L’epoca del capitalismo assoluto è connotata dall’assenza del metron, ciò si manifesta nel quotidiano in modo polimorfico. Dove non vi è misura manca il concetto. La razionalità non è solo “il proprio tempo appreso mediante il concetto”, essa reca in grembo la prassi. La razionalità politica e filosofica è forza motrice trasformativa. Il capitalismo assoluto con la dismisura ha fatto deflagrare la razionalità, pertanto l’assurdo e la contraddizione sono parte di un sistema anonimo di dominio e sfruttamento. Potenza e impotenza convivono, l’una è di sostegno all’altra. L’onnipotenza della produzione con il suo substrato: la tecnica, convive con l’impotenza generale.
A prescindere dalla classe sociale di appartenenza ogni cittadino-suddito del capitalismo vive la condizione tragica dell’impotenza. L’economicismo è un destino anonimo simile ad una divinità lontana che richiede continui sacrifici umani. Il fato governa i manager come coloro che sono costretti ai viaggi della speranza, solcano i mari e terminano la loro vita in uno stato di abbandono psichico e fisico. Se allarghiamo lo sguardo, le città sono luoghi di verità, per coloro che vogliono guardare per capire. Sempre più spesso il sistema che si autorappresenta come la società dei diritti produce infelici visibili ai nostri occhi: nelle stazioni, sotto i ponti, nei giardini pubblici e ovunque sopravviva uno spazio pubblico si consumano le esistenze di coloro a cui non è stata data nessuna opportunità. Per il sistema capitale sono una lezione perpetua alla classe media precarizzata, essi con la loro infelicità evidente e senza uscita ricordano e rammentano ad una declinante classe media (oltre che alle classi lavoratrici) che potrebbero essere i prossimi. Il ricatto visivo consolida l’onnipotenza del capitalismo, può continuare a tagliare i diritti delle classi medie e può sfruttare liberamente i terrorizzati. La paura è la condizione emotiva quotidiana al tempo del capitale.
Sfruttamento e privilegio
I privilegiati, coloro che sostengono il sistema e gli consentono il funzionamento produttivo-finanziario, sono diversamente sfruttati. Il manager delle multinazionali che guadagna cifre da capogiro è negato nella sua natura sociale. Vive un’esistenza atomistica che per essere sopportata necessita dell’oblio di sé: eccessi e droghe di ogni genere sono le compagne quotidiane di molti privilegiati. Ancora una volta l’onnipotenza è compagna dell’impotenza. Gli automatismi introiettati hanno rimodellato vita psichica e corpo vissuto, il risultato è una società composta da esseri umani poveri nello spirito e impotenti nell’azione trasformatrice. Dietro la retorica dei diritti e della liberazione dei corpi, non vi sono generi o identità ma solo desideri, vi è l’impotenza servile generalizzata, si tratta di una servitù assolutamente nuova.
Gli schiavi in catene avevano l’immediata percezione del loro stato, i servi conoscevano la loro disuguaglianza codificata dal sistema, ma i nuovi sudditi vivono la condizione anfibia di essere portatori di innumerevoli diritti individuali “elargiti” dall’alto per concessione ottriata, ma nel contempo sono presi da automatismi interni ben oleati che li rendono impotenti. I diritti individuali nella società delle impotenze diffuse sono i fiori sulle catene interiori. Non c’è censo che possa neutralizzare l’impotenza.
Prassi e giudizio politico
Il problema primo per avviare la prassi in un’epoca di automatismi è pensare le nuove forme di servitù. Non è facile per coloro che si dichiarano liberi in una società liberata da ogni tabù e limite guardare le proprie catene e ammettere di essere parte integrante di un sistema che li vuole “impotenti”, mentre si insegue il modello dell’onnipotenza sociale. Il soggetto destrutturato è all’interno di una serie di inganni e trappole che deve disinnescare per poter pensare se stesso nel proprio tempo storico.
Non si può che condividere il problema sollevato da Costanzo Preve: l’impotenza generalizzata e differenziata nel tempo dell’economicismo, la quale ci pone la domanda sull’alternativa:
“Da un punto di vista culturale, il mondo è diviso oggi in due grandi tendenze, quella che censura e rimuove questo evidente paradosso con un pittoresco arsenale di argomentazioni giustificative, che però, in ultima istanza, girano tutte intorno alla cosiddetta ”inevitabilità dell’economia”, forma volgare e laicizzata del vecchio e ben più nobile “destino”, e quella che invece ha compreso fino in fondo che questo paradosso è il centro del problema, e quindi l’oggetto privilegiato della filosofia politica. Lo stesso interesse per il comunitarismo come una delle possibili soluzioni nasce proprio dalla consapevolezza di questo paradosso. L ‘individuo isolato ed atomizzato, non importa se sia un manager in volo perpetuo fra una riunione finanziaria e un’altra oppure un poveraccio che dorme in una baracca di cartone, è certamente in grado di comprendere intellettualmente i termini dialettici di questo paradosso, ma non è in grado di intervenire per modificarlo, perché da che mondo è mondo la comprensione è sempre e solo individuale, ma la modificazione pratica è sempre solo collegiale e collettiva, e quindi comunitaria[1]”.
Per poter uscire dall’impotenza bisogna organizzare la prassi, essa deve tener presente il senso di impotenza generalizzata che tiene sotto scacco l’intera comunità umana. Le differenze sociali hanno nell’atomismo generalizzato che nega la natura sociale, etica e razionale umana il loro comune denominatore. Dinanzi a tale realtà-verità siamo costretti ad intervenire per poter emancipare dalle catene interiori. Bisogna mostrare che spesso i fiori dei diritti individuali sono gli idoli ingannevoli con cui le catene sono rafforzate e il logos reso silenzioso. Il dramma svelato può diventare azione comunitaria.
La nuova base sociale verso il comunitarismo comunista potrebbe essere ampia e articolata. La direzione da prendere è questa, la critica deve defatalizzare e mostrare che l’impotenza generalizzata e indotta è solo lo strumento principe della lotta di classe che multinazionali e oligarchi hanno messo in atto contro il resto della popolazione suddivisa tra servi immiseriti, servi precarizzati e servi privilegiati. Parlare con linguaggi diversi e dimostrare che per tutti c’è l’alternativa è l’impegno delle forze dissenzienti per una lotta lunga e dagli esiti incerti. La complessità dinamica del sistema rende fragile il capitalismo anonimo ma anche l’opposizione.
La prima risposta che possiamo dare a questa crisi epocale dagli esiti dubbi è riscoprire il senso della misura greco mediante il quale defatalizzare il presente. Necessitiamo di paradigmi valutativi per poter giudicare la qualità del capitalismo assoluto, pertanto capire e usare i paradigmi dell’antica Grecia è una modalità per condurre dinanzi al tribunale della ragione il sistema capitalistico e contemporaneo per giudicarlo nella sua qualità per diventare consapevoli che non risponde ai bisogni dell’umanità ma delle oligarchie. Il materialismo storico può completare tale uscita dalla mistica del capitale.
Ogni prassi non può che iniziare da uno spazio-domanda di senso onto-assiologica che multiculturalismo e relativismo cercano di neutralizzare palesandosi, in tal modo, nella loro verità, essi sono la sovrastruttura della struttura capitalistica. Per poter porre in atto la prassi bisogna avere la chiarezza che ciò che ci spacciano per economia è, invece, il cattivo veleno della crematistica che intossica ogni vivente che vive sul pianeta:
“Il fatto che i greci, pur essendo all’interno di una società schiavistica (parlo di Aristotele in questo caso) avessero chiara la differenza fra economia e crematistica, è il segnale che essi avevano una chiara idea che l’individuo è pur sempre incorporato in una comunità. Questo fatto viene totalmente perduto con la modernità e cioè da Hobbes e Locke in poi. La Thatcher lo disse chiaramente che non esiste più società ma soltanto gli individui. Lei rivelò apertamente quello che era il segreto, da parecchio tempo, della società capitalistica. Essa può permettere soltanto delle etiche settoriali, cioè deontologiche professionali: l’etica dell’ingegnere, l’etica del chirurgo, dell’insegnante ecc. È chiaro che il buon ingegnere progetta case con sistemi antisismici laddove esiste un pericolo di terremoto[2].
Il “Che fare?” è evidente, bisogna uscire dallo stato di passività che ci vuole “fuchi” incapaci di porre pensieri che possano mettere in discussione il sistema. I nuovi “fuchi” usano tecnologie, producono e consumano per il sistema, ma pensano di farlo per sé. Da tale stato di reificazione si esce guardando le nostre impotenze e i narcisismi che rendono invincibile la passività pianificata, da tale “rischiaramento” può iniziare la prassi.
Dove vi è prassi non vi è impotenza, ma soggettività che pensano per vivere e per trasformare il dolore e la rabbia in possibilità creative e comunitarie.
[1] Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli, 2006, pag. 37
[2] Costanzo Preve, Apriamo i sigilli, PetitePlaisance, Pistoia, 2010, pag. 4
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