione tra il potere politico e quello religioso. Solo con la recente rivoluzione islamica questa distinzione si è appannata, ma non al punto da diventare uno Stato teocratico. D’altro canto, però la rivoluzione khomeinista ha dato impulso a un grande sviluppo economico del paese e a radicali riforme sociali, impensabili al tempo del regime autocratico dello Scià.
Per fare maggiore chiarezza su quanto esposto un esempio relativo ad una questione tanto dibattuta in Occidente, ma con molta superficialità, senza rigore storico e spesso in modo del tutto errato, quando non strumentale: quella del velo per le donne. Il velo era utilizzato già dall’antichità in tutti i paesi che si affacciavano sul Mar Mediterraneo. Era indossato anche dalle donne ebree (e tuttora quelle ortodosse sposate coprono i capelli con il velo o una parrucca) e da quelle delle prime comunità cristiane. La tradizione fu fatta propria anche da Maometto per le donne appartenenti alla prima comunità da lui fondata. È pertanto un luogo comune, come molti sostengono, che nel Corano sia prescritto l’obbligo del velo per le donne. Nel Corano vi è l’obbligo sia per gli uomini sia per le donne di vestirsi in modo decoroso mantenendo nascoste le parti del corpo considerate sacre. Questa è la ragione per cui tutti e tutte sono coperti dalla testa ai piedi. Ma è evidente che i sunniti, molto più degli sciiti per le ragioni dette, hanno interpretato restrittivamente gli insegnamenti del Profeta e pertanto hanno reso in molti casi obbligatorio il velo per le donne, fino a quelle forme pesantemente invasive e inaccettabili del niqāb o addirittura del burqa, accompagnando in alcuni paesi a questa regola anche il divieto di lavorare, di studiare o di avere una vita pubblica. In Iran l’hijab, il velo, che copre solo i capelli e lascia totalmente scoperto il viso, che in origine veniva indossato solo come forma di cortesia e di rispetto, oggi è divenuto per le donne obbligatorio, ma ciò non toglie che nel moderno Iran, a differenza dei paesi arabi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, la donna sia protagonista in molte attività: nella scienza e nella ricerca, nell’istruzione e nella formazione, nella sanità. Tutto ciò conferma il grado di tolleranza maggiore di una società religiosa sciita rispetto a diversi paesi arabi sunniti.
Dopo il crollo dell’Impero ottomano, con la formazione di entità nazionali arabe, sottoposte al rigido controllo coloniale inglese e francese, prende corpo, soprattutto nel mondo sunnita, l’ideologia dell’unità della nazione araba, anche perché le borghesie nazionali erano estremamente deboli e non in grado di concepire un’idea di nazione regionale. Nell’ambito di questa contraddizione si sviluppa e si diffonde lo Jihad come “guerra santa”. Viene abbandonato il concetto della espansione politica e religiosa dell’Islam che, come era avvenuto nei secoli precedenti, conquistava territori ma riconosceva dignità alle altre religioni monoteiste: le tollerava e le integrava, per addivenire all’adempimento di Dio (lo stesso per l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo) sulla terra, per esercitare la sovranità e la giustizia in suo nome. Si pensi alla dominazione araba in Spagna e in Sicilia. Nel passato sono stati soprattutto i cristiani, in particolare i cattolici come d’altronde avevano già fatto con gli ebrei, a portare avanti una impostazione politica e religiosa integralista che considerava gli islamici dei miscredenti. Il passo alle vicende di oggi è breve. In Afghanistan come in Palestina, in ogni terra calpestata dagli infedeli, è obbligo individuale di ogni buon mussulmano combattere gli infedeli e riconquistare tutte le terre perse dall’Islam nel corso dei secoli. É questo il suo massimo dovere. Lo Jihad compie così il passo successivo e si trasforma da lotta di un popolo per la sua indipendenza e libertà in una visione islamica globale.
Per queste ragioni storiche, religiose e politiche le organizzazioni islamiche che praticano metodi terroristici sono tutte sunnite. Sono ispirate alla prima organizzazione del radicalismo islamico: i Fratelli mussulmani, nati in Egitto nel 1928; poi ci sono stati i Mujahedin in Afghanistan, al-Qaeda, l’Isis fino ad Hamas, per non parlare di tutti i gruppi che si sono fatti strada nell’Africa sub-sahariana o in Cecenia e in Kosovo. Tutti questi movimenti. spesso “takfiristi” (estremisti che giustificano prassi violente e terroristiche con un’interpretazione distorta e manipolata dei versetti del Corano fino a porsi in contrasto con altri mussulmani ritenuti eretici), sono spesso sostenuti in termini finanziari e militari dall’Occidente e da Israele, ma anche da Stati come l’Arabia Saudita (forse non più o oggi meno che nel passato), dalla Turchia, dal Qatar e in alcuni casi dal Pakistan per influenzare l’esito del conflitto e dello scontro politico in Medio Oriente o nell’Asia mussulmana.
L’Iran e gli sciiti non sono mai stati coinvolti nel jihadismo radicale, a iniziare da Hezbollah, anzi, come in Siria, si sono sempre ritrovati nel campo opposto rispetto ai tagliagole dell’Isis. Li hanno combattuti e li stanno combattendo con grande determinazione. Questo è il quadro generale in cui calare la questione palestinese a cui va aggiunta un’ultima valutazione: l’ingresso dell’Iran, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto nei Brics+ sta modificando ulteriormente la situazione in Medio Oriente grazie all’azione politica e diplomatica congiunta di Russia e Cina. Questa azione comune ha portato alcuni risultati importanti: la fine della guerra nello Yemen, un processo di pacificazione tra Iran e Arabia Saudita, il reingresso della Siria nella Lega Araba, la normalizzazione dei rapporti tra questa e la Turchia, uno spostamento verso la Russia di numerosi paesi dell’area sub-sahariana in lotta contro il jihadismo radicale.
All’origine della nakba (termine palestinese con cui si indica la catastrofe degli eventi 1947-49, che portarono alla distruzione della società palestinese e l’inizio della diaspora del popolo) vi è stata l’incapacità del movimento nazionale palestinese di condurre una strategia realistica per affermare il diritto di esistenza di uno Stato del popolo palestinese. La scarsa consapevolezza del movimento nazionale palestinese è confermata dal fatto che negli anni ’20 la classe dirigente palestinese rifiutò tutti i progetti di autonomia rivendicando solo l’indipendenza della Palestina e la fine del mandato britannico. Per dare maggior forza a questa impostazione la debole élite palestinese, composta da proprietari terrieri e dalla borghesia commerciale, simpatizzò con il nazismo, come gran parte del mondo arabo, contro gli inglesi, e si collegò al filone dell’unità araba e dell’aspirazione all’indipendenza di entità come la Siria, la Giordania e l’Egitto. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la Palestina si ritrovò dunque ancor più assoggettata alla tutela araba, in particolare dei nuovi paesi confinanti che si stavano formando, e pertanto la questione nazionale divenne un tutt’uno con gli assetti che si stavano definendo in Medio Oriente. Contemporaneamente non si sviluppò una politica che offrisse scenari realistici alla comunità ebraica della Palestina che cresceva demograficamente con il sionismo e che godeva di grande simpatia a livello internazionale, soprattutto dopo lo sterminio degli ebrei europei per mano dei nazisti. Tale benevolenza proveniva in particolare dall’Urss di Stalin, uno dei grandi sponsorizzatori dello Stato di Israele.
Quando nel 1947 l’Assemblea generale delle nazioni unite approvò un piano di partizione della Palestina, per porre fine al conflitto tra ebrei e palestinesi, che prevedeva la costituzione di uno Stato ebraico e di uno palestinese, la risoluzione fu osteggiata dal mondo arabo poiché considerava iniqua la divisione delle terre. La questione dell’iniquità senz’altro era un problema vero ma fu usato, d’intesa con i proprietari terrieri palestinesi, da parte dei paesi arabi confinanti per dichiarare guerra al nascente Stato di Israele, proclamato nel maggio del 1948. Iniziò così, con la vittoria degli israeliani, la diaspora palestinese. I regimi arabi dei paesi confinanti avevano ancora una volta imposto, in nome dell’unità araba, la loro linea e ribadito la loro tutela sulla Palestina. Nonostante le rivalità tra loro, nessuno di essi vedeva con favore la creazione di una nuova entità, di uno Stato palestinese, anzi senza nessuna opposizione la Cisgiordania fu annessa al regno di Giordania.
Solo in questi anni, con Al-Fatah, ha iniziato a formarsi una coscienza nazionale dei palestinesi. Questo è stato il suo grande merito. Ma sono anche gli anni in cui l’idea della nazione araba subisce le prime forti crepe e nello stesso tempo si realizza, con la crisi del Canale di Suez, un rovesciamento delle alleanze a livello internazionale: da una parte il riposizionamento di Israele sugli Usa e dall’altra parte quello di alcuni paesi arabi, tra cui l’Egitto e la Siria, sull’Urss.
In questa fase il movimento nazionale palestinese passa dal progetto di liberazione al progetto di indipendenza, rafforzando il carattere nazionale del movimento palestinese a spese di quello arabo. Insomma, si dichiara che la Palestina è la patria del popolo palestinese che ha il diritto di liberare e ripristinare appunto la propria patria.
Ancora una volta è la guerra a far precipitare la situazione e a determinare situazioni nuove. Nel 1967, con la guerra dei 6 giorni, Israele gioca di anticipo: occupa la Cisgiordania, la striscia di Gaza, le alture del Golan, la penisola del Sinai (che poi, con gli accordi di Camp David tra Begin e Sadat, sarà restituita all’Egitto) e la parte araba della città di Gerusalemme. Stabilisce in questi nuovi territori occupati numerosi insediamenti israeliani. La nakba ha un nuovo drammatico impulso. Molti sono i palestinesi che vivono oggi fuori dalla Palestina: i rifugiati nei paesi arabi limitrofi, ma anche in ogni parte del mondo; altri invece, senza nessun diritto civile, sono residenti in Israele. Solo una parte della popolazione vive quindi, purtroppo in condizioni estreme, a Gaza e in Cisgiordania.
In questa sede non si intende ricostruire l’insieme dei passaggi tesi alla ricerca di una via volta a risolvere la questione palestinese e neppure soffermarsi sulle numerose risoluzioni delle Nazioni Unite che indicano nei confini del 1967 le linee della proposta dei due popoli e dei due Stati. L’intento è invece quello di sollevare la questione seguente: nonostante molti sostengano che con gli Accordi di Oslo (1993) si fossero determinate le condizioni che avrebbero condotto alla creazione di due Stati per due popoli, in realtà Rabin non ha mai parlato di uno Stato palestinese. Prima del suo assassinio parlò di un accordo transitorio che avrebbe consentito ai palestinesi di gestire autonomamente i propri affari, a condizione che il governo israeliano avesse la responsabilità della sicurezza degli insediamenti dei coloni e della sicurezza esterna dei punti di transito. In un discorso alla Knesset, un mese prima del suo assassinino (1995) aveva dichiarato: «Noi ci immaginiamo una soluzione permanente, con uno Stato israeliano includente la maggior parte della terra di Israele all’epoca del mandato britannico, e accanto ad esso un’entità palestinese in cui vivono residenti palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, a condizione che questa entità sia meno di uno Stato e che sia responsabile della gestione degli affari palestinesi. Gerusalemme unita rimarrà la capitale di Israele, il quale continuerà a controllare la Valle del Giordano e includerà i blocchi degli insediamenti». La preoccupazione di Rabin era quella di raggiungere un accordo per liberare Israele dalle sue responsabilità, ridurre i costi dell’occupazione e preservare il carattere ebraico dello Stato di Israele. Queste erano le mire alla base del suo audace atto con cui riconobbe l’Olp e raggiunse con essa un accordo che lo avrebbe condotto alla morte prematura.
Vedere pertanto negli Accordi di Oslo una grande occasione mancata di due Stati per due popoli è storicamente falso. Era un compromesso molto al ribasso a cui l’Olp, fortemente indebolita, anche in conseguenza del crollo dell’Urss, dei cambiamenti avvenuti nei paesi dell’Europa centrale e orientale e dei conflitti in corso nel mondo arabo e islamico, non poteva sottrarsi. Sono questi gli anni della sfida islamista alla leadership dell’Olp, della prima intifada, della crescita del consenso ad Hamas che considerava gli Accordi di Oslo un suicidio politico. Significava rinunciare a una parte importante della Palestina, accettare senza reagire la divisione del popolo palestinese in tre componenti, quella di Gaza e della Cisgiordania, quella dei rifugiati in altri paesi e quella residente in Israele. Insomma, per la neonata Hamas voleva dire abbandonare la lotta, spostarla dal campo del nemico all’interno del campo palestinese. GliAccordi di Oslo nella sostanza portarono al riconoscimento della Autorità palestinese ma non alle premesse della nascita dello Stato palestinese. Ed era ciò che voleva il “democratico e pacifista” Rabin. La conferma di questo si ha nel fatto che tutto l’Occidente, Usa e Ue in testa, non hanno mai riconosciuto lo Stato palestinese. Solo oggi la Spagna, di fronte alla tragedia di Gaza, sta facendo un passo politico e diplomatico in questa direzione. Insomma, con gli Accordi di Oslo, la direzione dell’Olp aveva praticamente ridotto il progetto nazionale alla creazione di una entità – meno di uno Stato – a Gaza e in Cisgiordania, ottenendo in cambio l’istituzione di un’Autorità palestinese tramite la quale gestire gli affari. Sperava che tale Autorità potesse gradualmente trasformarsi in uno Stato indipendente. Ma non si erano fatti i conti con Hamas e con i nuovi equilibri politici che si stavano determinando in Israele nel quale si andavano delineando governi sionisti di destra, integralisti e fondamentalisti, di cui Netanyahu è il leader indiscusso. Ed è questa la principale ragione per cui da oltre quindici di anni non si vota per il rinnovo dell’Autorità palestinese. Hamas vincerebbe le elezioni a mani basse.
L’Olp, nel tentativo di porsi come un ombrello politico globale che potesse rappresentare tutti i palestinesi in un comune progetto nazionale, si è indebolita e la sua situazione si è ulteriormente aggravata con lo sviluppo di avvenimenti (anche internazionali) che non dipendevano da essa; ma ha anche commesso l’esiziale errore di appiattirsi totalmente sull’Autorità, cioè su una istanza diventata in questi anni obsoleta. Sempre più si è sentita la mancanza di una guida rappresentativa unitaria nonostante gli sforzi compiuti per rilanciare il sistema politico creato dall’Olp. E settori sempre maggiori di gioventù avvertono il limite di tale situazione e sempre più si avvicinano a una organizzazione politica che non disdegna metodi terroristici come Hamas, l’unica oggi in grado di unificare con il suo jihadismo un popolo disperso in mille rivoli.
Lo sviluppo della questione palestinese nei termini in cui si pone oggi smonta altresì due ipotesi che circolano molto in Occidente. La prima, è che se i palestinesi avessero avuto una dirigenza politica più moderata, senza mai far ricorso alla lotta armata, avrebbero avuto maggiori possibilità per giungere all’obiettivo della nascita di un loro Stato. È vero esattamente il contrario. Proprio con gli Accordi di Oslo, con una direzione politica dell’Olp moderata, si è ottenuto il risultato opposto, sconfitte su sconfitte che hanno portato a un pesante arretramento del movimento politico nazionale palestinese e un drammatico peggioramento delle condizioni materiali di vita dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Come non esiste la seconda ipotesi, quella di uno Stato unico da condividere tra ebrei e palestinesi. Il sionismo, sia di destra sia di sinistra, non prende in considerazione questa soluzione. A dire il vero mai storicamente è stata presa in considerazione. Come si è visto, pure Rabin aveva la forte preoccupazione di non snaturare lo Stato israeliano (sionista) con il rischio di un processo di integrazione tra ebrei e palestinesi. Tant’è che i palestinesi residenti in Israele, oltre due milioni, sono totalmente privi di diritti politici e civili.
Non va mai dimenticato che il sionismo è prima di tutto un movimento culturale e ideologico che è trasversale e permea quasi tutto il sistema politico israeliano. A differenza di molte comunità ebraiche, comprese le antiche comunità ebraiche della Palestina, che invece si sono opposte e si oppongono al sionismo e allo Stato di Israele che considerano “la più grande forma di impurità spirituale del mondo intero” La base teologica della loro interpretazione religiosa è in un passo del Talmud secondo cui solo il Messia può riconsegnare la Terra d’Israele al popolo ebreo. Il sionismo, dunque, secondo questi ebrei, rompe il patto tra il popolo ebraico e il Signore. Per questa ragione lo combattono in quanto è considerato espressione del colonialismo. E siccome il colonialismo porta alla perdita di vite umane e all’oppressione, è una profanazione della volontà di Dio. Addirittura, Moshe Hirsch, un Rabbino antisionista, è stato consigliere di Arafat.
L’unica soluzione possibile resta dunque quella della costituzione di uno Stato palestinese. Ma occorre una strategia centrata su un progetto nazionale distinto dalla lotta di liberazione e da quella di indipendenza, un progetto in cui tutta la diaspora palestinese possa riconoscersi. Per questo occorre lavorare per ripristinare l’unità delle componenti politiche che si è fortemente indebolita con gli Accordi di Oslo. Il dramma di Gaza ha come risvolto positivo quello di porre le premesse per ritrovare l’unità tra le diverse organizzazioni. Ma questo non è sufficiente, è necessario anche pensare a una modifica delle funzioni dell’Autorità palestinese in modo che si svincoli dai suoi obblighi, in particolare quelli securitari ed economici, nei confronti di Israele e limiti i suoi compiti alla fornitura di servizi sociali a Gaza e in Cisgiordania. Su questo terreno occorre con lucidità lavorare oggi. Ricostruire un progetto unificante per tutto il popolo palestinese, ovunque sia insediato in conseguenza della nakba.
Anche il contesto internazionale è profondamente mutato, da un lato con il crescente ruolo di Russia e Cina, dall’altro con il superamento di molte delle antiche divisioni del mondo arabo e islamico. Allora in questo nuovo contesto è possibile ricondurre gran parte del jihadismo radicale nello schieramento ampio della battaglia per la pace e per un nuovo ordine mondiale, tolte quelle frange finanziate dall’Occidente, in particolare dal mondo angloamericano che le paga per i loro “servizi”. Oggi la Lega araba, il mondo islamico, Mosca e Pechino, dialogano sia con l’Olp e l’Autorità palestinese sia con Hamas, senza scomuniche, senza condanne. Israele e il suo alleato Usa sono sempre più politicamente e diplomaticamente isolati. Saper riproporre allora la questione di uno Stato per i palestinesi senza le interferenze di una mitica nazione araba che esiste solo sulla carta, come è avvenuto nel passato, è la sfida attuale di tutte le forze palestinesi che si battono per avere appunto una patria e uno Stato. E nel costruire questo progetto è fondamentale l’impegno di tutti per ottenere un immediato cessate il fuoco, l’invio di aiuti umanitari e l’inizio di nuovi negoziati partendo dalle risoluzioni dell’Onu. Non esistono altre soluzioni a iniziare dalla infantile illusione di un intervento militare arabo a sostegno di Hamas a Gaza. Un miraggio che circola in una certa sinistra e che via via si trasforma in frustante delusione. Non considera infatti che Israele “non è una tigre di carta” ed è l’unico Stato in Medio Oriente che ha l’atomica. Un dato essenziale di recente indirettamente rammentato da un ministro del governo di Netanyahu che l’ha invocata per una rapida soluzione militare a Gaza. Dopo tale affermazione nessuno in Israele ha pensato di rimuoverlo dal suo ruolo di ministro e non ha suscitato né indignazione né condanna nemmeno da parte dei governi e dei media occidentali.
In conclusione, c’è da sottolineare che occorre distinguere tra i momenti di crisi e di debolezza del movimento nazionale palestinese e la questione dell’identità nazionale. La debolezza e la crisi del movimento nazionale non si identificano con la percezione della propria identità. È un dato storico purtroppo che il movimento nazionale palestinese nel corso della sua vita abbia subito molte crisi ma sia sempre riuscito a superarle proprio per la vitalità e la resistenza della sua identità nazionale che deriva in particolare dal ruolo della cultura palestinese che nonostante sia quasi sconosciuta nell’Occidente ha una produzione letteraria e artistica con un proprio sviluppo storico e stilistico capace di fare da collante.