Nel corso del recente, applauditissimo tour delle colonie europee Joe Biden (o forse un suo sottopanza, ma poco cambia) ha chiarito che quella in Ucraina è per gli americani una guerra “esistenziale”. Essendolo dichiaratamente anche per la Russia possiamo aspettarci il peggio; bando però alle geremiadi e proviamo a chiederci perché gli yankees non vedano alternativa alla vittoria (la loro, mica quella degli ucraini) e cosa ciò concretamente comporti per noi europei, comparse senza velleità di protagonismo.
Che cosa si proponeva l’amministrazione Biden promuovendo il conflitto che si trascina ormai da un anno? È presto detto: la ghettizzazione, l’indebolimento, nella migliore delle ipotesi la disgregazione della Russia, percepita dall’establishment come un ostacolo alla propria brama di predominio globale.
In parte l’obiettivo è stato raggiunto: la Federazione appare oggi irrimediabilmente isolata dall’Europa, con cui erano in corso fruttuosi rapporti economici, e le perdite subite sul campo (per quanto ingigantite ad arte dalla scandalosa propaganda occidentale) hanno lasciato e lasceranno il segno. Il problema è che, non potendo intervenire direttamente (per ovvie ragioni: la Russia ha migliaia di atomiche da lanciare), gli Stati Uniti e i loro satelliti si sono dovuti accontentare di rimpinzare di armi un esercito che, per quanto agguerrito, non è del tutto affidabile e, in ogni caso, tende per forza di cose a subire l’iniziativa avversaria.
La demonizzazione del nemico “asiatico”, funzionale a mobilitare l’opinione pubblica interna e farle digerire pesanti sacrifici, ha però una controindicazione: una volta indicato nella Russia di Putin il “Male Assoluto” non è agevole tornare indietro nè cambiare narrazione in corsa. Insomma: adelante ma con juicio, con il rischio però che un sostegno concesso con il freno a mano mezzo tirato non sia sufficiente a impedire una vittoria nemica. Intendiamoci: l’ex Armata Rossa, già piuttosto provata, non riuscirà a conquistare l’intera Ucraina e, se per miracolo lo facesse, faticherebbe poi a controllarla. Una nuova avanzata su Kiev e Kharkiv, tuttavia, potrebbe far collassare la difesa ucraina e agevolare la liberazione del Donbass, forse dell’intero territorio a est del fiume Dnepr: a questo punto il governo del “Paese aggredito” (ma a sua volta per otto anni aggressore) non avrebbe altra scelta che sedersi al tavolo delle trattative per cercare di salvare il salvabile. Vista la “eroica resistenza” fin qui esibita a spese dei coscritti l’élite ucraina non perderebbe la faccia e forse neppure il controllo di parte del Paese, ma per gli americani sarebbe un’insopportabile batosta. Si sente spesso dire che dopo l’ignominiosa ritirata da Iraq e Afghanistan gli USA sono abituati alle figuracce (e non ne risentirebbero troppo), ma il giudizio è superficiale: in Asia centrale essi hanno comunque conseguito i loro obiettivi, generando un pantano impraticabile da altre potenze dopo essersi opposti con poca convinzione ad avversari locali in fondo modesti, raccogliticci, non realmente competitivi. La precipitosa fuga da Kabul lede marginalmente il prestigio dei presunti signori del mondo e non scalfisce la loro (pre)potenza.
Un confronto perso con la Russia (anche se poco costoso in termini di vite umane e mezzi impiegati) avrebbe invece un impatto devastante sulla percezione che il resto del mondo ha della superpotenza a stelle e strisce: sarebbe un’ammissione di debolezza al cospetto di uno Stato che i governanti americani hanno additato come uno dei due principali nemici-obiettivo. Una sostanziale resa dei loro protetti sancirebbe non soltanto il fallimento della strategia dei democratici USA (più bellicosi e imperialisti persino dei tradizionali rivali di “destra”), ma potrebbe provocare sommovimenti su scala internazionale, travolgendo le fedelissime élite che in nome e per conto di Washington amministrano le colonie militarmente occupate.
In questa crisi i vertici della cosiddetta Unione Europea e dei Paesi soggetti alla NATO – fra cui l’Italia – hanno dimostrato una cadaverica obbedienza agli ordini provenienti da oltreoceano e, totalmente incuranti degli interessi nazionali (e sovranazionali), hanno messo in campo contro la Russia tutte o quasi le loro risorse militari, economiche, “valoriali” e propagandistiche. È emerso un livello di subalternità imbarazzante: non solamente i c.d. leader europei hanno rinunciato a qualsiasi iniziativa autonoma e spedito armamenti gratis et amore a un Paese nemmeno alleato, ma si sono lasciati umiliare a più riprese – e senza fare una piega – da un figurante in costume da militare e, nel caso dei tedeschi, hanno persino ingoiato il sabotaggio di un’infrastruttura strategica a opera degli “alleati”-padroni. Tutto questo – merita sottolinearlo – contro la volontà più o meno chiaramente espressa dalla maggioranza dei cittadini, che temono un’escalation nucleare non inverosimile (checché ne dica il Feltri di turno) e che di morire per una corrotta autocrazia orientale non hanno soverchia voglia.
Se (e dico se) tutta questa solerzia e questi ingenti sforzi economico-finanziari non approdassero ad alcun risultato e il “feroce dittatore” Putin vincesse anche in extremis e faticosamente la sanguinosa partita, i popoli europei potrebbero alzare testa e voce e chiedere conto ai sedicenti loro rappresentanti delle scelte compiute, che hanno avuto e stanno avendo un costo in termini di servizi da rendere alle persone (le spese a fondo perduto per armamenti significano ulteriori tagli a sanità, istruzione, ammortizzatori sociali, incentivi ecc.). L’inevitabile messa in discussione dell’operato di classi dirigenti locali rivelatesi succubi e inaffidabili accompagnandosi a una crisi di identità della potenza USA porrebbe a repentaglio il predominio statunitense sul Vecchio Continente e offrirebbe ai nostri popoli la chance di affrancarsi da una presenza a questo punto (in realtà: dalla caduta dell’URSS) non giustificabile e per così dire “castrante”, dal momento che rappresenta un oggettivo freno allo sviluppo di politiche economico-sociali autonome e all’affermazione di un ruolo da co-protagonisti nel mondo.
In questo quadro del tutto eventuale potrebbero ritagliarsi uno spazio quelle forze antisistema di ispirazione socialista che oggi oscillano fra un tiepido ripudio del neoliberismo imperante “nobilitato” da qualche battaglia civile e l’irrilevanza decretata dal sistema mediatico nei confronti di chi si oppone recisamente al sistema attuale. La “caduta degli dei” (cioè degli idoli) restituirebbe vigore – e magari radicamento sociale – agli eretici, che agli occhi della cittadinanza apparirebbero non più come ammuffiti e trascurabili sognatori, bensì come portatori di proposte da valutare. Considerato poi che la Russia punta a riallacciare i rapporti con l’Europa senza annettersela e soffocarla (e che la Cina è interessata soprattutto a rafforzare i legami commerciali) si aprirebbero prospettive di cooperazione con entitá statali senz’altro disposte al dialogo e non intenzionate a condizionare le nostre scelte di modello sociale. Paradossalmente ciò che media e politicanti paventano come un incubo (una prossima vittoria russa ai punti) costituisce un’alternativa di sicuro preferibile a un conflitto senza fine o a un trionfo “occidentale”, che renderebbe ancor più ferrei i nostri legami di sudditanza verso Washington e i suoi interessi, divergenti da quelli europei.
Fonte foto: Open (da Google)