Divisione capitale
L’universale non vive fuori della storia, è nella natura dell’essere umano, la quale si materializza nella storia. Sono inscindibili. La totalità-intero è concretezza di eterno incarnato nella storia. Nel linguaggio comune ci si appella “alla natura umana”, ciò è possibile, in quanto pur in un’epoca di relativismo assoluto, carsicamente si intuisce che l’essere umano non è il semplice prodotto della storia. Quest’ultima non è la fabbrica dei tipi antropologici, non è la divinità che gioca con i dadi creando o abbattendo un tipo antropologico o un altro. La verità è assediata dallo storicismo del dileguare del capitale, il quale si propone come divinità creatrice di storia.
Necessitiamo di filosofia della prassi dinanzi all’azione del capitale. Il capitalismo parcellizza e divide, tale logica è intrinseca al movimento adialettico del capitale.
Nelle scienze e nei saperi il capitalismo produce specializzazioni incapaci di uno sguardo olistico. Tra gli esseri umani trionfa la divisione competitiva e specialistica. Ogni essere umano per essere incluso nel mattatoio del mercato deve specializzarsi; l’alienazione è nell’ipertrofia delle competenze, la violenza è introiettata con la negazione della natura generica dell’essere umano. Esseri specializzati non sono capaci di ascoltarsi nella loro unità, pertanto sono naturalmente parcellizzati, vivono in un conflitto perenne. L’io schizoide facilmente si adatta alla separazione dalla comunità e la vive in modo paranoico. Si aggredisce in modo automatico, l’altro è riconosciuto solo come competitore.
Le lobby del capitale vorrebbero rappresentarsi come la Storia, da esse discende la storia, la decidono, ne trasmettono le versioni, è il Ministero della verità sempre in azione. Esse possono cancellare ciò che è stato e creare una nuova storia rispondente ad un nuovo tipo antropologico curvato sul solo valore di scambio.
Si tratta di una perversa verità, poiché in assenza di una natura etica ed eterna l’essere umano può prendere forme nuove, si può sperimentare una veloce trasformazione antropologica, in quanto si parte da un postulato: la natura dell’essere umano è non avere natura, per cui egli come qualsiasi “materiale plastico” si adatta e sopravvive a condizioni economico-ambientali sempre nuove. Non vi è verità, l’essere umano non ha una natura stabile, è indeterminato. Il capitale può rappresentarsi come divinità verticale, diffusa e orizzontale.
Filosofia
Il capitale è in posizione verticale, è modello incarnato nei miliardari e nelle multinazionali che formano alla naturalità dello sfruttamento. In tale logica vi sono i fedeli reificati che soccombono e padroni che dominano. Divinità terrestre distante e vicina, i sudditi del capitale prendono atto della liquidità del mercato globale, pertanto bisogna ammettere che il vincitore attuale può essere sommerso in qualsiasi momento. La morte nella forma del fallimento può giungere in ogni attimo. La divinità distante incarnata nei suoi eroi visibili solo mediante schermi e gossip, educa a guardare in alto, verso i testimoni dalle immense ricchezze. Capitale e quantità sono il logos bugiardo e diabolico a cui si ambisce, ma che si “dona” a pochi o a nessuno. La disperazione del desiderio è la formula della nuova divinità, è il sacrificio nella versione capitalistica. La verità è quantità intoccabile per i più destinati ad essere passivamente presenti. Non più soggetto politico, ma semplice presenza in attesa invidiosa, lo sguardo è rivolto verso lo scintillio del nuovo dio pagano senza verità, materiale ma intoccabile. Ciò che è in alto chiede a coloro che ambiscono alla salvezza di essere a sua immagine e somiglianza e di usufruire dei suoi servizi per diventare più vicini al capitale: chirurgia estetica, lotterie legali ed illegali, medicina dell’eterna giovinezza, prostituzione per competenze sono le prescrizioni per elevarsi senza toccare la nuova divinità. In questo gioco di attrazione e repulsione la verità è respinta in quanto nemica e portatrice di katechon all’espansione illimitata del modo di produzione capitalistico.
Il capitale per soffocare la verità eterna e assurgere al ruolo dell’unica verità deve plasmare i corpi, deve incarnarsi nel linguaggio. I servi devono essere i fedeli veicoli della vuota verità del capitale. La metafisica del niente e del saccheggio, se restasse nella sua verticalità svelerebbe che ciò che presenta come verità è solo ideologia e monopolio della violenza economica e sociale. Il capitalismo è dinamismo delle quantità, turbolenza dei mercati che si radica nel corpo e nelle menti dei sudditi. Gli alienati e gli sconfitti, in pratica tutta l’umanità, devono amare le loro catene. Devono pensare che è la natura a volerlo, non vi sono alternative. La speranza è “essere come loro”, raggiungere le loro posizioni, in nome del merito imprenditoriale e sprofondare nella divina abbondanza delle catene infiorate dall’abbondanza. La disperazione è contenuta dall’illusione mendace del capitale che include e bisbiglia in ogni momento che presto i loro sogni si avvereranno. I fedelissimi del capitale soffrono, il capitale cura i sintomi dell’innaturale condizione con i suoi apparati che confermano il sistema. Si estrae plusvalore ed informazioni dalle terapie dei reificati; si consolida il sistema addomesticando gli alienati e gli sfruttati che sciamano per il pianeta diventando sempre più poveri nello spirito e nel corpo.
Filosofia della prassi
Necessitiamo, oggi, più che mai della filosofia della prassi. Quest’ultima è sinolo di teoria e prassi. La teoria deve ricongiungere le parti irrelate. L’irrazionale del capitale può essere trasceso solo dal metodo dialettico della filosofica capace di riconciliare la parcellizzazione del capitalismo. L’avversione verso Hegel è il segno che il capitale pone sugli allori solo le pseudofilosofie positiviste:
“Solo a causa della non connessione del suo contenuto questo filosofare non è necessariamente un raziocinare: quest’ultimo disperde solo i posti in una maggiore molteplicità, e se, gettato in questa corrente, nuota scompostamente; tutta l’estensione, essa stessa scomposta, della molteplicità intellettuale deve continuare a sussistere; invece al vero filosofare, anche se privo di connessione, scompaiono il posto e i suoi opposti, in quanto esso non mette il posto semplicemente in connessione con altri limitati, ma in rapporto con l’assoluto, e con ciò lo toglie. Ma poiché questo rapporto del limitato con l’assoluto è un molteplice, in quanto lo sono i limitati, dunque il filosofare deve cercare di mettere in rapporto questa molteplicità come tale; deve sorgere il bisogno di produrre una totalità del sapere, un sistema della scienza. Solo così la molteplicità di quei rapporti si libera dalla casualità, in quanto essi ottengono le loro posizioni nella connessione della totalità oggettiva del sapere e viene realizzata la loro compiutezza oggettiva. Il filosofare che non si costituisce in sistema è una continua fuga davanti alle limitazioni, più un lottare della ragione per la libertà che suo puro autoconoscersi che è divenuto sicuro di sé e ha raggiunto la chiarezza su se stesso. La libera ragione e il suo agire sono uno, e la sua attività è un puro esporre se stessa. In questa autoproduzione della ragione l’assoluto si configura in una totalità oggettiva che è un tutto sorretto e compiuto in se stesso, che non ha alcun fondamento fuori di sé, ma anzi è fondata mediante se stessa nel suo inizio, mezzo e fine[1]”.
La filosofia della prassi decodifica la realtà storica, la rende razionale mediante il disvelamento della verità celata dalla parcellizzazione. La verità storica del capitale è codificabile nel termine sussunzione-alienazione. Per rompere il fronte dello sfruttamento nella sua capacità pervasiva e infiltrante non è sufficiente la sola teoretica, essa deve avere nel suo grembo la prassi. Quest’ultima si declina nell’immanenza della storia, altrimenti è solo vuoto ciarlare accademico.
Le idee non cascano dal cielo come affermava Antonio Labriola, esse sono viva dialettica che prepara la trasformazione e la liberazione dalle forme plurali di sudditanza. Il filosofo a cui dobbiamo la definizione di “filosofia della prassi” è Antonio Labriola. Il filosofo italiano ha elaborato la prassi senza determinismo, a lui dobbiamo l’umanesimo nel marxismo:
Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l’azione di determinati bisogni, e pei reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione, e col ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono come gl’istrumenti della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro. Spostare quelle e questo ossia, le idee ed il pensiero, dalle condizioni e dall’ambito di lor proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la natura e il significato. Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori, ma come una nuova conquista del pensiero per la inevitabile suggestione di un nuovo mondo che si sta generando già, ossia la rivoluzione proletaria, questo fu l’assunto del mio primo saggio. Il che è quanto dire, che una nuova situazione storica si è completata del suo congruo istrumento mentale. Ora immaginare, che cotesta produzione intellettuale potesse avverarsi in ogni tempo e luogo, gli è come assumere a regola delle proprie ricerche l’assurdo. Trasferire le idee a capriccio, dal terreno e dalle condizioni storiche in cui son nate, in qualunque altro terreno, ciò è come prendere a base del ragionamento il semplice irrazionale. E perché non si dovrebbe immaginare del pari, che la città antica, nella quale nacquero l’arte e la scienza greca e il diritto romano, rimanendo pur città antica di democrazia con gli schiavi, acquistasse medesimamente e sviluppasse tutte le condizioni della tecnica moderna? Perché non credere che la corporazione artigiana medioevale, rimanendo qual essa era nel suo quadro fisso, s’avviasse alla conquista del mercato mondiale, senza le condizioni della concorrenza sconfinata, che cominciarono appunto dall’eroderla, e negarla? Perché non congetturare un feudo, che, pur rimanendo feudo, fosse officina da produrre esclusivamente merci? Perché Michele di Lando non avrebbe dovuto scrivere lui il Manifesto dei Comunisti? Perché non si avrebbe a pensare, che i trovati della scienza moderna potessero venir fuori dal cervello degli uomini di ogni altro luogo e tempo; cioè, prima che determinate condizioni facessero nascere determinati bisogni, e alla soddisfazione di questi si dovesse provvedere con una reiterata ed accumulata esperienza?[2]”.
Senza la filosofia la politica si contrae in puro e sterile tatticismo, solo l’agire filosofico può condurre fuori dalla pratica acritica dell’emergenza perenne, ultima frontiera dello stato di eccezione che vorrebbe congelare la storia e i popoli.
[1]Hegel, Differenza fra il sistema filosofico fichtiano e schellinghiano, Ousia, pag. 16
[2] Antonio Labriola, Antonio Labriola Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, liberliber, pag. 24
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