Siamo nella storia, l’essere umano non è solo un animale sociale, è, specialmente, un animale storico. La storia è la nostra speranza, anche quando spira la tempesta e la reazione oppressiva sembra invincibile; dobbiamo rammentarci che la storia è il luogo della prassi in cui “il possibile” non è tramontato, ma attende i popoli per la sua concretizzazione reale. Rammentarci della storicità della condizione umana in questo periodo storico non è banale, in quanto la cancellazione della cultura ha l’obiettivo di ipostatizzare il presente e di porre un taglio netto tra l’essere umano e la storia. Senza storia si è astratti dal tempo reale e materiale, pertanto si è esposti alle manipolazioni ideologiche. Cancellare la memoria significa eliminare il potenziale trasformativo e rivoluzionario che ogni popolo reca con sé. Si impara a diventare “animali storici” nutrendosi e formandosi all’ombra della storia dei popoli che hanno ribaltato le condizioni materiali e psicologiche di vita reificanti e umilianti. Nello stesso modo si impara la “conservazione” con la derealizzazione storica, si impara, così, a sopravvivere senza speranza e in uno stato di perenne prostrazione. Naturalizzare l’umiliazione quotidiana è l’obiettivo ultimo del dominio, in tal modo la testa è sempre china, non si guarda che al tempo presente e a strappare i giorni in uno stato di irrazionalità dogmatica. Senza progetto politico i popoli non hanno fini oggettivi, pertanto il popolo si disintegra in plebe che mendica i diritti e la sopravvivenza. La catena invisibile del potere stringe il collo fino ad uccidere le energie creative e critiche senza le quali il presente diventa eterno, di conseguenza il tempo si frammenta in attimi tragici e goderecci senza alternativa e verità. In tale contesto rileggere Marc Bloch storico francese che ha partecipato alla resistenza fino a restarne vittima il 16 giugno 1944 non può che essere proficuo. Egli ci rammenta con la sua opera e con il suo impegno civile che la storia è aleatoria nella sua ricostruzione e nell’immagine che abbiamo di essa, per cui ciò che ”appare” insuperabile nel presente trae la sua forza da un depotenziamento della prassi e della capacità progettuale.
L’aggressione alla storia denuncia la crisi del nostro tempo organizzata dal capitalismo. Siamo in una storia che può cambiare, se sappiamo cogliere, al di là delle apparenze, le potenzialità e la parzialità delle sue interpretazioni. Destoricizzare è l’obiettivo finale dell’omologazione capitalistica, senza il tempo storico non siamo che comparse al servizio del dominio.
La domanda con cui il figlio di Marc Bloch nell’introduzione del suo testo “Apologia della storia” apre al senso della storia e del suo studio, è la nostra domanda, è la domanda sul nostro futuro, senza domande il tempo è cancellato e non resta che il presente con la sua opacità depressiva:
“«Papà, vorrei che tu mi dicessi a che cosa serve la storia». Cosí m’interpellava, di recente, un liceale che mi è vicino. Piú di una mente matura s’è posta la stessa domanda. Mi accingo a tentare di rispondervi[1]”.
Giudizi
I criteri con cui si giudica non sono eterni e non sono mai imparziali. I giudizi con cui nel nostro tempo di relativismo posticcio si giudica la storia passata, si pensi all’esperienza comunista, non sono assoluti, ma il frutto di posture ideologiche e tattiche. Nel tempo del capitalismo si rompono i vincoli etici, la natura umana è oggetto di violenza, ma restano saldi i giudizi unanimi sul comunismo. L’esperienza comunista dev’essere associata ai soli gulag, anzi la parola “comunismo” deve scomparire dall’immaginario dei popoli. Il relativismo capitalista ha i suoi dogmi valutativi; è il mercato il vincolo esterno che tutto ordina e giudica. Marc Bloch ci rammenta che i giudizi sono aleatori, pertanto devono essere pensati e vagliati, è questo il lavoro che ci attende per uscire dal cono irrazionale del capitale:
“Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo, da separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai dannati? Assolutizzando i criteri, puramente relativi, di un individuo, di un partito, o di una generazione, che stupidaggine applicarne i dettami al modo con cui Silla governò Roma o Richelieu gli stati del re cristianissimo! Siccome poi niente è per sua natura piú variabile di siffatte sentenze, soggette a tutti gli ondeggiamenti della coscienza collettiva o del capriccio personale, la storia, permettendo troppo spesso all’‘albo d’oro’ di avere la meglio sul ‘registro degli esperimenti’, si è guadagnata gratuitamente la fama di essere la piú incerta delle discipline: alle vuote requisitorie succedono riabilitazioni altrettanto vane[2]”.
Non solo i giudizi ma anche gli esiti finali non sono prevedibili. La speranza è prassi, essa è motivata dalla consapevolezza che il futuro non è del capitale, ma è un orizzonte aperto di possibilità, in cui intervengono numerose variabili, ma l’agire dei popoli resta fondamentale. Oggi è più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del capitale, pertanto l’urgenza è “comprendere” se i giudizi sull’intrascendibilità del capitale sono ideologici. Il futuro è positivamente aleatorio, sta a noi scommettere su di esso. Le comparazioni tra periodi storici diversi devono insegnarci che i differenti contesti possono darci indicazioni, ma la storia è tempo del nuovo, la soluzione non viene dal passato, nella storia la continuità convive con la discontinuità, pertanto dobbiamo imparare a cogliere nelle similitudini le differenze. Le soluzioni non vanno rintracciate nel passato, ma devono essere rispondenti al tempo presente senza escludere un proficuo confronto con le esperienze trascorse:“Le concordanze o discordanze massicce sono fatte di una folla di casi particolari. Complessivamente, gli influssi accidentali si eliminano a vicenda. Consideriamo invece ogni elemento indipendentemente dagli altri? L’azione di queste variabili non può piú essere eliminata. Anche se i dadi sono stati truccati, il colpo isolato sarà sempre piú difficile da prevedere dell’esito finale della partita; quindi, una volta giocato, soggetto a una ben maggiore diversità di spiegazioni. È per questa ragione che, via via che la critica è penetrata piú a fondo nel particolare, le verosimiglianze vanno diminuendo. Non c’è nell’Orestiade, quale oggi noi la leggiamo, quasi nessuna parola, singolarmente presa, che possiamo essere sicuri di leggere come l’aveva scritta Eschilo. Ciò nonostante, non dubitiamo che, nell’insieme, la nostra Orestiade sia proprio quella di Eschilo. C’è piú certezza nel tutto che nei suoi componenti[3]”.
Manipolazioni
Non dobbiamo rinunciare a comprendere gli errori e le manipolazioni, esse sono la spia di verità profonde che come tossine impediscono la prassi o contribuiscono ad una diffusa irrazionalità che inibisce i processi dialettici e di codificazione del presente. Viviamo nella menzogna e nella manipolazione, per cui dobbiamo confrontarci con esse, poiché sono lo spirito del capitale. Marc Bloch ci ha insegnato che gli errori e le manipolazioni sono preziose quanto la verità per capire la storia del passato e del presente:
“Nel mese di settembre 1917, il reggimento di fanteria al quale appartenevo occupava le trincee [dello Chemin-des-Dames], a nord della cittadina di Braisne. Durante un colpo di mano, facemmo un prigioniero. Era un riservista, negoziante di professione, nativo di Brema, sul Weser. Poco dopo, ci giunse dalle retrovie una storia curiosa. «Che meraviglia, lo spionaggio tedesco! – dicevano all’incirca quei commilitoni bene informati, – se si espugna un loro piccolo avamposto nel cuore della Francia. Chi ci si trova? Un commerciante che, in tempo di pace, risiedeva ad alcuni chilometri di là: a Braisne». L’equivoco è chiaro. Non accontentiamoci tuttavia di una spiegazione troppo semplice. Darne senz’altro la colpa a un errore dell’udito? Significherebbe, comunque siano andate le cose, esprimersi assai imprecisamente. Giacché il vero nome, piú che udito male, era stato, senza dubbio, mal capito: generalmente ignoto, non attirava l’attenzione; per una tendenza naturale dello spirito, si credette di cogliere al suo posto un nome familiare. Ma c’è di piú: in questo primo lavoro d’interpretazione, se ne trovava già implicito un secondo, altrettanto inconscio. L’immagine, troppo spesso veritiera, delle astuzie tedesche era stata resa popolare da innumerevoli racconti; essa colpiva nel vivo la sensibilità romanzesca delle folle. La sostituzione di Braisne a ‘Brème’ si accordava troppo bene con questa idea fissa, per non imporsi, in qualche modo, spontaneamente[4]”.
L’atomismo sociale è irrazionalità programmata, nell’isolamento consumistico la storia è incomprensibile, si rinuncia alla sua comprensione. La storia necessita di un “lavoro comunitario”, in quanto ciascun soggetto coglie gli eventi da prospettive parziali. Solo la comunità degli studiosi e di coloro che vivono la storia come il tempo della consapevolezza possono ricostruire l’ordito degli eventi. La ragione può entrare nel tempo storico e può determinare cambiamenti senza titanismi. Il capitalismo lavora per l’irrazionale. La separazione ed il conflitto orizzontale fanno decadere la storia a semplice cronaca senza dialettica, pertanto regna solo la noia dell’eterno eguale con la sua demotivazione conseguente. Il vuoto storico si manifesta nel presente con opposizioni e gesti “puramente decorativi”.
Gli ambientalisti imbrattano i monumenti per attrarre l’attenzione sull’urgenza climatica, ciò significa riaffermare il sistema, e non comprendere che l’urgenza climatica è il sintomo di un problema più profondo, per cui non si vuole affrontare il dramma reale: il capitalismo. I monumenti testimoniano il cambiamento emancipativo o regressivo, cancellarli o imbrattarli non è un gesto rivoluzionario, ma è parte della cultura della cancellazione culturale in cui siamo. Necessitiamo di una nuova cultura storica condivisa e comunitaria per fermare il dogmatismo del mainstream e le false alternative. Guardiamo alla Francia dove il popolo è in piazza per la controriforma delle pensioni del governo Macron. Solo un popolo che scende in piazza può fermare la violenza del capitale che taglia i diritti sociali ed esporta armi. Il lavoro che attende tutti è improbo, ma dobbiamo imparare a discernere la vera opposizione dai gesti sterili che ripropongono l’individualismo del sistema.
[1] Marc Bloch, Apologia della storia o il mestiere dello storico, Einaudi, Torino, pag. 71
[2] Ibidem pag. 188
[3] Ibidem pag. 174
[4] Ibidem pag. 157