Ispirato da recenti e buone letture torno su un tema che in un articolo di qualche mese fa (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24326-norberto-fragiacomo-la-difesa-e-sempre-legittima.html) avevo appena sfiorato senza debitamente approfondirlo: quello della guerra “giusta”. All’epoca mi soffermai, da un punto di vista sostanzialmente penalistico, sulla questione della difesa (contro un altro Stato) per chiedermi quando potesse dirsi legittima: oggi vorrei abbozzare un’indagine di carattere più generale per cercare di capire a quali condizioni la scelta estrema di usare le armi per risolvere una disputa (non solo) internazionale sia moralmente e giuridicamente accettabile.
Secondo il pacifismo più radicale la decisione di combattere sarebbe sempre condannabile: un paese aggredito da un altro dovrebbe subito arrendersi onde evitare inutili sofferenze al proprio popolo. Si tratta di una posizione meritevole di rispetto, perché applica l’insegnamento cristiano “porgi l’altra guancia”, ma che risulta inapplicabile in un mondo, quello reale plasmato dalla Storia, in cui le aggressioni sono eventi tutt’altro che eccezionali e manca un “supergoverno” in grado di rendere giustizia agli oppressi. Un popolo che rinunciasse a priori all’autodifesa farebbe meglio a non costituire un’entità statale e a sottomettersi liberamente al più minaccioso fra i propri vicini.
C’è poi la “provocazione” lanciata da Lenin alla vigilia della conferenza di Zimmerwald (che, come appureremo insieme, è tutt’altro che una boutade): l’unica guerra giusta è quella scatenata dagli oppressi contro i loro oppressori. Sappiamo che il grande rivoluzionario propose ai socialisti europei di adoperarsi in patria per trasformare il conflitto fra le nazioni capitaliste in un conflitto di classe “senza confini”: si tratta di un ottimo spunto per il prosieguo della nostra riflessione.
Procediamo però con ordine. Nemmeno la plurimillenaria esperienza storica sembra in grado di offrire una risposta univoca al nostro quesito: persino i bellicosi assiri chiamavano in causa le divinità nazionali per nobilitare le loro campagne di aggressione, proclamandole “guerre sante” contro popoli colpevoli di adorare dei falsi o imbelli. Lo schema si ripete con le crociate e poi con il rapido assoggettamento dei nativi centro e sudamericani “privi di anima” a opera degli spagnoli – da ultimo, ai giorni nostri, l’argomento “religioso” è adoperato dai tagliagole del Daesh per esaltare le proprie nefandezze.
Per conoscere l’odierno stato dell’arte è necessario riferirsi ai risultati dell’elaborazione del mondo (che si pretende) civile, riportati in un alcuni documenti internazionali e nelle costituzioni di svariati paesi.
La Carta dell’ONU legittima la guerra in due sole eventualità: quella di un mandato del Consiglio di Sicurezza e quella dell’esigenza per uno Stato di difendersi da un’aggressione armata proveniente dall’esterno.
Il primo caso è di difficile verificazione: implica identità di vedute fra i cinque membri permanenti del Consiglio, ciascuno dei quali ha il diritto di paralizzare con il proprio veto le decisioni dell’organo. Considerato che sin dall’immediato dopoguerra fra le potenze vincitrici (reali o presunte) si instaurò un clima di “scarsa armonia” un accordo è altamente improbabile, e dai tempi della caduta dell’URSS è stato raggiunto solamente in occasione dell’attacco iracheno al Kuwait (1991): in quella circostanza l’abile doppiogiochismo statunitense e lo stato confusionale in cui versava la Russia favorirono il raggiungimento di un consenso unanime. Può darsi si pensasse, in sede di stesura della norma, che solo un’evidenza plateale di ragioni e torti avrebbe persuaso soggetti in perenne disaccordo della doverosità di un intervento risolutivo: le cose andarono diversamente, forse perché “la giustizia non è di questo mondo” o comunque il rispetto dei suoi principi non rientra fra le priorità delle organizzazioni statali. La regola di diritto positivo si è perciò rivelata inapplicabile, ed è comunque legata a una precisa situazione geopolitica, quella della suddivisione del globo in due blocchi in contrasto: nell’ambito di un sistema effettivamente unipolare (quello auspicato dagli USA) essa risulterebbe pericolosissima. Ipotizziamo che, con un colpo di mano occidentale, Russia e Cina siano escluse dal Consiglio di Sicurezza o che, più banalmente (magari in omaggio a dichiarate esigenze di “democratizzazione” dell’ONU), venga abolito o reso inoperante il diritto di veto: in questa futuribile, ma inquietante prospettiva nulla impedirebbe a singoli Stati dotati di argomenti “persuasivi” di condizionare la volontà di soggetti più deboli e di assicurarsi maggioranze utili al perseguimento dei loro scopi che, moralmente riprovevoli, acquisirebbero d’incanto liceità per il diritto internazionale, con conseguenze facilmente immaginabili.
Lasciamole dormire “in pace” le Nazioni Unite e veniamo alla seconda causa di giustificazione, che ha un fondamento etico e non soltanto giuridico: alludo ovviamente alla legittima difesa contro l’invasore straniero.
La nostra Costituzione indirettamente l’autorizza nell’articolo 11 (che stabilisce il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e – attenzione! – come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: parecchi nostri governanti dovrebbero farsi un esame di coscienza…), ma nell’articolo 52 addossa addirittura a ogni singolo cittadino “il sacro dovere” della “difesa della Patria”.
Insomma, combattere contro l’invasore non solo è lecito: è pure doveroso – ergo la guerra difensiva è l’unico modello di bellum iustum. Problema risolto? In teoria sì, ma residuano alcune difficoltà di ordine pratico. La prima consiste nel fatto che raramente gli aggressori si presentano spavaldamente come tali (abbiamo citato l’esempio assiro, di seguito ne menzioneremo altri), la seconda deriva dall’intrinseca ambiguità delle relazioni internazionali: se ancor oggi gli storici dibattono e si dividono sulle cause (e la responsabilità) del conflitto ’14-’18 e persino di quello che oppose Annibale a Roma ciò significa che il più delle volte i torti non stanno da un’unica parte. È sempre arduo orientarsi in mezzo alla nebbia prodotta dalle reciproche propagande – perfino dopo che il campo di battaglia ha emesso il suo verdetto. L’attualità ce ne fornisce una prova lampante: la versione del dramma russo-ucraino fornitaci dall’Eco della NATO (giornali, radio, tv ecc.) – quella secondo cui il “pazzo dittatore” moscovita si sarebbe svegliato un mattino con la luna storta e avrebbe d’impulso ordinato l’attacco – non ha nessun legame con la realtà, semplicemente perché è un messaggio psyops volto a fuorviarci e farci accettare scelte che di etico non hanno proprio nulla. Affinché la difesa sia legittima occorre che l’altrui offesa sia ingiusta, cioè gratuita e non provocata: chi per anni ha infierito sulla minoranza russofona non può pertanto invocarla, anche se i propagandisti scordano volentieri (è il loro mestiere) le puntate precedenti quella andata drammaticamente in onda il 24 febbraio ’22.
Le aggressioni proditorie non sono una rarità: se proprio non vogliamo ricordarci di quella subita da Grenada nel 1983 e di quella assai più recente alla Libia (2011) possiamo nondimeno includere nella categoria l’occupazione manu militari di Danimarca e Norvegia da parte dei nazisti e l’Operazione Barbarossa ai danni dell’URSS… sperando non se ne abbiano a male quanti, dopo aver giustamente bollato per decenni il regime hitleriano come “Male Assoluto”, ostentano oggi comprensione e simpatia per certi suoi emuli orientali.
Anche se non sempre i difensori sono graditi all’élite occidentale – quella che si picca di esportare “democrazia” sotto forma di bombe – il concetto di guerra giusta non è un ossimoro, anche se a complicare l’analisi interviene il fatto (notorio) che post eventum i vincitori tendono a scriversi una Storia “su misura”. Memori dell’insegnamento di Tacito bisogna sforzarsi di giudicare gli avvenimenti sine ira et studio, e un tanto riesce più facile se i dissidi fra nazioni sono lontani nel tempo e nello spazio.
Abbiamo già detto però che da che mondo è mondo il lupo ama presentarsi in veste d’agnello: valeva per gli assiri, vale per la stragrande maggioranza dei grandi conquistatori. Gli antichi si appigliavano a pretesti che noi, pronipoti dei lumi, tendiamo a considerare ingenui: Alessandro Magno spacciò la campagna contro la Persia per una sorta di rivalsa contro gli empi che, un secolo e mezzo prima, avevano assalito la Grecia. Giulio Cesare, romano fino al midollo e perciò “legalista”, fece precedere le sue azioni militari in Gallia da opportune richieste d’aiuto inviategli da popoli alleati (fra cui gli Edui) che in seguito non ebbe remore ad asservire con la forza. Il germano Ariovisto, a sua volta amicus populi romani, smascherò la sua ipocrisia, ma fu battuto e oltretutto non scrisse alcun commentario; a poco valsero le fondate accuse di Catone Uticense. Agli illustri condottieri “nostri” (meno a quelli extraeuropei…) siamo inclini a perdonare tutto, ma che la ragione stesse dalla parte di persiani e celti mi sembra incontestabile, anche se non seppero che farsene. È inutile negare che il genio di Cesare esercita su di noi un immenso fascino, testimoniato dai mazzi di fiori che ancora ornano il suo altare; in Dario e Serse siamo invece portati a vedere due subdoli, inetti e malvagi satrapi orientali meritatamente sconfitti dall’eroismo greco. Anche gli elleni si difesero, nel 490 a.C. e dieci anni più tardi: l’abbiamo appreso sui banchi di scuola, dubitarne sembra quasi blasfemo – anche perché siamo in qualche modo emotivamente coinvolti. Dario I non corrisponde tuttavia allo stereotipo del despota folle e sanguinario; quanto al successore Serse egli ambiva (a detta di Erodoto) a conquistare l’intera Europa, ma la tradizione persiana lo ricorda come una figura positiva. Dobbiamo allora conoscere gli antefatti: verso la metà del VI secolo a.C. la ricca colonia ionica di Mileto fu assoggettata assieme ad altri centri costieri dell’Asia minore da Ciro il Grande, che ne fece un protettorato dell’impero achemenide. La città era governata da un tiranno scelto dal re dei re, ma per il resto conservava un’ampia autonomia assieme a leggi, lingua e costumi. Intorno al 500 a.C. uno di questi “autocrati fiduciari”, di nome Aristagora, si ribella alla dominazione iranica e scatena una guerra dall’esito a lungo incerto; Atene e un’altra città-stato greca lo riforniscono di uomini e armi, ma alla fine la rivolta viene sedata e Mileto data alle fiamme. Dario interpreta l’intervento ateniese come un’intollerabile sfida al suo potere e, non appena riesce a radunare le forze necessarie, prova a regolare i conti. La dura sconfitta subita a Maratona (490 a.C.) lo costringe a rinunciare al progetto, ma il figlio Serse allestisce un decennio dopo un poderoso esercito per punire chi ha osato resistere all’armata paterna. Per il monarca la guerra guerreggiata è l’extrema ratio: confida che il numero dei soldati al suo comando basterà ad atterrire i nemici, e invia ambasciatori a chiedere “terra e acqua”, cioè un formale atto di sottomissione. Non è sua intenzione espugnare e distruggere città, ma l’uccisione di alcuni suoi messi (un atto sacrilego) lo forza all’azione. Contro ogni pronostico gli elleni vincono per terra e per mare: onore agli opliti, ma è sostenibile la tesi della legittima difesa? A mio avviso sì: malgrado gli eccessi commessi i greci si battono a buon diritto, da un lato perché lo screzio con la Persia risale a uno-due decenni prima, dall’altro perché non vi è proporzione fra il (limitato) sostegno offerto dalla polis attica ai milesi e il tentativo di conquista da parte dei monarchi iranici. Nel caso di specie è il primo elemento a essere decisivo, dal momento che i persiani non rispondono a un attacco condotto sul loro territorio, ma commettono a distanza di lustri (quello che è non solo, ma anche) un atto di ritorsione.
Giunti a questo punto siamo tentati di porci un quesito ancor più spiazzante: è “giusta” l’insurrezione dei milesi contro un dominatore che nel complesso non li aveva “maltrattati”, anche considerato che ad aizzarla fu un personaggio equivoco e certo poco propenso a concedere una piena libertà ai concittadini? Per un antico greco la risposta sarebbe stata un sì scontato, se non altro perché al “barbaro” mancavano il senso della misura e quello della giustizia. Noi europei, essendo di parte (l’Europa nasce in Grecia, anche se la UE finge di non saperlo), siamo portati a pensarla alla stessa maniera, ma più per riflesso condizionato che sulla base di un’attenta e spassionata riflessione.
Ovviamente qualsiasi storico assennato reputerebbe assurda la domanda che provocatoriamente mi sono e ho posto al lettore, visto che morale, mentalità e convinzioni degli antichi erano diversissime dalle nostre: la strage dei Proci commessa da Ulisse ed esaltata dal poeta integrerebbe per il giurista odierno un grave delitto (o perlomeno un colpevole eccesso). Tempora mutantur et homines in illis.
Nessuna seria accusa può essere dunque mossa ai cittadini di Mileto. Attenzione però: se volessimo attribuire un indiscriminato diritto alla secessione – anche violenta – a tutte le minoranze residenti in un paese che considerano “straniero” incorreremmo in conseguenze aberranti e indesiderate, poiché dovremmo ad esempio appoggiare, sia pure a posteriori, la pretesa dei tedeschi dei Sudeti di staccarsi dalla Cecoslovacchia ed essere annessi al Terzo Reich (pretesa che condusse nel ‘39 alla disintegrazione dello Stato democratico cecoslovacco e contribuì al deflagrare della guerra mondiale).
Per giustificare forme di resistenza “attiva” è necessario un requisito in più: un atteggiamento gravemente discriminatorio e oppressivo da parte della maggioranza nei confronti dell’etnia minoritaria, vale a dire ciò che un penalista definirebbe offesa ingiusta.
Esaminiamo per intenderci meglio un caso italiano (che dovrebbe essere) noto a tutti: dopo la vittoria del ‘18 il Regno annette il Tirolo del Sud, compattamente germanofono, e la Venezia Giulia ex austriaca abitata da secoli da popolazioni slovene e croate. L’avvento del fascismo incancrenisce una situazione già tesa: il governo italiano intraprende un’impietosa politica di assimilazione forzata, che specialmente nell’estremo nordest assume i tratti odiosi della“pulizia etnica”. Gli slavi sono ferocemente perseguitati: le loro organizzazioni vengono sciolte e i giornali chiusi d’imperio; agli “alloglotti”, ritenuti inferiori, viene persino proibito l’uso della lingua natia (stessa sorte è toccata alla “minoranza” russa in Ucraina dopo il sanguinoso colpo di Stato fomentato dagli USA nel 2014). Chiunque si opponga viene umiliato, bastonato, deportato o ucciso; nasce però un movimento di resistenza che non esita a prendere le armi contro l’oppressore e compie delle azioni che – benché giudicate “terroristiche” dal regime – appaiono a chi scrive tutte pienamente legittime. Scoppia poi una nuova guerra, a conclusione della quale l’Alto Adige e una ristretta porzione della Venezia Giulia restano all’Italia, divenuta finalmente democratica. L’attuazione dei principi costituzionali si rivela lenta, ma pian piano le minoranze vedono accrescersi i loro diritti fino a ricevere una completa tutela: oggi i sudtirolesi di lingua tedesca sono per certi versi dei privilegiati, mentre gli sloveni del Friuli Venezia Giulia hanno spazi, riviste e associazioni, siedono in Consiglio regionale e nel Parlamento della Repubblica e si giovano del presidio della legge 38/2001. Sono insomma cittadini italiani a tutti gli effetti, che di ribellarsi non hanno intenzione né motivo. Nulla naturalmente impedisce a un’etnia di invocare maggiore autonomia e financo l’indipendenza, ma in assenza di gravi e reiterate vessazioni da parte del potere centrale essa deve affidarsi a strumenti pacifici, come hanno fatto (finora senza esito) scozzesi e catalani.
In sostanza la guerra di liberazione – che è lotta di popolo – è equiparabile a quella difensiva e si giustifica in presenza dei medesimi requisiti fondamentali: la necessità di reagire a una sopraffazione altrui e il rispetto del principio di proporzionalità fra le reciproche condotte. Un’occasionale sconfinamento di un drappello di militari dello Stato limitrofo non può motivare l’invasione di quest’ultimo, né un singolo episodio discriminatorio l’esplodere di una rivolta armata.
Abbiamo fatto qualche passo avanti, ma permangono alcuni nodi da districare.
Si possono legittimare a livello internazionale la difesa altruistica (prestata cioè a favore di un terzo assalito) e quella anticipata?
La prima è pacificamente ammessa dal nostro ordinamento giuridico (art. 52 cod. pen.), ma i rapporti fra Stati sono assai più complessi di quelli fra singoli: io posso mettere a repentaglio, se lo ritengo giusto, la mia incolumità per proteggere quella altrui, ma un soggetto di diritto pubblico è responsabile della vita di milioni di persone e non può (non dovrebbe) fare ciò che gli aggrada. Un paese ha l’obbligo – giuridico e morale – di intervenire attivamente in una disputa altrui nell’eventualità in cui sia legato alla vittima da un patto di alleanza; al di fuori di questa ipotesi una discesa in campo, ancorché “mascherata”, sarebbe valutabiledall’antagonistaalla stregua di un’aggressione, e dunque di un casus belli. Se nel 2011 l’Italia si fosse schierata con risolutezza al fianco della Libia – con cui aveva da poco (2008) siglato un patto di amicizia e cooperazione e che fu oggetto di un’aggressione criminale da parte della NATO –avrebbe forse interpretato estensivamente le clausole del trattato, se si fosse interposta fra i contendenti avrebbe compiuto il proprio dovere. Invece, in dispregio agli impegni presi, pugnalò la Repubblica araba alle spalle, perdendo qualsiasi credibilità internazionale. In compenso il nostro paese continua a rifornire di armi l’Ucraina in guerra senza che vi sia fra le due nazioni alcun vincolo di alleanza. Tutto ciò è grossolanamente illegittimo oltre che inopportuno, ma chi ci governa (per conto terzi) ha già fatto sapere di tenere in non cale l’opinione pubblica interna contraria all’invio di mezzi di offesa. C’è un ulteriore caso in cui la difesa altruistica è consentita: quello della violenta repressione subita da una propria minoranza stanziata all’estero. Ai razzisti baltici dovrebbero fischiare le orecchie…
Quello della legittima difesa anticipata è un concetto su cui i penalisti si scervellano da decenni e, nel silenzio del diritto, le opinioni variano: anche l’incombente minaccia di un attacco militare può tuttavia configurarsi come un’ingiusta offesa. La difficoltà sta nell’interpretare situazioni quasi sempre equivoche: l’effettività del pericolo e la sua provenienza unilaterale vanno accertate in concreto, poiché qualsiasi stato ha interesse a far ricadere sull’avversario la colpa dello scoppio delle ostilità e il discrimine fra difesa per così dire precauzionale e attacco preventivo è assai labile. Si vis pacem para bellum, consigliava d’altronde Cicerone: quella di anticipare l’aggressione altrui è un’eccellente mossa di cui fu autore, ad esempio, Annibale Barca.
In conclusione torniamo sulla frase di Vladimir Lenin menzionata all’inizio: più che una “provocazione” ci sembra adesso una variazione sul tema. Se a un paese assalito è lecito difendersi e a un gruppo etnico oppresso rivoltarsi non vi è ragione per cui detto sacrosanto diritto debba essere negato – ceterisparibus – a una classe sociale vilipesa, impoverita e sfruttata. L’insurrezione popolare contro un’élite di privilegiati attenta solo al proprio tornaconto è sacrosanta e doverosa, e se i governanti si prostituiscono al dominatore straniero sacrificandogli i diritti dei cittadini-sudditi non meritano miglior sorte di quelle toccate a Quisling e a colui che, magari controvoglia, contribuì ottant’anni fa a trasformare l’Italia settentrionale nel teatro di una crudele guerra civile.
In un mondo perfetto qualunque forma di violenza sarebbe inconcepibile, ma il paradiso dista da noi più dell’inferno.