Icaro. Autobiografie immaginarie, De Frede Editore, Napoli 2021

Lo confesso che ho un debole per le citazioni, forse perché era la tattica intelligente di mio zio per “approcciarmi” alla letteratura, il metodo più diretto per incuriosirmi su un determinato autore. Così, prima ancora di leggere, in modo dapprima vorace e poi più meditato, Icaro del Prof. Antonio Martone, mi hanno colpito il titolo e il disegno verde in copertina, un particolare di Sole di mezzanotte, olio su carta telata dello stesso autore.

Nella prima pagina, sono stata colpita da una dedica nei confronti della sottoscritta che è già una profonda sintesi della tematica trattata “Ti affido il mio Icaro, un mito che mi sembra ancora più attuale oggi di quando esso è nato nella Grecia classica. È il secondo volume sulla Libertà”. E dunque cerchiamo di vedere in che senso Icaro sia più attuale oggi di quanto lo fosse nel mito classico.

È incredibile come una parola possa annodarsi ad altre creando immagini: il labirinto di Minosse, le ali di cera, la raccomandazione di Dedalo al figlio,il sole e il desiderio di Icaro di raggiungerlo. Icaro però precipita: nel farlo, attraversa il vuoto, quello stesso vuoto che s’era illuso di poter vincere con le ali. L’Egeo, il mare mitologico che ospita luoghi arcani e che nella sua risacca solleva tronchi, travolge persone e si chiude su Icaro che piomba dal cielo come una pietra. Lo sapeva bene Joseph Conrad  che “Il mare non è stato mai amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”. Così si presenta Icaro: un romanzo filosofico e psicologico sull’irrequietezza dell’uomo, sulle profonde contraddizioni dell’essere pensante: un capolavoro letterario delle tensioni dell’io verso l’irraggiungibile compiuta felicità. Un romanzo dal periodare paratattico, rapido, semplice ed efficace, che scuote forte facendo cadere le maschere di pirandelliana memoria di cui ciascun essere umano è prigioniero, un sisma dell’anima nei protagonisti dei tre racconti nei quali ciascun lettore può riconoscersi. Il romanzo infatti seduce e commuove, aziona impulsi vitali che scaturiscono da un bisogno d’identità. “I protagonisti appaiono gettati nel mondo alla ricerca, spesso vana, d’una qualche giustificazione alla propria esistenza” ed è questo il piano metafisico in cui si svolgono i fatti narrati, mentre il piano storico dimostra che ogni uomo è figlio del suo tempo e che non esistono limiti morali all’agire dell’uomo, ma soltanto criteri di orientamento di tipo materiale, economico e di potenza mondana.

L’incipit in medias res del primo racconto La caduta delle maschere, attraverso una scrittura in prima persona, trasporta il lettore nel bel mezzo di una cerimonia nuziale. Si tratta del matrimonio di due suoi amici che il protagonista vive come una fastidiosa costrizione gli rievoca il suo, che va avanti per forza d’inerzia. Il suo è stato un errore da scontare per una vita intera e a cui non sa opporre rimedio se non quello di vedersi non solo con gli occhi degli altri, ma anche in modo dolorosamente introspettivo,riconoscendosi un misantropo obbligato a seguire le regole di un’ipocrita società borghese. Vittima di un padre troppo debole per il suo ruolo, di sua suocera e soprattutto della moglie, che in modo quasi impercettibile lo priva di tutte le sue passioni e delle sue libertà, gioisce solo del fatto di non aver avuto figli perché non potranno mai ricattarlo di averli fatti nascere. L’incontro casuale con una prostituta bruna, i cui occhi chiari avevano qualcosa di speciale, gli restituisce quello stato di benessere fisico e spirituale che mai forse, o rarissime volte, aveva sperimentato. L’incontro sessuale con Maddalena, dopo aver parlato tanto, e per giunta di tutte cose sensate non ha il retrogusto amaro di un rapporto tipico dell’amore mercenario. L’autore indugia sui dettagli, sui particolari minimi dell’eros, sulle pulsioni primitive dell’essere umano alleggerendo tali sequenze dal peso della volgarità. Nel caso del protagonista, è il non senso della sua vita che lo spinge verso di lei e, come travolto da una forza misteriosa che non riesce a dominare, oltrepassa il limite della società perbenistica con i suoi ipocriti canoni convenzionali e plastificati. Il protagonista, mentre spoglia Maddalena, subisce la suggestione irresistibile di quella donna che fa l’amore con gli occhi chiusi, diversa da quelle che anche nel sesso hanno l’aria di chi amministra un patrimonio, così lontana da sua moglie architetto abituata a dividere gli spazi, sempre vigile, che fa l’amore con gli occhi aperti. Con Maddalena, donna pura e ribelle, fragile e autentica, si rompe quel circuito dell’identico che l’uomo contemporaneo ha creato per strutturare l’uomo. Nel suo erotismo c’è l’abbandono del mondo che significa anche l’abbandonarsi al corpo dell’altro. Un rapporto totalizzante che lascerà nel protagonista una sensazione di benessere e perfino di dipendenza. La cercherà ancora, anche quando la moglie gli comunica di essere incinta. Seguono pagine in cui la periferia della città con i suoi blocchi di cemento e i cimiteri d’auto e poi la vastità del cielo diventano personalizzazione di stati d’animo estremi. Il protagonista, in quegli ambienti si sente uno scarto: “l’uomo più assente della storia” come la moglie era solita definirlo. Gli risuonavano le parole del collega che si prese l’ingrato compito, con ipocrita cordialità, di comunicargli il suo licenziamento per le sue continue assenze. Ma poi la contemplazione della vastità del cielo, di quel vuoto, di quel nulla così integro da essere pieno, lo fa sentire parte di esso. Non apparteneva più a sé stesso, ma a quella vastità – profonda e insondabile. “Mi tornò in mente Maddalena. Ripensai alla vastità del suo cielo interiore. Mi vennero in mente i suoi occhi  chiusi”. È infatti questa donna che gli fa vivere l’esperienza della fuga dal mondo, con la caduta delle maschere e l’ebbrezza della nudità dell’io. Viveva l’incanto di chiudere fuori l’esterno. Entrambi erano nel tempo della giovinezza recuperata, sensazione tanto più forte quando è vissuta da una coscienza adulta. Il racconto si chiude in modo tragico: la moglie morirà fulminata in una vasca da bagno; Maddalena, l’unica donna che forse aveva veramente amato e a cui aveva comunicato di non volerla più rivedere, finirà in psichiatria dove le toglieranno la sua anima bella perché pensavano che potesse farle male. Eppure, quella stessa anima malata a lui aveva fatto solo bene. Sono queste le nefaste conseguenze del suo  disperato tentativo di essere sé stesso.

Si riconosce troppo vile per suicidarsi, ma è torturato e consumato dal tarlo della colpa. E “la cosa spaventosa nei sentimenti di colpa – dice il grande pensatore bulgaro Elias Canetti insignito nel 1981 del Premio  Nobel della Letteratura – è che neanche essi sono giusti”.

Nel secondo racconto “Il morso della modella” è Lilith la cameriera di un locale con le sue forme sinuose e la sua dinamicità ad attirare l’attenzione del protagonista, ricercatore di filosofia del diritto e studioso di Triepel, fino a passivizzarlo. È dopo un litigio che emerge la natura narcisista ed egocentrica, arrogante e cinica di Lilith, donna determinata e dall’insulto facile. È il protagonista stesso che provoca l’avvento alla luce dei demoni più oscuri che esistevano all’interno del rapporto. Egli svela alla sua compagna, in uno slancio di sincerità, e nei minimi particolari, l’avventura con Alma, una ragazza alta e magrissima e col seno minuto, sicuro che Lilith avrebbe apprezzato il suo desiderio di rimanere con lei nonostante la sua infedeltà. Aveva forse ragione Nietzsche a sostenere che nella vendetta e in amore la donna è più barbara dell’uomo, se il lettore riflette sul volgare e studiato regolamento di conti che lei mette in atto nel momento in cui egli ha maggiormente bisogno di lei. E, per quanto il protagonista, uomo sensibilissimo cresciuto con la nonna, donna rigida e colma di virtù, perché figlio di genitori emigrati ai quali non si era mai rivolto nei suoi momenti difficili per non farli preoccupare, per quanto il protagonista abbia imparato a sue spese che non fa bene all’uomo vivere in modo esclusivo ed assoluto il rapporto con una donna, si rivela uomo assai bisognoso di quell’affetto di cui sembrava voler fare a meno. “Reggere il nulla è l’operazione più difficile che possa compiere un uomo”, la vita stessa è una perdita già al momento stesso della nascita, in quanto fine dell’esperienza intrauterina del feto con la madre. “Perdiamo ogni giorno: amici, amori, affetti, giorni di vita”. E anche l’amore, aggiungerei, si coniuga con il verbo perdere e con il sostantivo libertà perché quando amo una persona, in me muoiono l’orgoglio e la gelosia. Ciò non significa subordinazione affettiva ma è  presa di coscienza che l’uomo non può riempire il suo vuoto riempiendolo con la vita del suo simile, neanche con quella di chi lo ha generato e neanche con quella con cui ha concepito vita. “Imparare a vivere il vuoto è l’unica sapienza che valga la pena apprendere”.

L’autore si augura che il libro possa essere letto da chi abbia sperimentato il vuoto, la malattia dell’anima, da  chi si scopra infermo. Eppure, tale malessere appartiene ad un ente – l’uomo – che vorrebbe essere eterno, e cioè a chi vorrebbe essere tutto in tutti senza essere visto, all’uomo che vorrebbe essere Dio ma scopre la sua incompiutezza. Per molti aspetti  “Il morso della modella” rievoca l’opera più drammatica e fine del grande pensatore danese Soren Kierkegaard in “La malattia mortale”.

Se nei primi due racconti il lettore può essere tentato da un giudizio sull’autore, ritenendolo magari desideroso di compiere una accesa critica al femminile, nel terzo racconto Estasi e follia, il punto di vista invece s’inverte diametralmente . Posseduto[1] da una straordinaria sensibilità che va oltre lo sdoppiamento di genere, Martone veste il corpo di una donna di cui non svela il nome, ma la cui vita di moglie e di madre non le basta più. Dominata dal piacere di sentirsi ancora desiderata, ha voglia di trasgredire, vive la dimensione virtuale con Giacomo molto più intensamente di quella reale che vive con suo marito. La sovrapposizione del virtuale al reale è una nitida fotografia di questo tempo in cui si cerca il sesso online, segno di un malessere profondo dell’uomo e della donna che vogliono riannodare il filo narrativo della loro vita. Come appunto succede alla protagonista: ella si eccita a fare sesso virtuale ma, in realtà, in Giacomo non cerca soltanto questo, perché il suo desiderio più profondo è quello di raccontarsi. E nel momento in cui questa relazione fittizia s’interrompe, lei comprende che i social sono stati inventati con il precipuo scopo di mentire. Comprende che le persone in rete non la vedevano davvero. Capisce anche che lei stessa non mostrava chi in realtà fosse, ma chi avrebbe voluto essere. Eppure Giacomo era l’unico uomo di cui si era innamorata davvero, ma Giacomo non esisteva, non l’aveva mai incontrato, era stato bannato da lei nel momento in cui inizia a ricattarla. Con una straordinaria potenza introspettiva, l’autore trasporta il lettore in una dimensione altra, che è quella della libertà. Che è follia agli occhi di suo marito che la fa internare in un ospedale psichiatrico. La protagonista intanto continua a vivere in quel mondo parallelo eternamente sospeso fra Giacomo, che disperatamente cerca, e suo marito: fra la vita reale e quella virtuale, fra il suo corpo e l’universo, fra la famiglia e la libertà. E dietro quei pensieri osceni legati al sesso, dietro quelle immagini peccaminose e impure, che una lettura superficiale potrebbe ascrivere alla patologia del mitomane affetto da delirio di onnipotenza, c’era solo un desiderio d’amore e di purezza. Se l’uomo capisse – sembra suggerire l’autore – che le maggiori oscenità escono dal cuore dell’uomo e non dal corpo, ci sarebbero i presupposti per edificare un’unanimità migliore. La sentenza del marito su di lei la definisce “la donna peggiore del mondo” mentre lui si considera “l’uomo più sfortunato”. Non le concede il divorzio perché responsabile di lei e della sua pazzia, ma pensa anche che dovrebbe morire per liberare lui e i suoi bambini. L’identificazione di Camilla come folle era stato qualcosa di più cruento della stessa morte fisica. Aveva annientato la sua personalità, mortificato la sua dignità di donna e di madre, di persona libera. Non a caso, ad Alda Merini che ha vissuto più volte il dramma della reclusione in un ospedale psichiatrico, a lei che ha saputo trasformare il dolore dell’internamento in una fonte d’ispirazione per la sua sublime produzione letteraria, piace “chi sceglie con cura le parole da non dire”. Sarà capitato anche a noi lettori, almeno una volta nella vita, di immergerci negli abissi dell’essere e di chiederci: “E ora, in questo momento, in quale mondo mi trovo?”

Dal punto di vista di una paziente a cui hanno diagnosticato la sindrome bipolare di tipo uno, l’autore descrive gli effetti del litio, della quietapina, dello ziprex e del valium e di tanti psicofarmaci che sedano le emozioni. Seguono pagine che trasportano il lettore nella psiche di un essere umano che vive il dramma di un trattamento sanitario obbligatorio, mentre i camici bianchi credono di contenere in grafici, curve e diagrammi la sfera emotiva dei pazienti. Nessun medico, psichiatra o psicanalista può conoscere le dinamiche profonde del corpo e la protagonista si chiede che cosa avrebbe perso l’umanità se anche Van Gogh, Leopardi, Mozart, Morrison e Baudelaire avessero dovuto assumere mattina e sera Litio, Alprazig, Depamag, Citalopram. Se si ha il coraggio di varcare la soglia di ciò che l’uomo socialmente strutturato definisce follia, se si sciolgono i nodi dell’inibizione, si sperimenta quel  godimento che immette nell’infinito: ciò che potremmo anche definire l’estasi. Si entra in una dimensione senza confini, in un processo cosmico in cui ci si identifica con le forze naturali fino a fondersi con loro. Non è il panismo dannunziano, non è lo spirito dionisiaco votato al vitalismo pieno e libero dai limiti imposti dalla morale tradizionale, non c’è una mitologia dell’istinto che permette al dandy di trasformarsi in superuomo. C’è invece l’uomo che preferisce scappare dal labirinto in cui è rinchiuso, impresa coraggiosa che passa attraverso un cammino a piedi più faticoso della discesa agli inferi, perché dentro sé stesso. E dopo la risalita “a riveder le stelle”, di liberatorio c’è il folle volo verso il sole. Un movimento verticale che contrasta con lo spazio chiuso e orizzontale del labirinto in cui ognuno di noi è prigioniero e da cui può evadere, ma luogo in cui inesorabilmente ritorna,perché sopraggiungono i sensi di colpa, i doveri morali e perché nel labirinto c’è la rupe a cui le nostre mani si aggrappano. Come non citare allora James Joyce, il quale afferma che, quando un’anima nasce, le vengono gettate delle reti come la religione, la lingua e la nazionalità per impedire che fugga, ma lui cercherà comunque di fuggire da quelle reti.

I tre racconti di Martone, in particolare nelle pagine conclusive dell’ultimo, sostengono che dopo l’ebbrezza della fuga si ripiomba nel labirinto. Si può solo acquisire  consapevolezza che le scelte non esistono, che l’uomo si illude di conoscere il significato delle cose e che della verità, in fondo, non sappiamo niente. Triste destino allora quello dell’uomo a cui è concesso di pregustare attimi di eternità nel nulla eterno. Nel nostro corpo mortale si può essere come Dio e godere come lui, insieme a lui, se gli facciamo abitare il nostro vuoto. Ma questa è decisamente un’altra storia.

 

[1] Accostare il participio passato del verbo possedere al termine sensibilità è l’emblema del dominio del cuore sulla ragione nell’ottica della libertà dell’uomo. La sensibilità è il demone che cancella ogni moralismo.

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