L’alluvione in Emilia Romagna è occasione per rimettere in funzione l’oleata macchina del fango. Capire quanto è accaduto significa utilizzare una serie di dati da leggere all’interno di categorie complesse. Una società democratica ha quale centro il logos che tra i suoi significati plurali, in primis, indica la pratica dei discorsi. Il linguaggio è comunicazione solo su premesse etiche: onestà intellettuale e consapevolezza che ogni prospettiva è perfettibile. Le rotatorie del pensiero unico volgono, invece, secondo altre prospettive: devono cancellare dubbi per consolidare il sistema economico e sociale attuale. Dinanzi all’alluvione si è invocato il cambiamento climatico. Risposta semplice ad un problema complesso con la quale le colpe sono assegnate a Giove pluvio e ai guasti ambientali indotti a livello planetario, pertanto non vi sono responsabili, ma circostanze storiche anonime e inesorabili di cui bisogna prendere atto. Nessuna discussione e nessun dibattito su prospettive di ordine diverso. Parimenti alla pandemia e alla guerra in Ucraina, anche l’alluvione deve essere contenuta all’interno del politicamente corretto.
I media allarmano e invocano più energia green in vista del contenimento degli stravolgimenti economici. Se si osa smarcarsi dalla lettura unica degli oratores si è accusati di negazionismo climatico. Si ripete con contenuti nuovi ciò che congela la democrazia e la erode al suo interno, ovvero la pratica dell’emergenza che esige risposte semplici e senza progettualità reale.
Coloro che osano avviare un dibattito, allo scopo di decodificare il ripetersi degli effetti estremi sono bollati “negazionisti”. Termine utilizzato per definire coloro che negavano e negano lo sterminio. L’associazione linguistica ha lo scopo di denigrare la controparte e di veicolare il pregiudizio verso coloro che formulano diverse interpretazioni dei fatti. La democrazia è libertà di parola, ma quest’ultima senza ascolto è solo formalità senza consistenza. Indurre a non ascoltare è un modo per necrotizzare il dibattito e manipolare l’opinione pubblica. Utilizzare il termine “negazionista climatico” significa decretare un giudizio già dato, pertanto ogni dialettica non può che cadere. Immaginiamo un dibattito tra un esperto tacciato di “negazionismo dibattito” e un esperto sostenuto dal sistema applaudito e riverito, coloro che ascoltano si porranno in modo differente verso l’uno e verso l’altro, in quanto “il giudizio è stato già emesso implicitamente dalla manipolazione delle parole”. La democrazia muore in tali dinamiche, poiché non più le ragioni oggettive dei dati scientifici sono i veri protagonisti della discussione ma la difesa di interessi oligarchici. Nel caso dell’Emilia Romagna non bisogna guardare solo il cielo e misurare i mm di pioggia, ma è necessario guardare il territorio e la sua gestione.
Il Manifesto online riporta i seguenti dati:
“TRA LE PIEGHE del Rapporto che ogni anno Ispra dedica al tema della impermeabilizzazione del suolo c’è una scomoda verità: in Emilia-Romagna si consuma suolo perfino nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021) e nelle aree a pericolosità idraulica, dove la regione amministrata da Stefano Bonaccini – che ieri ha ribadito «ricostruiremo tutto, su questo non ho dubbi» – vanta un vero e proprio record essendo la prima in Italia per cementificazione nelle aree alluvionali. Tra il 2020 e il 2021, così, si è costruito per 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica e per 501,9 in quelle considerate a media pericolosità, oltre la metà del consumo di suolo nazionale con quel grado di pericolosità idraulica. Chi autorizza e realizza quegli interventi, in pratica, sa già che prima o poi qualcosa di grave accadrà. «Pazzesco» ha commentato Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano il cui ultimo libro è L’intelligenza del suolo, su Altreconomia. Questo contesto diventa ancor più pericoloso oggi che il Paese affronta eventi «fuori dalle serie storiche». Dal 2 e 3 maggio sono passate appena un paio di settimane di tregua, prima di una nuova valanga di pioggia. «Senza il cambiamento climatico questi eventi si sarebbero ripetuti ogni 50, 100 anni. Invece ora sono più frequenti» avverte Giordano, che poi punta il dito sulla cementificazione. Ancora tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo, con più di 658 ettari cementificati in un solo anno: significa che si è registrato oltre il dieci per cento di tutto il consumo di suolo nazionale. Questo fa sì che l’Emilia-Romagna sia arrivata ad avere una superficie impermeabile che è pari all’8,9% di quella totale, ben oltre la media nazionale che si ferma, ad oggi, al 7,1%. È sempre Ispra a ricordare che la provincia di Ravenna (quella di Faenza e di Castelbolognese, che conta migliaia di evacuati e centinaia di sfollati) è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021, occupando ben 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale. È facile tradurre il significato di questi dati, come fa Giordano: «Si costruisce ancora in zona pericolose andando a esporre le popolazioni a un rischio». Di fronte a questi numeri avrebbe forse senso rivedere la risposta pubblica, che parla ancora di nuove infrastrutture.”.
A tali dati bisogna aggiungere la presenza di fiumi tombati. Bologna è costruita su un ginepraio di torrenti e canali tombati, probabilmente sconosciuti alla stessa popolazione. Ecco il problema principale: lo sfruttamento del territorio causa un allontanamento dello stesso, il quale è usato e non certo vissuto, compreso e curato. Vi è una nuova forma di alienazione non riconosciuta: l’estraneità dal proprio territorio divenuto astratto e distante. L’incuria è la normalità nel tempo dell’integralismo aziendale. Viviamo in un mondo di spettri e spettrale.
La radice prima di tali tragedie è, dunque, lo sfruttamento del territorio, il quale non è uno spazio da vivere, ma una realtà da usare e violentare quotidianamente.
Il titanismo produttivo ha condotto a tombare i fiumi, a renderli scuri torrenti che carsicamente scorrono in modo innaturale. Essi da essere fonte di vita, sono diventati un limite alla cementificazione, pertanto sono stati eliminati e il loro spazio vitale è posto sotto il cemento e il nero asfalto. La vita dei fiumi è sepolta, i territori ridotti a piattaforme di cemento che nessuno gestisce, pertanto la hybris ha le sue inesorabili conseguenze. Tale pratica denuncia la verità di un sistema che non vuole riconoscere la legge che causa tragedie immani: lo sfruttamento del territorio speculare allo sfruttamento dell’essere umano.
La tragedia è davanti a noi, anzi vi siamo all’interno, ma come gli schiavi della caverna platonica vi sono coloro che proiettano le false interpretazioni della realtà, in modo che nulla cambi e si continui a pensare che sia semplicemente “un cambio green” a poter risolvere il dramma in cui siamo situati. Solo una conversione totale può darci la speranza di uscire dall’oscuramento etico e metafisico in cui siamo caduti.
Se si continuerà a tacitare il dibattito e a esemplificarlo, vi è il rischio, è il caso di dire, di essere travolti da un sistema che si dimostra incapace di autocorreggersi, in quanto ha come fine il PIL e non certo la difesa della vita umana e del territorio con la sua biodiversità. Nessuno è al sicuro. Cambiare paradigma è l’unico modo per salvare vite, territorio e pianeta, ma ogni trasformazione necessita di individuare i responsabili di tali immani tragedie.
Necessitiamo di un nuovo umanesimo che coniughi la vita con il territorio e che abbia nella “cura” il centro dell’agire, senza tale cambio di prospettiva siamo esposti a pericoli incontrollabili, di cui dobbiamo prendere atto. La natura non è matrigna, sono i modelli economici e di gestione delle comunità ad esserlo.
Con le parole di Gianni Rodari ricordiamoci che il cielo è di tutti, ma la terra è ridotta a “pezzettini”, sta a noi portare il cielo in terra:
“Il cielo è di tutti
Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.
È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti”.
(Gianni Rodari)
Fonte foto: La Stampa (da Google)