Il consumismo è una forma di guerra. Consumare non è un gesto banale. La fenomenologia del gesto del consumo andrebbe effettuata per capire il significato bellico e politico dell’atto consumante. Consumare implica la ferrea logica del valore di scambio. Competizione e saccheggio delle risorse umane ed ambientali sono le compagne consustanziali del plusvalore. Il consumismo sviluppa la logica del consumo “nientificante”, si riduce a niente, si cannibalizza il prodotto, in modo che il sistema possa sopravvivere al ciclo produzione-distruzione. L’annichilimento è, dunque, il fine recondito del consumismo.
Il nichilismo diviene parte del pensiero, entra nella logica delle relazioni, deve destabilizzare da ogni vincolo per poter effettuare la guerra quotidiana. La coazione a ripetere del gesto non si limita all’annichilimento, il gesto è preparato alla distruzione dalla disposizione psichica tesa all’intenzionalità distruttiva. L’altro è solo un mezzo, non è riconosciuto come pari, ma come potenziale mezzo da usare e nullificare. Ambiente è solo una parola astratta, il consumante riduce già nel concetto l’ambiente a realtà da usare e mai da vivere. L’atomistica robinsoniana costruisce gradualmente e celermente la sua logica di guerra. La derealizzazione del corpo vissuto che consuma ed è consumato è il compimento perfetto del ciclo di produzione e consumo. Il mondo scompare mentre lo si usa, è solo quantità da manovrare nella solitudine atomistica. La natura umana è negata nella sua verità etica e comunitaria, sopravvive in modo perverso nel gruppo banditesco che si aggira per nuovi saccheggi. Gli acquisti compulsivi e la dipendenza dagli acquisti sono il segnale patologico dello stato di guerra e di appropriazione bellicosa a cui l’individuo è sottoposto. Non sceglie “chi essere e verso cosa orientarsi”, è il sistema ad addestrarlo alla guerra con il linguaggio orwelliano: la competizione è chiamata merito, il saccheggio è battezzato con il termine affare, l’egoismo più sfrenato diventa competenza e capacità tecnica. Il linguaggio orwelliano costruisce mondi che si sovrappongono alla realtà effettuale. La cecità collettiva è l’obiettivo primo dell’economia di guerra. La fenomenologia del consumo è sostenuta dal linguaggio che nega la realtà-verità per rappresentarla con parole teatrali e virtualmente positive ciò che il soggetto compie,.in modo che non possa pensare le azioni, le quali sono in tal maniera “eventi” privi di concetto. Il gesto consumista è spettrale, prepara la morte.
Gli Stati Uniti producono 14000 pezzi di munizioni al mese e progettano di portare la produzione a 40000 per la guerra in Ucraina, hanno annunciato la possibilità di portarla a 90000. La pace si perde tra le esplosioni dell’industria manifatturiera statunitense e russa. La guerra a cui assistiamo non è altro che la manifestazione evidente del consumo. In una guerra le munizioni rispondono alla logica del consumo e del profitto massimo. Una munizione è la realizzazione assoluta dell’obsolescenza programmata che rafforza il sistema produttivo. Una munizione ha un tempo di vita minimo durante una guerra, vive il tempo di un’esplosione, è solo un mezzo che velocemente uccide e invoca con la sua nientificazione la produzione in serie di se stessa con un ricambio sempre più veloce. Con la fine della guerra in Ucraina non avrà termine la guerra, perché essa è parte sostanziale del sistema capitalistico. La “banalità tragica della guerra” è la verità del modo di produzione capitalistico.
La Rivoluzione deve contemplare l’eliminazione della tossina della guerra dalle parole, dai gesti e dai comportamenti. “Bisogna tagliare le teste dell’Idra della guerra”, sono molteplici e le più pericolose le teste tentacolari che non vediamo, perché sono le nostre, ne siamo immersi al punto da disconoscerle. La grande Rivoluzione che ci attende non potrà che vivere nella moltiplicazione qualitativa della consapevolezza dei gesti. Il modo di produzione capitalistico ha congelato il vivente nella meccanicità burrascosa dell’intenzionalità proprietaria, il comunismo che verrà dovrà essere la liberazione dalle sovrastrutture che sono penetrate nel corpo vivo, nella parola e nei concetti per fare del corpo un proiettile da usare contro il nemico chiunque egli sia. Solo il valore d’uso può liberarci dall’angoscia proprietaria che normalizza la guerra, il soggetto atomistico è in guerra con se stesso e con gli altri. Non si acquieta, lo morde il desiderio dell’illimitato, lo lacera e lo spinge nella ridda mortale dei conflitti. Il consumo-accumulo lo rende senza mondo, è analfabeta dell’anima. Il vuoto interiore è ingombro di cose, valori e guerre.
Senza una scuola della pace, in cui si reimpari la logica del dono nulla sarà possibile. La trasgressione massima è il dono, è il contenimento felice del consumo che apre il varco al “valore d’uso”. La guerra è preparata dallo sguardo famelico che non vede l’alterità ma la preda. A tutto questo dobbiamo rinunciare, se vogliamo una pace faticosa, duratura e vera.
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