La civiltà del desiderio

CYPHER:

Ignorance is bliss.

I’m tired, Trinity. Tired of this war, tired of fighting…

I’m tired of the ship, being cold, eating the same goddamn goop everyday…

…….

I don’t want to remember nothing. Nothing! You understand?

And I want to be rich. Someone important. Like an actor. You can do that, right?

 

AGENT SMITH:

Whatever you want, Mr. Reagan.[i]

 

In una celebre scena del film Il silenzio degli innocenti il co-protagonista in negativo Hannibal Lecter spiega che il “desiderio” è il primo motore dell’azione umana. L’uomo in primo luogo “desidera” e da questo segue tutto il resto. Dato che il film è americano, come ormai americano è molto del desiderare diffuso intorno a noi, converrebbe fare qualche riflessione sul significato di questa affermazione.

E’ bene ricordare come il centro dell’attuale mondo occidentale si sia sviluppato. Dovrei più precisamente parlare di economia-mondo benché l’intero mondo sia ormai globalizzato al punto che più che di economie-mondo in competizione tra loro si dovrebbe parlare di economia-mondo in riferimento all’intero sistema, che potrà in principio essere multipolare, ma come dice giustamente Valerio Castronovo in Un passato che ritorna[ii] esso si fonda su un asse che viene dal passato è che è stato anche all’epoca del capitalismo commerciale il suo asse portante, ovvero l’asse occidente – estremo oriente. Chi ha masticato un poco di storia del gruppo degli annales ricorda come l’argento estratto a Potosì, finisse dopo un lungo percorso di scambi mutevoli, in Cina.

Ma osserviamo ora più da vicino l’economia-mondo occidentale. E’ noto come il suo centro si sia progressivamente spostato sempre più a occidente. Ma la prevalenza degli USA nel nostro sistema si è pienamente affermata solo dopo la seconda guerra mondiale. Solo dopo che il modello “continentale” di sviluppo è stato nella sostanza assorbito ed integrato nel cosiddetto atlantismo, concetto molto ambiguo, ma che implica sempre la centralità della superpotenza occidentale in modo assoluto. L’Atlantismo non avrebbe avuto alcun senso per l’Europa continentale e nemmeno per l’Impero Britannico molto più legato all’”Oriente” che alle Americhe nel momento di massimo splendore. Le guerre mondiali possono essere viste come guerre di supremazia, non solo tra europei, ma tra gli USA e l’Europa stessa. Ci sarebbe da chiedersi come l’Europa, che pure era considerata alla fine dell’ottocento il “centro del mondo” abbia perso la sua egemonia. Ma è un discorso lungo che ci porterebbe fuori dall’obiettivo più limitato che vorrei darmi qui e che è, provo a spiegarlo, qual’è l’aspetto culturale dell’egemonia americana e il perché esso abbia fino a questo momento funzionato tanto efficacemente per mantenerela, e se, azzardo, continuerà a farlo in futuro.

Nulla di nuovo, ogni economia-mondo ha la sua struttura ed anche la sua sovra-struttura, tra cui è ammesso mettere le sue credenze, i suoi miti, i suoi eroi e, perché no, i suoi sogni. E tra questi sogni vi è sempre quello di un “millenarismo” che a volte si rivela fatale: Gertrude Bell[iii] era una studiosa brillante perfettamente conscia dell’arbitrarietà dei confini che l’Impero Britannico aveva tracciato definendo l’odierno Iraq a tavolino, eppure essa era totalmente una donna dell’Impero. Era per lei come per altri del tutto inconcepibile che l’Impero potesse finire ne più ne meno una ventina di anni dopo il tempo dei suoi viaggi in mesopotamia.

Ma torniamo all’egemonia americana: questa egemonia non si fonda solo sullo strapotere militare o sulla potenza economica, ma anche su una egemonia culturale. E qui ritorna la scena che ho descritto all’inizio: questa egemonia culturale è fondata sul “desiderio”, non sulla “patria”, sull’”onore” o su altro come la fedeltà ad un individuo o ad un ideale comune. E qui sta uno dei suoi punti di grande forza: l’universalità del desiderare.

In un saggio ormai classico Il Maiale e il Grattacielo Marco d’Eramo[iv] studia con passione le forze che hanno forgiato la potenza americana. L’immensità del mercato e la sua uniformità, l’intescambiabilità delle vite, la visione illusoria del “common core” (che in realtà io ho sempre considerato una “common surface”), la brutalità del liberismo vissuto sulla propria pelle. “Qui puoi farti una fortuna, ma puoi anche rovinosamente cadere” frase sentita mille volte, persino da amici miei che lavorano negli USA. Ma a mio avviso centra completamente il punto quando afferma “qui l’immaginario non innalza in genere il politico, eccetto alcuni casi eccezionali, ma l’attore, è l’attore, lo ‘show-time’, la massima aspirazione è Hollywood, lo star-system”. E quale “macchina creatrice di desideri” può essere il cinema. Anche quando pensiamo a John Kennedy ci viene in mente Marylin Monroe, e se pensiamo agli attori politici un certo attoruncolo è stato anche famoso per certe -nomics non proprio simpatiche che hanno segnato la reazione neoliberista degli anni 80. D’altra parte le simpatie dello star-system, si sa, sono state in massima parte per i “liberals” non per i liberisti, ma la distinzione sfuma se consideriamo come i “liberals” non abbiano mai concepito, così come fece Gertrude Bell con l’Impero, un mondo diverso dal bipolarismo politico americano e fuori di questo raramente hanno considerato l’egemonia culturale americana come un problema per il resto del mondo.

Certo piace molto il considerare la star come la realizzazione massima dell’individuo, piuttosto che un presidente debole, un oscuro politico, o un dittatore spietato. La star è una persona pubblica per eccellenza, ha tutti i difetti e tutti gli eccessi che sappiamo. Per cui anche il politico diventa star, viene rivoltato come un calzino per trovargli difetti ed eccessi. Le cadute possono essere rovinose, si pensi al Watergate. Lo star-system politico è un gioco che si è imposto anche da noi ormai. Prima del “berlusconismo” anche da noi la visione del politico “popolare” vittima di gossip e paparazzi era alquanto rara: immaginatevi quanto poteva essere interessante paparazzare mummie come Saragat o Spadolini, ma lo stile “americano” con un poco di ritardo si è imposto anche da noi com’è naturale in tutte le “province” di un impero.

L’immaginario lieve dello star-system ha anche influenza sulla concezione “imperiale” che l’America impone al mondo. Si parla infatti di “impero non-impero”, o di “impero-soft”. Si potrebbe osservare che le bombe non sono affatto soft e che nessun impero ha avuto bisogno di dominare vaste estensioni di territori quando era alla massima potenza. L’argomento “territoriale” è spesso usato da chi avversa l’idea di imperialismo americano. Ma l’occupazione diretta è spesso un sintomo di debolezza, l’egemonia impone che siano altri a occuparsi di amministrare, cosa spesso noiosa per culture lontane dalla propria; quando gli imperi storici hanno iniziato ad occupare territori e a centralizzarsi, la loro parabola ha iniziato a scendere. Per cui qualcuno ha osservato come l’attivismo militare americano dopo l’11 settembre sia un segno di decadenza[v].

Ma è proprio la “leggerezza” della politica, la sua “evanescenza” nel “soft-power”, a parte quello di nascondere il vero potere come al solito agli scontri “di palazzo” dietro le quinte, a dare comunque una sensazione di pace (si è parlato di “pax americana”), di democrazia in quanto è il modello politico americano vecchio di oltre due secoli (benché molto mutato nel corso degli anni), di “giusto” in una parola. Anche le guerre sono diventate “guerre giuste”, mentre la guerra dovrebbe al massimo essere necessaria. Come al solito il cinema è lo specchio di questo sentire: dal Robert Mitchum che spicca “Portami in collina ragazzo” alla fine de “Il giorno più lungo”, ai sottomarini “rosa” o all’individualismo drammatico di “Salvate il soldato Ryan”.

Tutto ben si combina con la centralità del desiderare. Ma nella sostanza stiamo parlando di un’altro architrave del modello: una civiltà del desiderio non potrà mai fondarsi sul primato della politica. Non che io sia un particolare amante di tale “primato”, ma il desiderare travolge ogni cosa, figuriamoci quale importanza possa avere la mia decisione elettorale se la mia morale è quella del desiderare. Ecco perché oggi il votare è una delle cose che si fanno con noia o delusione, o più semplicemente non si fa e basta, cosa desideriamo sia esso l’amore, un figlio, un bene è la cosa che importa di più nella vita, non la disgustosa politica.

Appunto desiderare cosa però? Nel passato la “patria” era la patria, se non altro ha dei limiti geografici. L’”onore” era l’onore, nel bene o nel male il concetto di onore è un concetto definito tramite prassi che pongono precisi limiti all’individuo tramite un preciso codice. Chi viola il codice perde la “faccia”, diventa impresentabile al consesso sociale. Ma il desiderio? Il desiderio è un contenitore vuoto, da riempire, ma con cosa? Cosa possiamo desiderare in senso generale è indefinito e sconfina nell’illimitato. Per capire il desiderio dobbiamo renderlo concreto. Ma qui inciampiamo nel “moderno”.

Nelle società tradizionali i desideri, prescindendo dalle coloriture religiose che potevano attribuire più o meno importanza a certi aspetti piuttosto che ad altri, erano limitati al potere o al sesso e più semplicemente alle volte solo al poter sopravvivere in mancanza di tutto il resto.

Più in generale il vero desiderio era il controllo delle risorse, marxianamente il controllo dei mezzi di produzione, che poteva nel passato essere attuato anche con metodi diversi dal mero potere economico, ma che in ogni caso rimandava a questo. Il controllo delle risorse implica automaticamente il potere, e quindi il monopolio della forza, e implica se vogliamo il sesso, ovvero la possibilità di scegliere il partner migliore per trasmettere questo potere ai figli[vi]. L’uomo alfa e la donna alfa si sono sempre incontrati e intesi perfettamente su questa strada.

L’idea di una “vita buona”, lontana dagli stenti del sopravvivere e parimenti lontana dalla spasmodica ricerca del potere o dei suoi annessi, risorse, forza e sesso, nasce evidentemente con la modernità. Anzi con la tarda modernità ben dopo la rivoluzione industriale, soprattutto quando con la diffusione della psicoanalisi freudiana si inizia a scavare nel profondo dei desideri individuali che sebbene provengano tutti bene o male dalle due grandi categorie sesso e potere, essi sono moltiplicati in un infinito caleidoscopio dalle intuizioni freudiane dell’inconscio e della sublimazione. La sublimazione appunto sostituiva l’impossibilità di realizzare ogni desiderio materializzatosi dall’infinito potenziale dell’inconscio. Apparve ovvio che nella sua forma nobile la sublimazione prendeva la forma dell’arte trovando nelle forme della cultura popolare che si rinnovava ad ogni “invenzione della tradizione” linfa per nuovi vertici assoluti destinati alla committenza dell’epoca.

Ma in questo discorso come si inserisce lo sviluppo del capitalismo post rivoluzione industriale? La massimizzazione del profitto come si può accoppiare all’esplosione del desiderio resa manifesta dalla scoperta dell’enorme serbatoio di sogni e bisogni che è l’inconscio? La risposta pare ovvia: creando insieme ai beni anche la domanda di quei beni, moltiplicando immensamente le forme e i modi della sublimazione. Anche grazie al progresso tecnico nasce così la civiltà del desiderio nella quale a nessuno può essere negato il proprio sogno o la propria felicità. Sogno, felicità, desiderio sono solo modi diversi di realizzarsi sublimando l’antica libido per il sesso o il potere.

Appare non casuale l’enorme successo della psicoanalisi freudiana e delle sue diramazioni nel centro dell’economia mondo occidentale. Oltreatlantico le idee degli psicoanalisti trovarono un seguito entusiasta. Il sogno americano diventò qualcosa non più legato al bisogno di uscire dall’indigenza ma alle prospettive di realizzare i propri “desideri” (o il proprio “sogno” o “felicità”).

Parimenti il desiderare iniziò una parabola ascendente che portò i semplici beni, oltre la sussistenza, a qualcosa che si avvicinava sempre di piú ad oggetto erotico. Gli “oggetti” tecnologici odierni hanno “curve” accattivanti e al proprio interno la complessità del mondo stesso. Diventano simulacri di una profonda sublimazione. Celebre è il saggio di Mario Perniola sul Sex appeal dell’inorganico[vii]. Contemporanea a questa “erotizzazione” della materia è il processo inverso di “oggettivizzazione” dei corpi. Oggi il corpo si vende e si valuta sul mercato come un bene. Che altro è ad esempio la teoria del “capitale umano”, le “risorse umane” di cui tutti si riempiono la bocca? Ma c’è di piú oggi si compra e si vende la vita stessa e in futuro prepariamoci ad andare anche oltre l’utero in affitto ed altre amenità pur di “acquistare” dei figli sul grande mercato mondiale. Si potrà alla fine desiderare ogni cosa realizzabile dalla tecnica ma, ed è questa la catena che ci affligge, purché sia vendibile in nome della massimizzazione del profitto.

Naturalmente non voglio sostenere una posizione reazionaria o conservatrice negando l’importanza che ha avuto ed ha la “liberazione” del desiderio nella tarda modernità. Ma è evidente la cannibalizzazione da parte del capitalismo industriale prima e biologico ora della nostra libertà di desiderare. Per cui restiamo in realtà prigionieri di desideri creati con lo scopo di massimizzare il profitto e perpetrare così lo sfruttamento[viii]. Il capitalismo odierno è soprattutto un “capitalismo del desiderio” se osservato dal punto di vista dell’offerta di beni. Ma nemmeno questo può bastare all’avanzata all’interno del se di un bio-capitalismo ancora più aggressivo. In La pillola della felicità lo psichiatra Peter Kramer[ix] sostiene che l’alterazione della mente con gli psicofarmaci, in questo caso il Prozac, rappresenta una forma di liberazione alla scoperta della nostra “vera natura”, che però va ad inserirsi perfettamente con la concezione consumistica del desiderare in quanto la liberazione va ad indirizzarsi verso un consumo illimitato appunto privo dei vincoli fisici e sociali reali (oltre che beneficare le casse della Eli Lilly). Di qui ad altre alterazioni biochimiche il passo è breve pur considerando solo quelle che sono droghe legali. Il consumo alla fine è programmato dall’interno di noi stessi chiudendo completamente ogni prospettiva altra.

Ha scritto di recente Franco Bifo Berardi: “l’ideologia neoliberista e la pratica della privatizzazione vinsero su questo punto: la trasformazione postmoderna del capitale fu completamente a-moralistica e catturò il desiderio che scaturiva dall’evoluzione tecnica e culturale.“[x]

Io non so chi ha ragione tra chi vuole liberare il desiderio dal cannibalismo capitalista immaginando che possa essere altro e chi nega che il desiderare debba andare tanto oltre i bisogni primari di una “vita buona”. In breve tra la liberazione di “moltitudini desideranti” e/o “macchine desideranti” e il restare ancorati alla cruda realtà dei nostri limiti. Non abbiamo abbastanza elementi secondo me per scegliere tra Massimo Recalcati e Bifo Berardi[xi] o tra Costanzo Preve e Toni Negri, oppure in altri termini se dobbiamo tenere conto dei limiti imposti dalla nostra condizione umana oppure una rivoluzione, molto più virtuale che reale, possa d’un balzo superarli.

Infatti, diverso sarebbe il discorso se lo spazio del desiderio fosse stato libero dal cancro del “capitalismo del desiderio”. Non è facile capire il mondo che sarebbe stato rispetto al mondo che è  nemmeno come idealtipo.  Spesso mi sono chiesto insieme a molti altri se il sessantotto sia stata l’ultima rivoluzione del desiderare o l’inizio della reazione. Ma questo è un discorso complesso che implica definire cosa è oggi struttura e cosa sovrastruttura e soprattutto, avendo assodato che la struttura determina la sovra-struttura, in quale misura è vero anche il viceversa? E a sua volta questo si inserisce naturalmente nel problema di comprendere quali sono le prospettive di un mondo diverso dall’attuale civiltà del desiderio dominata dall’ideologia neoliberista. Mondo che al momento esiste solo nella nostra immaginazione. Ed è questo il vero problema della “sinistra”[xii] mondiale: quale società vuole proporre? Quale reale alternativa esiste ai modelli fallimentari visti nel passato, al tramonto del “welfare state” e all’attuale neoliberismo qui peggiorato dalle venature del burocratismo europeo? In assenza di una vera alternativa il “millenarismo”, che è sempre una componente dell’immaginario imperiale, continuerà a dire che la storia “è finita” e non c’è bisogno di pensare a nulla di alternativo.

La mancanza di una proposta condivisa è anche molto probabilmente il motivo delle eterne divisioni della sinistra, del suo spezzettamento in tanti segmenti poco inclini al confronto che hanno  idee diverse sulla società e sul mondo.

E’ possibile allora che ci si stanchi, che si dica “beata l’ignoranza”, che si desideri essere altro, un ricco attore magari (siamo tutti attori nel web adesso in qualche modo), una star è la realizzazione massima dell’individuo nell’ambito di questo mondo, dimenticare la cruda realtà della struttura del mondo e sentire le sirene dell’ipercapitalismo sussurare: “Whatever you want, Mr. Reagan”.[xiii]



[i]                    Matrix (1999).

[ii]     Valerio Castronovo, Un passato che ritorna, Laterza 2006.

[iii]    Janet Wallach, Desert Queen, Anchor Books 1996.

[iv]    Marco d’Eramo, Il maiale e il grattacielo, Feltrinelli 1999.

[v]     Immanuel Wallerstein ha dedicato più di un articolo ed un libro a questo.

[vi]    Che ci sia un drive “genetico” dietro questo o no, non è materia di questo saggio. E’ comunque verosimile che una parte sia genetica e una parte contingente.

[vii]                 Mario Perniola, Il Sex appeal dell’inorganico, Einaudi 1994.

[viii]   Ci sarebbero innumerevoli esempi. Uno dei più odiosi è la campagna pubblicitaria “un diamante è per sempre” dietro alla quale si cela una storia di assassinio, sfruttamento e alienazione delle più gravi in assoluto.

[ix]                   Peter Kramer, La pillola della felicità, Sansoni 1994.

[x]     Franco Bifo Berardi in http://th-rough.eu/writers/bifo-ita/tra-gli-indiani-e-berlinguer

[xi]    Franco Bifo Berardi cit.

[xii]    Uso le virgolette nel senso spiegato da Fabrizio Marchi. La sinistra politica attuale non è una “sinistra” in quel senso.

[xiii]   Ci sarebbe da osservare che in Matrix gli autori, Lana e Andy Wachowski, giustificano in parte il tradimento di Cypher perché “innamorato di Trinity”, ottimistica e insieme banale assunzione, ma ancora pienamente in linea con l’idea che i desideri individuali sono tutto nella vita e quindi possono trascendere completamente qualsiasi aspirazione ad una giustizia comune.

4 commenti per “La civiltà del desiderio

  1. renato
    26 Dicembre 2014 at 12:27

    Per me, ex 77, vedere un articolo che non dà al desiderio un’accezione necessariamente positiva rappresenta una condivisibile novità.
    Confesso di non aver mai capito quelle teorie provenienti da Deleuze-Guattari e arrivate a noi da altri teorici, sulla liberazione del desiderio come motore rivoluzionario.
    Già parlare di desiderio e non di desideri (spesso tra essi in contraddizione) mi pare un assurdo ma poi, perché un mio desiderio non dovrebbe scontrarsi con quello di un altro? Esiste un “desiderare buono” che ci mette tutti d’accordo? Mi sembra che alla base riecheggi un mal celato mito del “buon selvaggio” quanto mai fuori luogo e tempo. Ma forse io ragiono con l’odiato “buon senso” popolare che è stato visto (non senza ragione) come profondamente conservatore. Qualcuno pensa che la rivoluzione abbia bisogno di miti ancorati nell’irrazionalità dell’individuo; che, insomma, bisogna essere un po’ pazzi per ribellarsi e perciò bisogna fornire alle masse un credibile delirio.

  2. armando
    2 Gennaio 2015 at 22:13

    La “macchina desiderante” di Deleuze e Guattarì si attaglia perfettamente al capitalismo odierno, profondamente mutato rispetto alla sua fase industriale. E’ proprio sull’espansione illimitata dei desideri che punta per la propria riproduzione allargata e illimitata. Non gli si addice il concetto di limite, qualsiasi limite, indipendentemente dal fatto di riuscire a soddisfare quei desideri, che anzi sono programmaticamente disattesi per la grande maggioranza, Ma il meccanismo di stimolo, delusione, ulteriore stimolo funziona perfettamente. E non è certo col gioco al rialzo, col rilancio continuo del desiderio che si inceppa la macchina, Il capitale riesce, da sempre, ad assumerlo nel suo orizzonte e utilizzarlo. Solo la sfida simbolica della morte sarebbe priva di risposta da parte del capitale, come sosteneva Baudrillard. Ma essa implica non solo la distruzione dell’ordine capitalistico, ma anche quella di qualsiasi ordine umano, come prova l’attentato alle Torri gemelle e il terrorismo feroce.
    Io dico, al contrario, che l’unica sfida a cui il capitale non può rispondere è quella al “ribasso”, con comportamenti individuali che sfuggano alla sua logica e che non può capire. Ma senza che ciò su trasformi in ideologia di stili di vita alternativi con tanto di “istituzioni” o “controistituzioni” facilmente fagocitabili . Questi comportamenti sfuggenti implicano il concetto di limite volontariamente assunto dal soggetto che rifiuta la razionalità irrazionale del capitale, ed una grande libertà mentale, un distacco psicologico dalle cose (affatto diverso dal pauperismo), di cui pure si può godere.

  3. armando
    3 Gennaio 2015 at 10:28

    Liberazione delle forze produttive, liberazione delle energie e della parola sessuale: stesso combattimento, stessa avanzata di una socializzazione sempre piu potente e differenziata […] La trafila della produzione porta dal lavoro al sesso, ma cambiando di binario: dall’economia politica al libidinale (ultima acquisizione del ‘68) vi e la sostituzione di un modello di socializzazione violento e arcaico (il lavoro) con un modello di socializzazione piu sottile, piu fluido, ad un tempo piu psichico e piu vicino al corpo (il sessuale e il libidinale). Metamorfosi e svolta dalla forza lavoro alla pulsione. ,
    Jean Baudrillard. “Dimenticare Foucault”
    Eloquente, mi sembra. E importante perchè implica anche il ricollocamento del concetto di classe. Non credo sia un caso che i partiti marxisti “classici” fatichino a fare presa proprio presso coloro che dovrebbero essere i loro referenti naturali.

  4. Ramiro
    3 Gennaio 2015 at 12:14

    Caro Giacomo, avrai certo letto Zygmunt Bauman e la sua società liquida in cui concetti simili sono riportati. Non mi dilungo, non mi piace scrivere sui blog, ma la forza vincente del capitalismo sta anche nella sua creazione di bisogni e desideri ( due cose ben distinte) che sono perennemente frustrati. In poche parole, riprendendo Marcuse e Pasolini Gesù ha perso, il supermercato ha vinto. Perché ha spostato il conflitto di classe su un terreno viscido e solo il capitalismo è rapido ad adattarsi ai mutevoli umori delle masse agitandogli la carota davanti al naso. Stiamo messi male… 🙂

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