In Francia continuano le manifestazioni di piazza; il popolo delle classi medie e delle periferie si oppone allo smantellamento dello stato sociale. In modo graduale la controriforma avanza, lo vuole il mercato, nuovo vincolo esterno dinanzi al quale i popoli non devono che inginocchiarsi, è il nuovo vitello d’oro a cui l’Europa degli oligarchi e della finanza comanda di inginocchiarsi. Ogni divinità esige il suo sacrificio: è il popolo da sacrificare, perché viva la finanza. In tale condizione non possono che sollevarsi domande, l’Italia ha un precariato e una riforma delle pensioni tali da rendere poveri i lavoratori, si tratta di una povertà materiale e dello spirito. Sfruttati fino a 67 anni e resi sudditi all’interno del mondo del lavoro sempre più verticistico e gerarchico i lavoratori sono reificati e resi poveri. Le nuove generazioni nutrite di ecologismo, sono sedotte dalle promesse del sistema, vivono in un eterno presente in cui il tempo è frammentato in attimi di consumo senza prospettive. A scuola imparano ad adeguarsi in silenzio.
La domanda che non può che sorgere ed imporsi è il motivo di tanta complice passività. Le ragioni non possono che essere plurali, ma leggendo le riflessioni di Fëdor M. Dostoevskij sull’Unità d’Italia non si può che prendere atto che tale passività è frutto di una violenza ancora da smaltire e da capire. La nazione ha subito in modo meccanico e violento l’Unità, non vi è stata la partecipazione del popolo. L’Unità ha comportato l’esercizio alla passività. La formazione al fatalismo non forma cittadini ma sudditi e clienti, chi non ha energie per lo spirito attende la soluzione dall’esterno; la politica è sostituita dal clientelismo e il popolo è trasformato in plebe:
“Prendete, per esempio, il conte di Cavour – non è un’intelligenza, non è un diplomatico? Io prendo lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché è già morto. Ma che cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour![1]”.
Le osservazioni di Fëdor M. Dostoevskij sono la testimonianza di un problema storico ed etico non pensato e non dialettizzato. La violenza subita con l’Unità ha favorito la cultura del clientelismo e dell’adattamento passivo. Borghesia e popolo sono state unite solo nella tragica fatalità con cui hanno subito e vivono gli ordini esterni. Ad un popolo abituato dalla storia al silenzio si può chiedere tutto, anche l’inaudito, ha imparato ad attendere che siano altri a pensare e ad alzare gli scudi.
De-emancipare per dominare
La storia nella sua complessità non la si può ridurre ad un’unica causa che spieghi i fenomeni storici e il carattere dei popoli, ma resta un dato con cui non ci siamo sufficientemente confrontati: l’Unità subita è stato il mezzo con cui de-emancipare una nazione intera e renderla passiva esecutrice degli ordini delle oligarchie transnazionali. L’Unità è emancipatrice, se il popolo partecipa alla formazione della nazione, altrimenti è formazione alla sudditanza. La passività è stata, così, ottenuta, in una condizione già compromessa da vicende storiche difficili, ma che non avevano acquietato la produzione culturale e l’immaginario politico.
Dall’Unità ad oggi l’Italia è stata umiliata e offesa nel gioco delle politiche e delle sperimentazioni internazionali, la passività si è consolidata. La cultura è diventata accademica, cioè risponde anch’essa ai comandi internazionali, è solo propaganda, fatalismo scientemente organizzato. Ad un popolo sedotto dalla propaganda e addestrato alla sudditanza si può chiedere tutto per cui, mentre la Francia ancora una volta brucia, chiediamoci le motivazioni del vuoto di prospettive del nostro popolo. La storia è il luogo delle risposte, senza un valido confronto con essa, nessun popolo può formarsi alla democrazia e alla cittadinanza attiva e solidale. La pratica necessita della teoria, pertanto per ricostruire un tessuto culturale e politico è necessario pensare la nostra storia per poterla trasformare in prassi. Teoria e prassi sono un sinolo che dobbiamo faticosamente conquistare per disancorarci dalla violenza della passività. Spesso i più reazionari sono coloro che hanno subito la violenza della storia, hanno introiettato la violenza fino a naturalizzarla e a trasformarla in una seconda natura. Il lavoro degli intellettuali nel presente e nel futuro è nel disinnescare la violenza subita e nel liberare la creatività che scorre silenziosa e che attende di essere emancipata.
[1]Fëdor M. Dostoevskij (1821-1881), “Diario di uno scrittore”,ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto (1890-1983), Sansoni, Firenze 1981, pp. 925-926
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