Gli ultimi due capitoli dell’antologia della letteratura latina che sfogliavamo in terza liceo erano dedicati ad altrettanti epigoni di una tradizione prossima a estinguersi, ma cui il tardo medioevo avrebbe restituito mutatis mutandis linfa vitale: il retore Ausonio, autore del poemetto Mosella, e Rutilio Namaziano, considerato all’altezza dei lirici dell’età classica. L’unica sua opera pervenutaci (mutila) si intitola De reditu suo, cioè il ritorno, e come quella dianzi citata racconta di un viaggio, intrapreso però in condizioni di spirito ben diverse: Ausonio esalta incantato la bellezza di una natura che il trascorrere dei secoli non ha fino a oggi intaccato, mentre Rutilio incontra sul suo cammino quasi solo rovine e a ispirarlo è una musa che si chiama nostalgia (dal greco νόστος, che significa ritorno, e ἄλγος=dolore).
Chi è mai Claudio Rutilio Namaziano, e dov’è che sta tornando? Inquadriamolo nella sua epoca: vive fra il IV e il V secolo d.C., di altre date non disponiamo (se non di quella ipotetica del viaggio, che sarebbe il 415 o il 416 d.C.). È un gallo, o per meglio dire: un esponente della classe dirigente gallica ormai compiutamente romanizzata, che pensa e scrive in latino. Quattro secoli dopo la cruenta conquista cesariana i residui discendenti dei celti sono ormai difficilmente distinguibili da quelli dei coloni italici: è probabile che nei villaggi periferici l’antico idioma e qualche tradizione siano sopravvissuti, ma la cultura dei dominatori si è rapidamente e definitivamente imposta nei centri urbani, estendendosi anche alle campagne. Si è attuata una sostituzione etnico-linguistica, propiziata prima dalla brutalità di Cesare (che condusse per sua stessa ammissione una guerra di sterminio), poi da una suadente politica di assimilazione. Come molti provinciali di alto lignaggio (si pensi ad Ammiano Marcellino) il dotto Rutilio si reputa più romano dei romani, e ne ha ben donde: membro del Senato ha rivestito per un anno la carica di prefetto dell’Urbe, cioè di governatore di una città che non è più da un pezzo, però, il cuore di un impero ormai senescente. Appare verosimile che abbia trascorso gran parte della sua vita a Roma, di cui – lo confessa nei suoi versi – è perdutamente innamorato: un amore schietto e puro che nemmeno i recenti rovesci di fortuna sono riusciti ad annacquare. Di certo Namaziano ha assistito impotente al sacco di Roma (410 d.C.) a opera dei visigoti di Alarico, un evento che ancor oggi riteniamo epocale e che per taluni storici segna la fine dell’impero d’occidente (in quest’ottica la deposizione di un fantoccio come Romolo Augustolo sarebbe un fatto marginale nonostante la scelta di Odoacre di non proclamarsi imperatore). Da tempo in realtà il potere si è spostato a oriente, sul Bosforo: Rutilio non può non rendersene conto, ma a differenza nostra lui non conosce il futuro, non può (o non vuole, perché è emotivamente coinvolto) avvedersi dell’irreversibile precipitare di una crisi iniziata almeno un secolo e mezzo prima. Lui è stato educato a pensare che Roma sia aeterna e scusiamo perciò la sua miopia: gli esseri umani, d’altronde, tendono a credere che lo stato presente sia immutabile, e quando la Storia improvvisamente accelera si lasciano facilmente travolgere (rimando a certe potentissime pagine del Placido Don di Šolochov, rammento la sorpresa generale suscitata dal repentino crollo dell’URSS che, benché durata meno di 70 anni, quasi tutti giudicavamo solidissima – semplicemente perché per lustri o decenni ci eravamo abituati alla sua esistenza).
In ogni caso lo shock è stato fortissimo per un’aristocrazia (oramai più di toga che di spada) che mima i predecessori senza possederne la spietata fermezza: dal precedente saccheggio di Roma, imputabile ai galli di Brenno, erano trascorsi quasi otto secoli – cioè un tempo infinito – e quella crisi era stata subito risolta con la spada da un piccolo popolo in ascesa, mentre adesso l’imbelle imperatore Onorio si trincera dietro le mura di Ravenna senza muovere un dito, anche perché ha al suo servizio non più cittadini in armi, bensì mercenari stranieri che in ogni momento possono rivoltarsi come ha fatto il visigoto Alarico. Fatto sta che nell’ottobre del 415 Claudio Rutilio Namaziano parte per la Gallia nativa, a suo dire per edificare su un suolo straziato da incendi almeno capanne di pastori (“Iam tempus laceris post saeva incendia fundis / vel pastorales aedificare casas”). Sappiamo che egli era un proprietario terriero, e che di recente gli odiatissimi germani avevano messo a ferro e fuoco la sua terra d’origine, ma la motivazione addotta non convince appieno, anche perché la già menzionata nostalgia è riservata interamente all’Urbe abbandonata al suo destino. L’incipit del poemetto è infatti uno struggente inno alla città eterna che si riassume in due versi potenti: “Fecisti patriam diversis gentibus unam” e “Urbem fecisti quod prius orbis erat”. Se accettiamo la sua versione Rutilio se ne va via a malincuore per curare i propri affari, ma il viaggio si annuncia irto di insidie: gli tocca affittare una flottiglia di barche perché la stagione è sfavorevole alla navigazione in alto mare e soprattutto perché le vie di terra sono impraticabili a causa della devastazione prodotta dagli invasori, che hanno abbattuto ponti e bruciato locande. Questi goti andrebbero domati o tolti di mezzo, ma intanto spadroneggiano a piacimento: Rutilio trova rifugio nella poesia e comincia a redigere quello che è un vero e proprio diario in versi. Descrizioni di paesaggi si alternano ad amare considerazioni, e c’è spazio per aspre invettive, fra cui quella rivolta contro gli eremiti cristiani (i lucifugi) che popolano la Capraia e la Gorgona e ai quali – parte per il tutto – Rutilio imputa la rovina dell’impero. È un pagano il nostro viaggiatore, ma più che dei in cui non crede più nessuno egli rimpiange la religione di stato, il fascino di cerimonie pittoresche e soprattutto “inclusive”. Prima di giudicare troppo severamente il suo conservatorismo sconfitto dalla Storia merita riflettere sul fatto che i cristiani del IV-V secolo d.C. erano sì disinteressati ed entusiasti, ma anche pericolosamente inclini al fanatismo: i parabolani di “san” Cirillo che massacrarono Ipazia erano non meno feroci degli odierni talebani e costituivano un antistato che minava il potere di statisti e governatori.
Il De reditu suo si interrompe all’inizio del secondo libro, quando l’autore è in vista della città di Luni (di cui descrive le mura malconce): nel film tratto dall’opera nel 2004 il regista e sceneggiatore Bondì immagina che proprio in questa cittadina fra Toscana e Liguria Rutilio trovi la morte, raggiunto e ucciso dai cavalieri di Onorio. La pellicola fornisce una chiave di lettura dell’enigmatico viaggio: l’ex prefetto sarebbe partito per la Gallia per promuovere una rivolta contro Ravenna e sostituire ai molli cortigiani una cerchia di uomini fedeli al mos maiorum. In realtà negli anni ’70 è stato scoperto un frammento del poemetto riferibile a una tappa successiva (l’arrivo ad Albenga), ma non ci sono prove che Rutilio Namaziano sia effettivamente approdato sulle coste della Gallia: di lui dopo quell’autunno non si avranno più notizie (va riconosciuto che anche quelle precedenti scarseggiano).
Al di là dell’indiscusso valore letterario lo scritto attrae perché riporta l’accorata e verace testimonianza di un uomo di valore che ebbe la sventura di nascere in un’epoca oscura e deprimente, ma che visse il sogno di un passato che non poteva ovviamente ritornare.