Si apra un qualunque libro di testo in uso nelle scuole di ogni ordine e grado. Ovunque si troveranno etichette che strizzano l’occhio al didattichese di moda. Box, diciture immancabili quali “imparare ad imparare”, “flipped classroom” schiaffate ogni cinque righe. Mi chiedo, ma servono davvero al discente, ai suoi processi di apprendimento? Aiuta o confonde? Per la maggior parte, i libri di testo che oggi si pubblicano sono pieni di marchette alla pedagogia in voga (le competenze ecc. ecc.). In realtà queste “indicazioni”, che non servono di sicuro al discente, non servono nemmeno all’insegnante. Sono soltanto dei contrassegni, degli attestati di conformità editoriale nei confronti del sistema didattico-pedagogico di moda, altrimenti il libro rimane negli scatoloni; è quindi un sistema che, proprio per questo, mostra di pensare principalmente alla sua riproduzione, non al discente. Naturalmente il tutto deve essere anche molto colorato e pieno di immagini per tener viva l’attenzione, attraverso una serie caleidoscopica di sollecitazioni offerte dal docente-intrattenitore e rinforzate dai mirabolanti effetti della didattica multimediale.
La narrazione di Alice nel paese delle meraviglie, il capolavoro di Lewis Carroll, è innescata da una lezione molto noiosa. La sorella le sta leggendo il libro di Storia, ma Alice si annoia terribilmente perché “non ci sono figure”. Si addormenta e inizia la sua incredibile avventura.
Voler mostrare tutto atrofizza la fantasia e riduce il campo dell’immaginazione – e quindi anche la capacità di pensare un mondo diverso, proprio mentre chi detta la linea si intesta, orwellianamente, il brand della didattica inclusiva. Si dovrebbe, per altro, inserire in questo quadro anche una riflessione sugli ultimi ritrovati della “realtà virtuale” a scopo didattico, prestissimo calata dall’alto e presentata in modo roboante perché “fa vivere con grande realismo” ma, proprio per questo, in realtà profondamente passivizzante.