“Nelle famiglie ogni tanto esistono buoni umori, cattivi umori, ma sono cose che di solito si gestiscono dentro la famiglia, non fuori”.
La frase non è stata pronunciata da un capomandamento di Cosa Nostra, intercettato in un’indagine della DIA. Trattasi di una replica della star televisiva Myrta Merlino alle accuse di maltrattamenti nei confronti delle proprie maestranze. Spazzole tirate in faccia ai collaboratori, servizi estetici e di cura del corpo, faccende domestiche, licenziamenti capricciosi. Un susseguirsi di arbìtri degni di un’ereditiera che dispone a suo piacimento di servitù a contratto.
In questa vicenda l’eccezione presentata dalla vedette appare ben peggiore dei suoi comportamenti. L’evocazione di una famiglia da proteggere manifesta una mentalità clanistica. Il clan si dimostra l’organizzazione di gruppo più confacente all’occupazione dei mercati della sfera pubblica. I clan si rafforzano nelle zone d’ombra tra stato e privati dove prevalgono relazioni interpersonali ritualizzate capaci di impreziosire capitali sociali. Così le reti di conoscenza sviluppano reciprocamente un linguaggio, una mentalità, un buon senso comune che si cristallizza in codici di comportamento. E che finiscono per disciplinare la democrazia a loro vantaggio.
Ogni ambito della società ha i propri clan. In alcuni servono vere e proprie affiliazioni formali. Un esempio è quello politico, un altro quello che confonde economia e criminalità organizzata nella variegata gamma dei reati finanziari. In altri come quello giornalistico non c’è bisogno di riti d’iniziazione. L’arruolamento si consuma per auto-disciplina. Un determinato atteggiamento che sconfina nella militanza fidelizzata al gruppo viene introiettata in partenza. Si intuiscono istintivamente i presupposti discorsivi che assicureranno protezione e sicurezza personale. L’esposizione di determinati punti di vista determinerà l’entrata in famiglia. E una sostanziale impunità morale.
Le star mediatiche dei clan, per questo motivo, si percepiranno come dei soggetti illuminati che possono navigare senza bussole etiche. La loro credibilità è certificata dall’appartenenza all’articolazione tribale. Ma perché essa acquisisca capacità persuasiva occorrerà una copertura ideologica. La chiave per l’attendibilità è la narrazione sul merito. Chi avanza nella struttura “familistica”, chi agisce in prima linea a sua difesa, giustificherà il proprio privilegio con una sorta di darwinismo progressista. Questa prospettiva determina una separazione sociale molto più crudele di quelle razziale, ideologica o di censo. E una predisposizione d’animo al fascismo.
Struttura una vera e propria aristocrazia, una super-class autoreferenziale impreziosita da messaggi civilizzanti ma feroce nel giustificare le diseguaglianze. Chi è a servizio dovrà sottostare a qualsiasi irragionevolezza fino alla sopportazione dell’umiliazione. Il ribelle, chi è recalcitrante nell’assoggettamento sarà considerato un ingrato o un parassita. Un soggetto non disposto al sacrificio di fronte a una concessione che, nell’ottica dell’evoluzionismo progressista, equivale a un’opportunità.
Questi meccanismi di sfruttamento sono ormai così consolidati nei luoghi di lavoro da istituzionalizzare una vera e propria estetica dello gne gne gne. Lo sbattere i piedi del capo diventa moralmente apprezzabile. Perché conseguenza del sacrificio di fronte a enormi responsabilità che solo lui può affrontare. L’aristocratico insignito del merito ci mette la faccia e paga la servitù in funzione delle proprie attitudini nobiliari. Tutti con lui potranno elevarsi di rango. Così funziona la democrazia dei mercati. Quella pianificata dalla meritocrazia