Note critiche sulla narrazione dominante del fenomeno stragista nordamericano

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

 

Introduzione: la necessità di indagare le criticità della narrazione dominante sullo stragismo privato

Il pretesto per le riflessioni contenute nel testo seguente è stato fornito da un breve trafiletto razzista di un certo Paolo Mastrolilli. Non ci occuperemo di mostrare per l’ennesima volta la radice e la natura della violenza e dell’odio (e le menzogne) contro gli uomini generati da questi contenuti, che considerano la società umana non come portatrice di un diritto oggettivo, ma oggetto di un potere, mera passività sottoposta a eventi decisi da una minoranza, o comunque da altri, senza alcuna legittimazione nel discorso pubblico (cancellare tutto il bene che gli uomini hanno fatto e fanno ogni giorno e metterne in risalto solamente l’ombra, il male; legittimare l’idea che le donne siano moralmente -e finanche biologicamente- superiori agli uomini): questo compito è stato assolto da una notevole quantità di scritti, in queste pagine e altrove.
Ciò di cui ci occuperemo sarà invece l’interpretazione maggiormente diffusa del fenomeno del mass shooting, a cui tenteremo di affiancarne (seppure nei limiti di spazio del seguente scritto) una nostra. A proposito mi preme rilevare che, per quanto moventi di un crimine non andrebbero mai generalizzati, sarebbe impossibile costruire una teoria sociale che non presenti delle schematicità e delle riduzioni (che saranno presenti quindi anche nella nostra proposta teorica). Ciò che contestiamo rispetto alla proposta teorica dominante è l’impiego esclusivo di una prospettiva di genere (muovendo dal rilievo statistico che a commettere queste stragi sono soprattutto uomini) che vede in queste manifestazioni di violenza l’espressione di una maschilità declinata secondo certi tratti, quali l’eterosessualità, l’identificazione con il padre, l’ancoraggio a valori tradizionali e che si traduce (con una frequenza ormai allarmante) in tesi razziste come quella contenuta nell’”articolo“ di Mastrolilli: gli uomini sono biologicamente e moralmente inferiori alle donne, violenti, apportatrici di immani iatture. Tale prospettiva del resto, non è semplicemente fallace dal punto di vista della analisi del rilievo storico e sociologico (e moralmente ripugnante): essa è del tutto inidonea nel tentativo di prevenire o arginare tali fatti di sangue.
Giustizialismo ideologico e a-ideologico: sciacallaggio dei media e questione di genere, ovvero della medicalizzazione di tratti caratteriali e  socialmente appresi, in assenza di un contesto condiviso

Partendo da un tentativo di proposta definitoria, il mass shooting può essere indicato come una furia omicida a carattere vendicativo; i caratteri dominanti di questo giustizialismo sembrano essere (vedremo a breve in che misura) ideologia ed emarginazione. Il giustizialismo ideologicamente motivato rientra in una dimensione politica favorevole alla “gun culture” e al militarismo, solitamente di estrazione ultra-nazionalista e razzista – in altre parole, ideologie di estrema destra e revansciste; negli Stati Uniti (luogo in cui queste forme di stragismo esplodono maggiormente -fattore che non può essere trascurato-) vi è infatti un lungo elenco di shootings perpetrati da agenti militari o ex-militari. Certamente in molti casi la psichiatria porta alla luce episodi di PTSD, ma ciò non riduce il contenuto ideologico che usualmente emerge da questi episodi. Il giustizionalismo a-ideologico invece, più ineffabile ad un occhio disattento, può essere meglio inserito nella categoria della “riparazione al torto” e si verifica frequentemente lì dove si trovano dei vissuti di sofferenza ed emarginazione (vissuti che sono ben presenti anche in quei casi in cui sembrerebbe essere presente anche un innesto ideologico).
Volendo trattare più da vicino di questo seconda specie – ultimamente salita alla cronaca per via della sua ambigua connessione con l’universo degli Incel, di cui qui non si tratterà nello specifico per motivi di spazio – si potrebbe fare riferimento a quanto Erving Goffman riferiva intorno allo stigma, poiché la prospettiva teorica di questo autore potrebbe risultare comunque utile all’interno di questa mia premessa. Scriveva Goffman:
“Allo stigmatizzato si chiede di agire come se il suo fardello non fosse pesante, né che il fatto di portarlo lo abbia reso diverso da noi; allo stesso tempo deve mantenersi a una certa distanza da noi in modo da consentirci di confermare, senza dolore, le nostre convinzioni su di lui. In altri termini, gli si consiglia di ricambiare spontaneamente, l’accettazione di se stesso e nostra, un’accettazione di lui che noi per primi non gli abbiamo dato abbastanza. In questo modo, un’accettazione fantasma fa da fondamento a una normalità fantasma”.
Per Goffman, la società vive di una “normalità” che non è tuttavia quella dello stigmatizzato; a questi tocca un’accettazione fittizia, un “fantasma” di normalità. A questi pervengono messaggi contraddittori: le buone maniere e il quieto vivere impongono alla società di mantenere una facciata di accettazione del suo fardello, che non deve apparire pesante, ma allo stesso tempo si chiede a questi di mantenere un’opportuna distanza. Infine si chiede allo stigmatizzato di accettarsi, ma chi lo propone, e noi per primi, non lo accettiamo. L’approccio dell’interazionismo simbolico osserva come l’individuo viva in una rete invisibile di relazioni simboliche; questa rete favorisce un certo tipo di “normalità”, ma è potenzialmente invischiante per gli stigmatizzati. Eppure anche questi, dovendo recitare la propria parte sul palcoscenico della vita, semplicemente non possono sottrarvisi.
Sino a qui ho alluso genericamente agli stigmatizzati intendendoli come esseri umani, senza meglio identificarli; ma non si era accennato al fatto che i mass shootings siano, con tutta evidenza, una questione di genere? La risposta ovviamente è positiva, e in particolare si dovrebbe parlare dunque della violenza riparativa dello stigmatizzato come di una espressione di genere, ovvero in questo caso specifico, di come la persona che si riconosca in una particolare identità di genere, che è maschile, eterosessuale e cisgenere, sembri più frequentemente subire nella propria vita certi eventi particolarmente traumatici, certe lesioni della propria dignità; e a queste, in alcuni casi e in alcuni contesti, reagisca compiendo un’azione significativa e plateale, che appare possibile poiché socialmente appresa e condivisa. Come abbiamo testé accennato però, proprio in questo passaggio (la questione di genere) si rilevano (e rivelano) quei contenuti che noi contestiamo. In qualsiasi testo di psicologia sociale infatti (lasciamo da parte la spazzatura razzista di Repubblica, La Stampa e di questi personaggi assurdi come Valeria Montebello, Emanuela Griglié o Mastrolillo), alla voce men and masculinities, l’atto di violenza riparativo in extremis appare come il risultato fallimentare di un modello generale più ampio – definito come una strutturazione eteronormativa e patriarcale – compiuto da un soggetto su cui (per non farsi mancare niente) pende la spada di Damocle della diagnosi specialistica, la quale inserisce discorsivamente gli individui che posseggono quei suoi stessi attributi di maschio, (caucasico), cisgenere, entro una categoria-ombrello di privilegiati inconsapevoli (attribuzione che tradisce evidentemente la sua natura di critica socio-politica). A questa categoria-ombrello di individui pertanto, nonostante non sia ancora pervenuta alcuna conferma dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichiatrici, il giudizio specialista attribuisce caratteri di problematicità. L’American Psychological Association (APA) ha infatti inserito la categoria della “mascolinità tradizionale” tra le patologie potenzialmente diagnosticabili, esprimendosi così: “Traits of so-called “traditional masculinity,” like suppressing emotions & masking distress, often start early in life & have been linked to less willingness by boys & men to seek help, more risk-taking & aggression — possibly harming themselves & those with whom they interact.” Nella vulgata comune invece si è diffuso un termine che ha pressappoco lo stesso significato: mascolinità tossica. Quali possono essere le conseguenze di questa pratica? A titolo esemplificativo vorrei citare alcune osservazioni del filosofo Slavoj Žižek (non di certo tacciabile di maschilismo) durante una delle sue numerose conferenze, il quale pone una critica alla medicalizzazione del concetto di mascolinità tossica, presente all’interno delle linee guida dell’APA. Cito testualmente:
“If you read the description of toxic masculinity, it goes – I repeat pretty literally – that it’s a male attitude of, when you are in a difficult situation, instead to reach to others, you inclose yourself into yourself and act out aggressively, hurting not only others but maybe even yourself. I’m sorry, I’m just shocked here, in some situations we call this courage, you have to act like this.”
La definizione dell’APA, come si è già detto, si riferisce in realtà ad una “traditional masculinity” – ma viene usualmente adottata, specialmente nel gergo femminista, la definizione di “mascolinità tossica”. Come osserva Žižek, l’operazione dell’APA è quella di medicalizzare, in ultima analisi, alcuni tratti che potrebbero anche definirsi caratteriali e socialmente appresi, eppure non è in questo che risiede la novità: nel modus operandi della psichiatria e della psicanalisi, da sempre i profili diagnostici vengono compilati a partire dall’osservazione empirica del comportamento umano. Ciò che è veramente nuovo qui, è la mancanza di un contesto condiviso in cui inserire questa comunicazione. Falliscono in questo frangente diversi presupposti che già Habermas aveva identificato come fondamentali di un’etica del discorso: la definizione dell’APA non è infatti legata ad un valore deontologico condiviso, perché non è validata né dall’interlocutore – il maschio problematico cui si attribuiscono caratteri di tossicità – né ancora ampiamente condivisa dai saperi tradizionali, e non appare dunque neanche fondata su presupposti di correttezza e affidabilità; in altre parole non appare (ancora?) come universalizzabile, come in buona parte fu, a torto o a ragione, la psicoanalisi freudiana – la quale diede il là al mestiere dello “psicologo” e lo inserì nell’immaginario comune, dove è rimasto quasi immutato nonostante i numerosi indirizzi teorici susseguitisi negli anni. L’idea di medicalizzare (forse per la prima volta e nonostante le voci contrarie) una condizione che sia “gender-specific”  appare dunque una iniziativa quantomeno sfacciata che avrebbe destato più di qualche sospetto se, mutatis mutandis, si fosse applicata alle categorie psicoanalitiche tradizionali: tutti sanno che l’isteria viene tradizionalmente attribuita alle donne, eppure nemmeno Freud, nei suoi studi sul fenomeno, sognò di formulare terminologie quali “femminilità isterica” o “nevrotica”, o mutatis mutandis, “femminilità tossica.”
Ora, pur ammettendo che Zizek abbia frainteso ciò che avrebbe realmente voluto intendere l’APA nelle proprie linee guida, la domanda sorge spontanea: se uno dei filosofi più rinomati e attivi del nostro tempo – e che difficilmente come abbiamo già detto si potrebbe tacciare di maschilismo – è giunto a quella interpretazione del contenuto delle linee guida dell’APA, quali speranze si suppone possa avere il comune ragazzino in difficoltà, o persino l’adulto, che navighi per la rete e i social, faccia zapping in tv o legga i quotidiani, e si imbatta casualmente nella “mascolinità tossica” – in una descrizione spesso semplificata e gettata nella mischia della polemica da salotto? Per quale ragione dovrebbe rivolgersi ad esperti che questi suppone abbiano designato i suoi problemi come afferenti ad una “tossicità” del suo essere maschio? Il problema, è evidente, risiede nella definizione stessa, nel suo riferire un problema ad uno specifico genere in quanto facente parte di quel genere. In altre parole, nella sua implicita offensività. E ripeto, questo al netto di articoli spazzatura come quelli della Stampa, di Repubblica, del Corriere della Sera e di tutti quei molluschi che venderebbero la propria madre per tre denari (non trenta, non c’è bisogno di scomodare le Sacre Scritture). In ragione di ciò, pur non professando una assoluta distanza e un muro contro muro rispetto agli studi di genere, intorno ai quali c’è finanche troppa ignoranza, non si può non osservare che il modo in cui se ne parla è profondamente sbagliato: l’unica forma in cui rispetto ad essi è investito il settore scolastico è in buona sostanza quella femminista, e ciò che trapela dai saperi esperti, ben lungi dall’ampliare le conoscenze della società civile, appare come un giudizio di condanna ad un eterno inemendabile rispetto all’intero genere maschile. Le questioni che interessano il genere maschile appaiono infatti in ogni caso monopolizzate dalle tesi femministe. E in quei rari casi in cui il mondo accademico consente ad alcuni outsider di esplorare questo terreno di ricerca (la condizione maschile appunto), questi autori (a loro volta spesso stigmatizzati) riconducono la gravosa problematica dello shooting ad un ordinamento “patriarcale” dei valori sociali. E qui si può rinvenire, nuovamente, la debacle della cultura dominante; come si potrebbe infatti ricondurre il problema dello stigma di goffmaniana memoria, che vede maggiormente colpite fasce di giovani indifesi e nostalgici di una paternità assente (ammesso e non concesso che il tema sia questo), ad una teoria della società che ha tutta l’aria di muovere guerra alla paternità?

La  pretesa di poter includere nel tessuto sociale chi è privo di un logos paterno attraverso le pratiche e discorsi di una teoria che muove guerra alla paternità

Questa teoria arriva sul fatto e mira a spiegarlo: la giustizia riparativa è possibile perché gli uomini imparano socialmente ad agire così; più inadeguata è tuttavia a spiegare ciò che avviene prima del fatto, in quanto riconduce la discriminazione ad un problema strutturale fondato su diversi rapporti di potere, tali per cui vi sono modi di fare la maschilità maggiormente discriminati, in quanto difformi dal modello eteronormativo. Il che, non occorre molto a capirlo, implica che l’eterosessualità sia tossica ab origine qualora questa si voglia fare norma, e ciò, se mai occorra precisarlo, non ha tuttavia nulla a che fare con la questione dello stigma subito e percepito dagli attentatori. Presentiamo qui dunque il primo elefante nella stanza: chi si occupa delle questioni di genere afferma che ad essere discriminati sono i maschi non etero (e ne conclude, come rilevato sopra, che la maschilità eterosessuale è tossica ab origine, in sé). I promotori degli studi di genere aggiungono poi che questi uomini uccidono in quanto sono abituati a praticare la violenza, violenza che viene praticata contro uomini non etero. Però qui abbiamo uomini etero che la violenza l’hanno subita e che prima del fatto non l’avevano mai praticata. Soprattutto i giustizieri più giovani, i cosiddetti school shooters, salvo plateali eccezioni (si pensi per esempio ad Elliot Rodger) non si distinguono per un comportamento violento e antisociale; solitamente sono loro a subire simili condotte. Si potrebbe certo obiettare, in un’ottica intersezionale, che non sono gli omosessuali a discriminare gli etero, bensì gli etero a discriminare gli altri etero e gli omosessuali; così come non sono i neri ad essere violenti coi bianchi, ma i bianchi con gli altri bianchi ed i neri. Questa ipotesi andrebbe adeguatamente vagliata per comprenderne la fondatezza, non ho qui i dati ma certo non si può escludere a priori. Eppure, anche se questo fosse il caso, l’idea di voler aiutare, con ogni buona intenzione, un giovane emarginato “etero” con alto potenziale esplosivo, identificando tuttavia nel suo essere maschio una “tossicità” dovuta alla sua incapacità di aprirsi all’esterno, e quindi cercando di educarlo, direttamente o indirettamente, a rigettare le istituzioni patriarcali della società a cui questi possibilmente fa affidamento – che già il femminismo, alleato storico delle teorie qui espresse, identificava molto bene nella Chiesa, nella famiglia, nell’esercito, e via dicendo – appare nel complesso contraddittoria, se non del tutto delirante; è invece certo che un simile giovane sia spesso nostalgico di quel logos paterno, di quella guida etica entro cui egli continua a rispecchiarsi nonostante tutto, e di cui egli è sovente sprovvisto. Ribadisco: l’identità dell’attentatore è inesorabilmente maschile ed eterosessuale, e in quanto tale si identifica, freudianamente parlando, nel padre. Capendo ciò, e di fronte ad eventi così gravi, non si può più giocare ai rimbrotti politici. Questa non è una questione politica, è innanzitutto una questione sociale ed etica che porta alla luce ciò che si nasconde sotto il tessuto lacerato dell’Occidente. Occorre dunque comprendere bene quali siano le ragioni per cui il soggetto maschile e cisgenere appaia legato così strettamente alla propria virilità, al punto da farne una questione di vita e di morte qualora questa venga colpita da uno stigma. Nel suo importante studio sul tema5, Michael Kimmell individua cinque fattori che, insieme, contribuiscono all’attuarsi degli school shootings: (1) marginalizzazione sociale (bullismo incessante e insulti, spesso accompagnati all’esclusione e alla derisione da parte dei membri del sesso opposto -le donne- ), (2) fattori predisponenti individuali (tutti quei fattori di tipo psicologico che spingono soltanto alcuni ragazzi marginalizzati ad attaccare, mentre altri trovano diverse strategie di coping), (3) script culturali (ad esempio l’influenza dei media o delle piattaforme che hanno ispirato o giustificato le loro azioni), (4) il fallimento dei sistemi di sorveglianza (sia che si tratti della sicurezza fisica o di un sistema di sorveglianza della salute mentale, per cui non ci si rende conto in tempo dei segnali di allarme), e (5) la disponibilità di armi. Tutti questi fattori sono da ritenersi fondamentali perché possa verificarsi un assalto, tuttavia secondo l’autore citato non bastano comunque a spiegare il fenomeno, e dovrebbero essere integrati da una teoria a più ampio raggio, ovvero quella dell’entitlement: in tal senso, i ragazzi e i giovani uomini che si rendono più spesso protagonisti di simili atti sono definiti non come devianti, ma come eccessivamente conformisti rispetto ad un preciso – e pervasivo – modello di mascolinità, che si potrebbe anche definire come “tradizionale”, e che contempla la possibilità – e dunque anche la probabilità – di rispondere a determinate offese con la violenza riparativa più efferata (e qui, nonostante Kimmel la prenda molto alla larga, entra un secondo elefante nella stanza, ovvero il fatto che le istituzioni sociali e giuridiche predispongono gli uomini alla competizione, alla lotta senza quartiere, alla violenza e al sacrificio alimentandosi di tutto questo, salvo poi, quando accadono certi fatti, esprimere un cordoglio e una condanna del tutto ipocrite. Bisognerebbe ricordare infatti ai Mastrolillo, Franceschetti e Gramellini che sono solamente uomini i soccorritori delle vittime del recente terremoto in Turchia… la tanto vituperata mascolinità tossica è l’altra faccia dell’immensa generosità maschile).
Accogliendo gli spunti di Kimmel, propongo quindi di osservare la questione sotto diverse prospettive. In un’ottica psico-sociale, è importante porre l’attenzione sul danno causato dal bullismo scolastico a questi ragazzi, che è tanto più considerevole quanto più scarse sono le risorse emotive ed affettive a cui questi riescono ad accedere. Indagando i profili psicologici più frequenti tra gli school shooters, si è osservato come i ragazzi che soffrono di precedenti traumi (per separazioni familiari, abuso fisico o sessuale) o che posseggono tratti psicotici (come la schizofrenia, che include allucinazioni audio uditive e paranoia) oppure ancora psicopatici (particolarmente narcisisti e di scarsa empatia) sembrino caratterizzare un campione statisticamente rilevante. In un’ottica sociologica e di genere, a questa analisi di livello micro (il grado conformità del profilo dell’attentatore alla cosiddetta “mascolinità egemonica”) ne andrebbe affiancata una di livello macro, che consideri dunque anche l’ambiente sociale e istituzionale in cui questi è inserito. Tale ottica (quella di genere) è senz’altro utile, ma la sua sistematizzazione presenta nuovamente qualche problematica. Gli indicatori della cosiddetta “mascolinità egemonica” sono infatti arbitrari, come quelli che riguardano la “mascolinità tossica”. Certamente è possibile sfruttarli per muovere una critica reale a certe dinamiche che si verificano all’interno delle scuole e dei campus universitari, soprattutto statunitensi. Di nuovo il problema non risiede nell’illogicità della teoria, ma nella sua parzialità, ovvero sia nel suo voler traslare diverse categorie della lotta tipiche della sinistra (i concetti di “privilegio”, “tossicità”, o lo stesso concetto di “Egemonia”, direttamente estrapolato da Gramsci) all’interno di una teoria sociale che mira ad informare i più diversi settori della società, tra cui quelli citati: la psichiatria e l’istruzione pubblica. Quel che io propongo non è di rigettare in toto l’ottica di genere, poiché questo è ciò che fa solitamente chi la ignora, o chi ha già preso partito. Non sono assolutamente di questo avviso. Propongo piuttosto di riflettere su questa considerazione: cosa succede quando una teoria sociale politicizzata individua nel soggetto che vorrebbe riabilitare – leggasi: individua all’interno della sua struttura identitaria – esattamente una delle cause dei problemi della società? Questa appare al sottoscritto la contraddittorietà potenzialmente esplosiva della proposta avanzata dall’APA. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. In tempi di forte recessione, in una società sempre più divisa, alienata e alienante, non tutti gli ultimi sono considerati uguali, come è pure evidente che non tutti gli ultimi reagiscono allo stesso modo. I possibili attentatori, i soggetti fin qui descritti, restano confinati nell’isolamento delle loro camere dell’eco, e non hanno alcuna intenzione di uscirne perché non riconoscono alcuna validità nell’aiuto offerto. A peggiorare la situazione, come nota lo stesso Kimmel, i sistemi di controllo scolastico spesso falliscono nell’intercettare determinate problematiche, o le ignorano deliberatamente, negando perfino che episodi di bullismo siano avvenuti, in tal modo riproducendo un particolare modello di maschilità che condona ai propri studenti alcuni atteggiamenti particolarmente crudeli verso il maschio “non conforme” – i quali vengono considerati dunque connaturati. La vendetta del singolo dunque viene avallata a sua volta, diventando così una modalità di reazione frequente, normalizzata. Vorrei concludere questa mia disanima di un fenomeno che, come si sarà compreso. presenta numerose sfaccettature, ricordando che non andrebbero dimenticate le peculiarità giuridiche e culturali specifiche di ciascun Paese. E’ ben nota l’eccezionalità della legislazione statunitense in materia di armi. Né bisogna dimenticare l’ottica comunicativa ed etica che dovrebbe essere implicita in un processo terapeutico: dal momento che non vi è una concordanza tra ciò che il soggetto criminoso apprende essere come eticamente giustificato e virile (l’atto è considerato morale quando è riparativo), e ciò che la società civile sembrerebbe definire oggi come etico (equità, eguaglianza, non violenza e rispetto di ogni differenza), è quasi assiomatico dedurne che l’individuo qui esaminato non sia stato socializzato adeguatamente ai valori della contemporaneità e che possa dunque disinteressarsene, o come accade in questi casi, rifiutarli. Nel rendersi conto di questa assenza di un comune terreno di confronto, la comunicazione indirizzata al maschio problematico dovrebbe essere meno contraddittoria e iprocrita di quanto sia oggi, poiché il fallimento di questa comunicazione si ripercuote nel mancato recupero del soggetto a rischio.
Tuttavia, nutriamo forti dubbi sul fatto che possa avviarsi questo cambiamento, in quanto, per fare ciò, bisognerebbe ribaltare il codice ideologico dominante, effettuare una critica radicale al sistema. Il sistema quindi, poiché ne va della sua stessa esistenza, si limiterà a condannare in maniera ipocrita le manifestazioni esteriori prodotte dalle sue stesse dinamiche, individuando dei pretesti che ne costituiscano in qualche modo l’auto-celebrazione, ma continuerà in realtà a produrre tutte quegli elementi che poi sfociano in quelle stesse manifestazioni delittuose. Come abbiamo anticipato nella prima parte di questo scritto, la proposta teorica più diffusa è quella che vede nelle manifestazioni di violenza l’espressione di una maschilità declinata secondo certi tratti, quali l’eterosessualità, l’identificazione con il padre, l’ancoraggio a valori tradizionali. L’inadeguatezza di questa risposta consiste nel fatto che tali valori sono già in crisi, decaduti, attaccati (per quanto riguarda la figura paterna), oppure sono ineliminabili (l’identificazione con il padre) o ancora meglio desiderati dalla stessa società (la disponibilità al sacrificio, lo spirito di competizione).
Gli elementi a sostegno della contraddittorietà insita in questo tipo di comunicazione trovano conferme praticamente dovunque; basti soffermarsi nuovamente su altri passaggi delle linee guida dell’APA . Essa definisce la “mascolinità tradizionale” in questi termini: “I tratti della cosiddetta mascolinità tradizionale, come sopprimere le emozioni e mascherare l’angoscia, spesso iniziano presto nella vita e sono stati collegati a una minore disponibilità da parte di ragazzi e uomini a cercare aiuto, maggiore assunzione di rischi e aggressività – anche correndo il rischio di danneggiare se stessi e quelli con chi interagiscono. ”

L’impresa del capitalismo cognitivo: ingenerare nella società il disprezzo verso gli uomini e al tempo stesso continuare a sfruttarne la psiche e la materia

E’ vero che gli uomini non esprimono alcuna (o una minore disponibilità) nel cercare aiuto? Alla luce di quanto già detto, per il fatto stesso di essere uomini vengono identificati come membri di una categoria di privilegiati e oppressori; qualsiasi manifestazione di una condizione di sofferenza comporta scherno nel migliore dei casi, criminalizzazione in tutti gli altri. In pratica gli uomini devono prima ammettere di essere dei privilegiati, che per il fatto stesso di essere di sesso maschile e eterosessuali hanno qualcosa di sbagliato, poi non devono in alcun modo effettuare delle affermazioni sui rapporti socio-economici (perché essere potrebbero smentire questo dogma) e solo allora forse possono “chiedere aiuto”. Peccato che, a queste condizioni, non si capisce più bene cosa sia questo “chiedere aiuto”. E peccato che sia la società stessa ad incoraggiare l’assunzione di rischi e la sacrificabilità, ma ovviamente fintanto che ciò appaia di una qualche utilità (ignorando che l’assunzione di rischi ha sempre due facce, che chi è pronto a morire e anche pronto a uccidere e che chi è pronto a uccidere non sempre uccide chi vorremmo noi). Su questi presupposti purtroppo è difficile sperare che vi possa essere un comune terreno di confronto e che la comunicazione indirizzata verso i soggetti a rischio possa produrre un recupero degli stessi; e altresì pressoché impossibile (a queste condizioni) immaginare un approccio interdisciplinare agli studi criminologici e della devianza, l’unico che con tutta probabilità potrebbe offrire dei vantaggi per la comprensione di determinati fenomeni, e nella speranza che potranno essere, in futuro, meglio prevenuti.
Prendiamo ad esempio le parole di chiusura dell’articolo di questo Mastrolillo: “La verità quindi emerge innegabile, e per quanto si possano cercare distinzioni fra la violenza maschile e quella femminile allo scopo di capire perché quasi tutti i killer di massa sono uomini, il problema non si ferma qui. Le statische dimostrano che gli uomini sono in generale più violenti e più inclini al violare la legge delle donne, confermando quindi che forse aveva proprio ragione Golda Meir.”
Ora, immaginiamo una comunicazione simile ma a parti invertite: “70.000 aborti in Italia ogni anno (senza considerare quelli clandestini): le donne italiane sono tutte assassine”; oppure “ennesimo infanticidio da parte di una madre: le donne italiane uccidono i neonati e i bambini molto più degli uomini, le statistiche parlano chiaro”; o ancora, considerando il fenomeno della prostituzione e della vendita materiale erotico e pornografico: “ Danielle Bregoli alias Bhad Bhabie è una delle utenti più pagate (su OnlyFans) con un fatturato di 49 milioni di dollari nel 2021, ennesima donna che si arricchisce grazie al sesso, le donne sono zoccole, le statistiche non mentono”.
Neanche la più agguerrita associazione o movimento antiabortista o tradizionalista potrebbe mai concepire l’impiego di espressioni simili. Eppure la comunicazione sugli uomini se ne fregia senza che questo desti la benché minima voce contraria. Anzi, fare propria questa narrazione sembra l’unico modo per avere diritto di parola presso i giornaloni e i media. E finché non si esprimerà o manifesterà una inversione di tendenza, il prefigurarsi di catastrofi non lontane e soprattutto non molto diverse da quelle che il genere umano ha patito nella propria storia è pressoché una certezza.
E quando un giorno chiederà come sia stato possibile, la risposta sarà: “perché c’era un Gramellini o un Mastrolillo compiacente, che per poche decine di euro e un po’ di notorietà era disposto a scrivere di tutto”.

 

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