Il giovane affronta la selva a testa bassa, zigzagando tra i fusti arborei che costeggiano il sentiero. Affonda più volte fino alle ginocchia nella neve alta, inzuppando calze e polpacci, e le punte delle dita gli dolgono tremendamente a causa del freddo intenso: ecco la soluzione definitiva, appoggiarsi al tronco di un albero, scacciare i pensieri molesti e assopirsi dolcemente…
Si distende ai piedi di una roverella, dai cui rami pendono opache stalattiti di ghiaccio: una stilla gli cade sulla fronte, lui socchiude gli occhi. È appena a metà del percorso, ma il suo viaggio può terminare qua.
L’istinto gli segnala una presenza nelle immediate vicinanze, poi avverte un tocco umido e caldo sul dorso della destra: si scuote, la volpe rossa è ricomparsa. Gli passa delicatamente la lingua sulle nocche arrossate dal gelo: un segno di amicizia o un invito a rialzarsi e riprendere il cammino interrotto?
Pesca nella bisaccia una costicina ormai fredda e la getta con garbo all’animale, che dopo averla annusata la spolpa in un lampo coi dentini aguzzi. Hai più fame tu di me, pensa l’uomo e abbozza finalmente un sorriso.
Finito di mangiare la volpe prende a dargli colpetti con il muso e le zampe. «Come vuoi, mi alzo – fa lui, poco convinto – ma solo se mi accompagni per un tratto di strada… il sacco è leggero, ma la solitudine mi pesa!»
La bestiola mantiene la muta promessa e lo scorta fino al limitare della foresta: qui lo saluta con un gannito, che agli orecchi del giovane suona tenero e affettuoso, per poi immergersi nel sottobosco.
La natura e imprevedibile e animalesca, ma solo l’essere umano sa essere bestiale – riflette Marco.
Rieccola, la rinomata civiltà della rinascita: un caotico intreccio di palazzoni fatiscenti e strade dissestate e semibuie che conducono al nulla (visto che l’accesso alla città bassa, vietatissimo ai comuni mortali, è ben occultato e sottoposto all’incessante, occhiuta sorveglianza di sciami di droni).
Obbedendo a un subitaneo impulso Marco si è rimesso al dito l’anello da schiavo: il gesto automatico tradisce la bramosia di rincantucciarsi nel (peraltro assai precario) ricovero offerto dall’anonimato. Speranza vana: il dado è stato tratto – da altri, ma poco importa. A chi vale la pena di dire addio? Riepilogando la propria esistenza si rende conto di quanto sia stata grigia, insipida e soprattutto povera di affetti: certo, di recente qualcosa è cambiato dentro di lui, ma… è stato davvero fortuito l’incontro con lei oppure qualcuno l’ha preordinato per i suoi fini?
«Forse sto diventando para… qualcosa, o forse sono soltanto un povero illuso» brontola fra sé, ma giunto all’altezza del supermarket non può fare a meno di fermarsi e scoccare un’occhiata interrogativa in direzione della vetrina. L’ora di chiusura dovrebbe essere già passata, ma filtra dall’interno una luce soffusa… d’un tratto qualcuno spegne le lampade e subito dopo la porta si apre con uno schiocco.
Vede Francesca uscire e volgere in giro uno sguardo stanco e distratto. Non l’ha riconosciuto, forse neppure scorto, ma Marco non ci pensa due volte e la chiama, con voce rotta e arrocchita.
La ragazza sussulta, poi – accortasi che si tratta di lui, e non di uno scocciatore o peggio – lo saluta con uno squillante «Ciao Marco! Mi hai quasi spaventata… ma sono felice di vederti».
Il sorriso dolce e sincero che gli ha rivolto è un invito a confidarsi, e lui lo fa, di getto: non menziona il possesso della pistola (sarebbe imprudente, ragiona), ma narra le sue ultime peripezie, le rivela il proposito di sollevare i compagni, spende parole astiose sul rifiuto a collaborare oppostogli dal signor Matteo, che interpreta come un tradimento. «… il suo aiuto, ti ripeto, mi era necessario: quelle immagini forti, la testimonianza di uno di loro… senza non otterrò nulla, ma ormai non ho più scelta… cioè sì, una ce l’ho – si rabbuia, deglutisce – per questo ci tenevo a salutarti e a dirti che… sì, insomma, anche se ti ho appena conosciuta ti voglio… molto bene, ecco».
Francesca impallidisce (ha intuito il sottinteso di quella mezza frase sibillina), poi si ravvia i capelli inargentati dalla luna: sta riflettendo. «Non disperarti, intravedo una possibilità. Ti ho detto, no?, del mio… non so come chiamarlo, ma sta sempre più male ed è molto arrabbiato con i reggitori. Gli avevano promesso una promozione, lui ci sperava… significava un’assistenza sanitaria di livello superiore, la possibilità di curarsi e forse addirittura di guarire. Invece hanno promosso un altro e a lui non hanno dato niente di niente, perciò è furibondo e ha in mente di vendicarsi, ma non sa come…»
Marco è dubbioso (e avverte una fitta di gelosia): «Non è certo semplice diffondere nella rete immagini e video senza autorizzazione, e poi mandarli in onda su certi schermi in un momento preciso… io di queste cose non ci capisco nulla, ma so che il signor Matteo aveva accumulato una vasta esperienza avendo fatto prima il programmatore. Il tuo… tale si intende di ‘ste cose, ne sei proprio sicura?»
La ragazza si risente un po’; si umetta le labbra, poi precisa: «Lui non è il mio… tale, semmai ero io di sua proprietà, ma adesso non più. Comunque una cosa del genere la può fare benissimo: è responsabile della sicurezza, anche di quella informatica, e conosce il suo mestiere. Gli parlerò della prossima visita dell’amministratore, lo supplicherò… anzi no: gli suggerirò l’idea, dicendo che è stata una mia pensata. Ho due giorni per convincerlo, spero di farcela… la mattina della celebrazione siederò anch’io in prima fila, lui mi farà avere un posto, e con un cenno del capo ti comunicherò l’esito del mio tentativo… dovrai essere attento. Sappi – soggiunge ansimando – che lo faccio per te… e per noi».
Con il faccino imbronciato la giovane appare a Marco ancora più bella – e non è merito dell’anello. Lui la fissa intensamente, come ammaliato: «Siamo d’accordo allora, mi affido a te… completamente – indi propone, con una punta di goffaggine – ti va di fare quattro passi con me, come la volta scorsa?»
Un sorriso sbarazzino accende il volto di Francesca, che non esita ad acconsentire.
GIORNATA DELL’ORGOGLIO LGBTQWYZ
Dopo un avvio di settimana all’insegna del cielo coperto la mattina della giornata celebrativa è allietata da un solicello che gioca a nascondino con le nuvole. Della ricorrenza in sé non frega niente a nessuno (anche perché nessuno ricorda chi siano quegli LGBT qualche cosa…), ma dai pennoni degli edifici pavesati a festa pendono, lugubri e flosci, i vessilli della Clint Corporation e della Federazione.
All’ingresso degli stabilimenti vengono distribuiti ai dipendenti parrucche, cosmetici e nastri colorati, ma pochi scelgono di adornarsi – quanto a Marco ha ben altro cui pensare, e snobba con un gesto secco l’offerta. Qualche addetto staziona nell’atrio, ma di controlli manco l’ombra e i metal detector sono guasti o disattivati; assenti pure i robot di pattuglia, ma questo rientra nella norma: la loro… discrezione è proverbiale, compaiono all’improvviso – e solo quando scatta un allarme. Il giovane ostenta disinvoltura, fischietta persino, ma è agitatissimo: la pistola, infilata nella cintura, preme dolorosamente sul fianco, l’anello (perché non se l’è tolto?) gli stringe l’indice in una morsa. Una sommaria perquisizione e sarebbe fritto… Cammina a grandi falcate e, senza passare per lo spogliatoio (parecchi colleghi, per fortuna, si infilano nell’aula incappottati), raggiunge fra i primi l’immensa sala delle conferenze e si accomoda al posto assegnatogli. Il palco, ancora deserto, dista non più di sei-sette metri, ed è sormontato da un gigantesco schermo… si attiverà oppure rimarrà spento, decretando l’insuccesso della sua temeraria impresa? Francesca è in ritardo: lo interpreta come un cattivo segno, e la tensione tocca l’acme nel momento in cui da due porticine laterali fanno il loro ingresso i relatori, preceduti da uno stuolo di attendenti (sembrano imbelli: saranno anche disarmati?).
Nel salone è già all’opera la troupe televisiva incaricata di diffondere in mondo(libero)visione il verbo del vicepresidente McBreeden. Parte a tutto volume l’inno della Corporation, obbligando gli astanti a levarsi in piedi. Il signor Luigi incede impettito, sorridendo a destra e a manca; dietro di lui viene un uomo alto, canuto e vestito con somma eleganza, che non degna di uno sguardo la folla degli spettatori e si siede arricciando il naso su una poltrona di pelle: un’aria da padrone che lo rende subito odioso a Marco.
L’introduzione di Luigi è un guazzabuglio di frasi senza capo né coda: dopo un fuggevole accenno agli LGB eccetera (“persone che ci hanno insegnato che la natura stessa è un limite da oltrepassare se si aspira a essere realmente se stessi…”) l’oratore accantona bruscamente l’argomento e inizia a sperticarsi in lodi indirizzate all’ospite, che lo ascolta con degnazione – o più probabilmente pensa ai casi suoi. L’uomo d’affari detesta prender parte a simili pagliacciate, e soprattutto mischiarsi con folle di non-morti: ogni tanto però tocca farsi vedere e sentire, mettere in scena a proprio vantaggio lo spettacolo di un potere sollecito e benevolo nei confronti degli inferiori. Purché questa seccatura duri poco… il jet supersonico è già sulla pista, pronto a condurlo a New Wall Street dove ha faccende ben più importanti da sbrigare. Conta comunque di cavarsela in una quindicina di minuti scarsi, quanti gli serviranno per leggere dal tablet il discorsetto che ha fatto preparare da uno dei suoi sottoposti.
Quel verme di Luigi D. ha concluso la sua vuota allocuzione: McBreeden si alza e getta un’occhiata sdegnosa a quell’accozzaglia di facce inespressive… ma l’imprevisto è dietro l’angolo.
Il discorso traboccante di melassa del piccolo manager ha schifato Marco, che non ha mai smesso di palparsi il fianco e guardarsi intorno: alla fine Francesca è arrivata e ha preso posto non troppo lontano da lui, ma l’espressione della fanciulla è inequivocabile – non è riuscita nel suo intento. Ci avrà provato sul serio a persuadere il suo… quel che è o anche lei…? Non c’è spazio per gli interrogativi: il tempo fugge e occorre risolversi.
Marco scatta rumorosamente in piedi, anticipando le mosse del signor Luigi, che non gli ha ancora dato il segnale: scaglia l’anello che si è sfilato a fatica dal dito contro il basamento del palco e urla con quanto fiato ha in gola «Libertà per i lavoratori! Morte ai tiranni che ci opprimono!» Tiene in pugno il revolver, lucido, freddo e nero, e lo punta contro il vicepresidente il quale, accortosi del pericolo, non trattiene un moto di sorpresa. Chi sarà mai questo pazzo?
Anche Luigi rimane a bocca aperta: c’è qualcosa che non va, gli avevo ordinato di attendere un mio cenno… e quello che ha in mano non è lo storditore, è… cazzo! L’ometto sbianca sotto l’abbronzatura non appena realizza di essere pure lui sotto tiro. Ma che diavolo succede?
Marco ha attirato su di sé l’attenzione generale, e vorrebbe dire qualcosa di convincente, che smuova i colleghi e li sproni alla lotta – ma non ha proprio idea di come fare (e quindi annaspa). «Compagni! – improvvisa – ecco a voi i nostri nemici, quelli che ci rapiscono l’esistenza… che non lavorano e vivono nel lusso, mentre noi patiamo la fame e abitiamo in topaie! Ricordate quello che ha gridato il vecchio con la voglia sul collo? Era tutto vero, io lo so… questi lo hanno ammazzato, e anche noi passeremo per il camino laggiù quando non saremo più utili… fate come me, strappatevi quel dannato cerchietto, liberatevene… e scorgerete il mondo per come è veramente!» Attorno a lui si è fatto il vuoto – nessun’altra reazione da parte dei presenti seduti in platea: si odono borborigmi e mugolii, occhi sbarrati guardano senza vedere.
Soltanto una… confessione resa dai due manager può scuotere quegli essere umani abbrutiti dalla condizione di servitù in cui sono stati allevati. Non hanno mai sperimentato altro… ma neanche lui, in fondo. «Diccelo tu, Luigi Chissà chi, come stanno davvero le cose, spiega a questa povera gente muta com’è che veniamo trattati!», intima, mirando ora all’uno ora all’altro padrone. Sente uno sferragliare: stanno per sopraggiungere gli automi. Poco male: ha tre colpi in canna, e uno è per se stesso.
Tutt’a un tratto il maxischermo emette un ronzio e prende vita: appare l’immagine di una devastante esplosione, poi di una città rasa al suolo. Nel riquadro in basso a sinistra si materializza un volto scarno e sciupato: lo sguardo glaciale è quello del signor Matteo. Stavolta è Marco a non credere ai propri sensi: che abbia mutato avviso? A meno che non si tratti di un’ulteriore beffa… Le telecamere seguitano nel frattempo a riprendere: nessuno ha comandato lo stop.
«Ho deciso di intervenire dopo lunghe esitazioni – esordisce l’uomo nel riquadro – perché qualcuno ci ha messo la faccia… lo scorgo in mezzo a voi, con un revolver in mano, e lo saluto… e perché non si può sempre assistere e tacere, anche se fa comodo. Io ero come questi due un privilegiato, anche se di… rango inferiore, ma comunque un complice. Porgetemi dunque orecchio, poiché vi dirò e mostrerò cose nuove! Dopo la guerra quelli che l’avevano scatenata ed erano sopravvissuti, cioè i potenti di qua e di là del mare, si sono spartiti tutto ciò che restava, comprese le briciole… e poi c’eravate voi, succubi ridotti a schiavi. Per loro avete costruito le prime macchine, progettate per automoltiplicarsi… a quel punto siete divenuti superflui, e sapete perché non vi hanno soppressi tutti? Siete le loro cavie, i loro giullari… di voi non possono fare senza, me l’ha fatto capire Marco: statelo a sentire quando vi parla… non possono fare senza perché la miseria della vostra situazione è il negativo del loro benessere! Solo a questo scopo vi lasciano sopravvivere, male… ma non prestate fede alle loro vanterie: non c’è mai stata nessuna rinascita, il mondo di oggi è l’ombra di ciò che fu un tempo, ed è prossimo al collasso… ora guardate e imparate!» Scorrono sullo schermo in rapida successione decine di fotogrammi: l’ex manager illustra come funziona il sistema, poi le strategie di controllo mentale, la funzione della guerra infinita; si sofferma a lungo e con calore sulle tecniche di riproduzione e sui metodi (li chiama così, ma il filmato non dà adito a dubbi) di “smaltimento delle eccedenze”. «È un inganno, una farsa di cui siete comparse e vittime… avete qualcosa da guadagnare, se non altro la dignità di uomini, i piaceri che vi hanno negato… e niente da perdere, perciò ribellatevi, date un calcio in faccia ai vostri oppressori: non sono affatto onnipotenti! Buttate via quegli orribili anelli come ha fatto Marco, dando l’esempio, e sciamate verso le città proibite senza timidezza o paura: con l’aiuto di un vecchio collaboratore pressato da una ragazza coraggiosa, ho sabotato i droni guardiani, rendendoli inservibili… e anche i tuoi automi, caro Luigi, giacciono inerti nei corridoi del palazzo. E adesso sai che ti dico? Vaffanculo!»
Marco è strabiliato e raggiante, anche perché Francesca (la “ragazza coraggiosa”) si è posta al suo fianco, tremante per l’emozione. Quando un paio di portaborse muniti di bastoni irrompono nella sala lui si limita a sparare un colpo in aria, (poco) sopra la loro testa, e quelli rinculano in preda al panico.
La folla ondeggia: molti restano aggrappati al sedile, in attesa che passi la tempesta (sono robot di carne, avvezzi solamente a ubbidire), ma alcuni spettatori delle prime file si rizzano di slancio e buttano al suolo gli anelli; altri, più determinati, invadono il palco e attaccano a insolentire Luigi che, spaventatissimo, si copre il viso con le mani. «Non fatemi del male – implora – sono stato io a imbeccare il vostro masaniello», ma i termini “imbeccare” e “masaniello” non li intende nessuno, e gli schiaffi volano lo stesso, finché l’omino si accartoccia piangente.
Anthony McBreeden ha mantenuto l’autocontrollo (D. strisci pure: è la sua natura, ma io sono un uomo, perdio!), d’un tratto però si accascia sul pavimento, colto da malore.
«Chiamate un medico! – tuona Marco, abbassando l’arma – noi non siamo… noi non saremo come loro, compagni!»
Il giovane si volta a rimirare Francesca, i cui begli occhi lucenti spiccano su un sottofondo di lentiggini. La ragazza gli cinge il fianco e appoggia la fronte sulla sua spalla: è come se la gazzarra intorno a loro si fosse per incanto placata.
Lui non è certo se stia vivendo la realtà oppure un sogno (proprio o altrui), ma forse per la prima volta da quando è nato si sente pago e felice.
The End