Siamo tornati agli anni ’70 del secolo scorso. A leggere la pubblicistica relativa a quegli anni la causa della stagflazione era da attribuire alle politiche Keynesiane, a distanza di mezzo secolo appare chiaro che le politiche neoliberali ci hanno riportato al punto di partenza segnando il fallimento totale del liberalcapitalismo. La crisi economica del 1973 è da ascrivere alla trasformazione economica in corso negli anni ’60 che portò alla fine dei “ trente glorieuses” iniziati nel 1945 e terminati con la crisi petrolifera del 1973 . Questo trentennio si caratterizza per una crescita inesorabile dell’economia e delle condizioni materiali di milioni di persone che vivono nel c.d. Occidente.
La fine della seconda guerra mondiale e la necessità di costruire un’Europa distrutta dal conflitto bellico, grazie a scelte di politica economica e finanziaria diverse da quelle messe in campo all’indomani del primo conflitto bellico fecero si che le condizioni sociali ed economiche migliorassero. Se all’indomani del primo conflitto bellico le politiche economiche e finanziarie puntarono alla soluzione della crisi economica e alla riconversione dall’economia di guerra in economia di pace attraverso politiche economiche liberali che finirono con il favorire l’ascesa di regime autoritari, le politiche poste in essere a partire dal 1945 videro lo Stato, ossia l’intervento pubblico, come protagonista della ripresa economica.
I governi di quegli anni, indipendentemente dal loro di essere di destra o di sinistra, applicarono politiche keynesiane o quanto meno di sostegno e di inclusione delle fasce sociali più povere allargando il mercato dei consumatori, dei produttori e del risparmiatori privati. Lo Stato intervenne direttamente nell’economia diventando imprenditore o agendo attraverso specifiche agenzie tipo la CASMEZ in Italia. Gli stessi Governi della Germania Ovest, che si ispiravano ad un modello economico per così dire autoctono, ossia l’economia sociale di mercato, non disdegnarono di fare ricorso a interventi non proprio ortodossi rispetto al pensiero ordoliberale. Ciò si verificò soprattutto dopo l’andata al governo della R.F.T. della SpD la quale, nonostante la conversione dopo Bad Godsberg[1] all’economia sociale di mercato, ricorse a politiche economiche per così dire keynesiane come si evince dall’impostazione data dal ministro socialdemocratico dell’economia Karl Schiller. Ad essere precisi, al fine di evitare interpretazioni fuorvianti nel programma della S.P.D. non c’è nessun riferimento a Keynes[2] . Solo per inciso, data la complessità, del quadro politico, parlare di politiche keynesiane tout court rispetto a quegli anni è riduttivo.
La questione è molto più complessa come si evince dagli esempi riportati di seguito. Piero Roggi a proposito di Fanfani e del suo “piano case” sostiene che non aveva nulla di keynesiano[3] eppure il “piano” ebbe effetti positivi sull’economia italiana degli anni 60. Per non parlare del rapporto di Luigi Einaudi con Wilhem Rӧpke teorico della terza via “ordoliberale”[4]. Interessante sul rapporto tra economia sociale di mercato e neoliberalismo sono i saggi di Ledger Robert[5] e Razeen Sally[6].
Riprendendo il filo del ragionamento, come scrivono T. Detti e G. Gozzini, << A preparare la fine dell’età dell’oro furono in primo luogo gli stessi fattori che l’avevano fatta nascere e crescere. Nuove potenze economiche come il Giappone e la Germania incrinarono la solitaria sicurezza della leadership statunitense, che infatti vide scemare la propria quota sul totale mondiale delle esportazioni e del prodotto industriale: rispettivamente dal 19% al 14% e dal 27% al 22% tra il 1950 e il 1973. A poco a poco venne inoltre riducendosi la riserva di forza lavoro proveniente dalle campagne, mentre la crescita dello Stato sociale moltiplicava la spesa pubblica, mettendo a dura prova i bilanci statali>>[7].
Se i presupposti per la crisi economica che interessò l’Occidente erano già contenuti nelle politiche, le riprese e le successive crisi succedutesi nell’ultimo mezzo secolo sono la prova del sostanziale fallimento delle politiche economiche neoliberali che hanno ispirato i governi a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Se analizziamo quanto è accaduto nel corso degli anni evinciamo che siamo in presenza di una successione di crisi economiche che si concludono ritornando al punto di partenza ossia la stagflazione.
Agli inizi degli anni 70 del secolo scorso le soluzioni per uscire dalla stagflazione furono: riduzione del debito pubblico, della spesa pubblica per il sociale, della pressione fiscale a favore dei redditi medio alti perché l’idea era che riducendo la pressione fiscale a favore dei ricchi questi avrebbero investito le risorse non prelevate dal fisco, moderazione salariale, delocalizzazione, precarizzazione del lavoro. Ad ogni crisi economica le soluzioni adottate sono state sempre le stesse: meno Stato, più mercato, espansione del settore finanziario. Come evidenzia Colin Crouch[8] addirittura assistiamo ad una vera e propria “privatizzazione delle politiche keynesiane” che i governi attuano attraverso le banche. A leggere attentamente i dati economici che vanno dal 1973 ad oggi ciò che si evince è il succedersi incessante di una serie di crisi economiche alle quale succedono riprese che hanno determinato una crescita di gran lunga inferiore a quella dei “trente gloriouses” che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondale alla crisi dei primi anni ’70. Di seguito: 1973 crisi petrolifera; 1974 – 1982 stagflazione. Lo storico Hobswan non a caso ha definito questi gli “ anni della frana”.
Il biennio 1997 – 98 vede la crisi dei Paesi Asiatici, tra le fine del ‘900 e i primi anni del 2000 siamo in presenza della crisi Dot. Com dovuta alla bolla speculativa legata ai nuovi prodotti tecnologi. 2007 – 2008 crisi finanziaria degli hedge found alla quale succede la crisi dei debiti sovrani, quella cinese del 2015 legata alla speculazione edilizia, per il 2020 la crisi causata dalla pandemia alla quale succede senza soluzione di continuità la crisi dovuta al conflitto ucraino – russo. A guardare la crescita del PIL in questi cinquant’anni la crescita è stata di circa il 2%. Se consideriamo questo dato al netto dell’eccezione rappresentata dagli USA durante la presidenza Clinton, la crescita è stata al di sotto dell’1,8% rispetto al 5% dei “trenta gloriosi”. Non solo, in questi anni è cresciuto a dismisura anche il debito pubblico. Ad esempio negli USA, a partire dalla metà degli anni ’80 il debito pubblico riprende a salire. Nel 1986 viaggiava intorno al 200% del PIL, fino al 250% negli anni ’90. Nei primi anni 2000 il totale ha ormai superato il 300% . Nel 2007 arriva a sfiorare il 400%. Se vediamo l’andamento del debito pubblico, in Italia inizia a crescere dagli anni ’70 per avere una impennata a partire dagli anni ’90.
Che le politiche neoliberali inaugurate prima dalla Thatcher e successivamente da Reagan non avrebbero portato ai risultati sperati è stato sin da subito chiaro <<L’idea era di diminuire le tasse sui redditi medio-alti confidando nel fatto che quei soldi si sarebbero tradotti in investimenti capaci di estendere la base produttiva del paese, creando occupazione e facendo «gocciolare verso il basso» (trickle down) la crescita economica. Lo Stato avrebbe riportato in ordine i bilanci, aprendo alle imprese private anche i settori cruciali dell’assistenza sociale e dell’istruzione, per concentrare i propri sforzi nel settore della difesa. In realtà l’idea funzionò solo in minima parte. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti la spesa pubblica non smise di crescere. Tra il 1984 e il 1993 la disoccupazione ebbe negli Usa un lieve calo dal 7,4% al 6,7%, ma nel Regno Unito crebbe dal 7% al 9,7%. I maggiori profitti regalati ai ricchi con gli sgravi fiscali non «gocciolarono» verso il basso e scelsero la via della speculazione finanziaria, inaugurando una ripresa in grande stile dell’ineguaglianza dei redditi, ferma dagli anni Trenta. Indubbi furono invece i successi sul fronte dell’inflazione, che calò vistosamente dal 1983 al 1993: in Gran Bretagna dal 13,5% al 5,2%, negli Stati Uniti dall’8,2% al 3,8%. Ma nel secondo caso la svolta era avvenuta prima dell’avvento di Reagan, nel 1979, quando il presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, aveva attuato un rialzo senza precedenti dei tassi di interesse dal 10% al 17%. Rendere più costoso e quindi difficile il prestito di denaro significava assumere l’inflazione come nemico da battere anche a costo di una deflazione in termini di minori investimenti e minori posti di lavoro. Per molti paesi poveri, che avevano contratto debiti esteri in dollari, le conseguenze furono disastrose: gli interessi da pagare andarono alle stelle, con esiti distruttivi sui bilanci statali. Nel 1987 alla Borsa di New York i titoli azionari, che da tempo segnavano una delle fasi di rialzo più lunghe e consistenti del dopoguerra, registrarono un crollo brusco e generalizzato. Era la fine di un ciclo di rapide e facili fortune, costruite su manovre speculative spesso spericolate e prive di riscontri nell’economia reale, realizzate sull’onda della bolla finanziaria globale in espansione. Fu la prima di una lunga serie di crisi che, negli Stati Uniti e altrove, mostrarono sia il potere, sia la volatilità raggiunti dal capitale finanziario dopo la fase di regolamentazione e stabilità seguita alla crisi del 1929. >>[9].
Come dicevo non fu questa l’unica crisi. Il Giappone[10] che tra la fine degli anni 80 e i primi anni ’90 sembrava che dovesse soppiantare gli Stati ,entrò in crisi. Dopo il Giappone toccò al Messico, alla Thailandia, Brasile, Corea, Indonesia, Argentina, Comunità Europea con la crisi dello SME e la fuoriuscita dell’Italia e della Gran Bretagna dal sistema monetario europeo, fino alla crisi attuale. La Globalizzazione ha rincorso le crisi nel senso che l’aumento degli scambi commerciali, la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la creazione di aree di libero scambio, la ricerca di nuovi mercati, l’innovazione tecnologica hanno creato di volta in volta fattori di crescita alimentando la speculazione finanziaria alla quale sono succedute crisi. Gli stessi interventi di politica economica messi in campo in questi decenni hanno avuto come scopo quello di riproporre le stesse soluzioni e cioè più mercato e meno Stato o meglio intervento dello Stato solo se in funzione del mercato e non per eliminare e/o riformare il sistema liberalcapitalista.
Dalla crisi del 2008, ad esempio, non si è mai usciti fuori per il semplice fatto che l’ intervento dello Stato ha salvato il sistema bancario ma non ha inciso sulle logiche che ispirano il liberalcapitalismo. L’intervento dello stato ha salvato il sistema bancario e nel contempo ha aggravato il debito pubblico. Infatti il debito pubblico rispetto al PIL, dopo aver raggiunto il picco massimo durante il Secondo conflitto mondiale si riduce progressivamente fino alla metà degli anni ’70 per riprendere a crescere per avvicinarsi, nel 2015, allo stesso valore raggiunto durante l’ultimo conflitto bellico.
Non è da escludere con la crisi pandemica e il conflitto ucraino – russo abbia raggiunto gli stessi livelli. [11] La crisi pandemica ha peggiorato le condizioni ma le criticità, come dicevo, vengono da lontano. I dati sulla povertà, le disuguaglianza e la crescente concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di oligarchi è la prova provata che il benessere sociale non è dato dalla somma dei gradi di soddisfazione individuali come vuole la narrazione neoliberale. L’ individualismo proprietario che trasforma ciascun individuo in imprenditore di se stesso e nel contempo valore di scambio e quindi merce è quanto di più aberrante possa esserci. Tale ideologia ha sostituito la lotta di classe con la competizione tra individui rompendo qualsiasi forma di solidarietà sociale e il senso di appartenenza alla comunità.
La lotta politica al liberalcapitalismo, divenuto un sistema totalitario, deve essere lotta della Comunità contro le Oligarchie. Di fronte alla crisi, come è successo negli anni la soluzione non è in un cambio del paradigma neoliberale dominante ma in proposte di politica economica miranti a creare le condizioni per una ulteriore espansione dei mercati. Ad esempio una delle proposte avanzate in questi giorni è che per aumentare i salari bisogna ridurre la pressione fiscale. Non posso fare a meno di pensare che dietro una tale proposta si nasconde la solita narrazione rappresentata dalla teoria del trickle-down. Il calo della pressione fiscale porta alla riduzione del gettito fiscale. Entrando meno denaro nelle casse dello Stato bisogna ridurre la spesa pubblica, in alternativa spendere in deficit per mantenere lo stesso livello di servizi. Siccome la seconda ipotesi non è praticabile si opterà per la prima ossia tagli alla spesa pubblica che significa privatizzazioni.
Ecco spiegato, se non fosse ancora chiaro, il senso del decreto concorrenza approvato lo scorso autunno. L’ aumento dei salari a fronte della riduzione della pressione fiscale redistribuisce a favore del capitale e non del lavoro. Il lavoratore si vedrà arrivare qualche euro in più in busta paga a fronte della messa sul mercato/privatizzazioni di una serie di servizi garantiti in toto o in parte dalla fiscalità generale. I maggiori aumenti salariali dovranno essere usati per acquistare sul mercato ciò che prima era garantito dal pubblico. Le privatizzazioni creeranno mercati e occasioni di investimento o semplicemente occasione per speculazioni finanziarie. I servizi messi sul mercato verranno offerti al prezzo che il mercato determinerà. Il Pubblico si preoccuperà di fissare standard di qualità, ai fini della tutela sociale ha già fissato quelle che si chiamano clausole sociali, ossia mantenimento dei livelli occupazionali, del rispetto dei CCNL e degli accordi di secondo livello. Le clausole sociali hanno validità un solo anno per cui, passato l’ anno, l’impresa aggiudicataria del servizio potrà benissimo ristrutturare il servizio da produrre in funzione degli utili.
In merito alla privatizzazione dei servizi sociali o semplicemente delle gare per l’affidamento dei servizi o di prestazioni da parte di imprese: Regolamenti Comunitari, legislazione nazionale, giurisprudenza e le varie raccomandazioni delle Autorità di settore, sono a dir poco contraddittorie. Non è questo il momento per analizzare questo aspetto ma una cosa è certa: ognuno degli atti emanati da uno degli organi citati sostiene tutto e il contrario di tutto. Per capirlo è sufficiente scorrere le determine dell’ANAC, dell’AGCM, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, Regolamenti e Direttive comunitarie. L’ introduzione del salario minimo orario dovrebbe fare in qualche modo da diga, il punto è che una parte consistente dei salari è legata agli accordi di secondo livello per cui nella formulazione del salario minimo bisognerebbe tenere presente anche questo dato per evitare il ritorno alle gabbie salariali. Non solo, il punto è che nel caso di servizi di interesse pubblico, le ignominiose privatizzazioni, non è previsto il rispetto degli accordi di secondo livello se non per il primo anno di affidamento del servizio.
Ritornando al punto di partenza legare l’ aumento dei salari alla riduzione della pressione fiscale è la solita manovra neoliberale finalizzata all’allargamento del mercato. Chi avanza una tale proposta pensa di poter compensare il minor gettito fiscale con l’ aumento delle entrate riveniente dall’imposta sulle transazioni commerciali. Non penso che ci saranno maggiori entrate fiscali. In sostanza siamo in piena crisi: cresce il debito pubblico e nel contempo aumenta l’inflazione ormai al 9%. La crescita dell’inflazione impone la rivisitazione dei prezzi delle opere pubbliche con un ulteriore aumento della spesa pubblica. Come è successo in passato l’inflazione ha determinato la riduzione del debito pubblico. Ma non solo quello. L’inflazione mangia i salari e quindi il potere d’acquisto da parte dei lavoratori con conseguenze facilmente prevedibili.
Sicuramente il conflitto ucraino – russo sta contribuendo alla crescita del debito pubblico e dell’inflazione ma siamo proprio sicuri che non avremmo avuto lo stesso stagflazione, aumento dello spread, aumento del costo del denaro e di nuovo il patto di stabilità? Personalmente penso che guerra o non guerra avremmo avuto comunque gli stessi risultati. L’ allentamento dei vincoli di bilancio che fosse una parentesi legata alla pandemia era chiaro sin dall’inizio per cui prima o poi saremmo ritornati al rispetto dei vincoli di bilancio, alla stabilità monetaria, alla riduzione della spesa pubblica, del deficit e del debito. La riduzione del costo del denaro è stato lo strumento temporaneo che la BCE – ma lo stesso livello politico ha spinto in tal senso – ha adottato, con politiche di espansione monetaria per favorire gli investimenti e i consumi attraverso l’ indebitamento sia pubblico che privato. Il denaro, tramite le banche, è stato reso disponibile in quantità rilevanti nella speranza che imprese e famiglie vi accedessero per consumi ed investimenti. La transizione ecologica, l’innovazione tecnologica, la creazione di nuovi mercati avrebbero dovuto essere nuove occasioni di investimento e di crescita economica. Apprendisti stregoni che, quando pensavano ad interventi di questo genere avevano in mente, forse, Schumpeter e la sua teoria dei cicli economici legati all’innovazione tecnologica. Questa è la ragione del fenomeno mediatico rappresentato dalla Thunberg. Chiedetevi perché nessuno parla del più del movimento del Friday for Future, se non quei pochi dementi che nei giorni scorsi hanno occupato qualche autostrada. Il tema della transizione ecologica esiste, su questo non c’è dubbio. La mia impressione è che le risorse finanziarie messe in campo, pur se enormi, non sono state in grado di produrre la spinta necessaria alla ripresa economica. Capisco che il contesto è mutato, oggi il mondo gira molto più velocemente di tre decenni fa per non parlare della velocità del mondo di oggi rispetto al ‘700 quando in UK iniziava quella passata alla storia come rivoluzione industriale ma, pur se veloce, non riesce, ci sono condizioni fisiche, materiali che richiedono i loro tempi. Sicuramente il mondo è veloce soprattutto se analizziamo il mondo della finanza, altra cosa sono le condizioni materiali rappresentate dall’economia reale. Chi ha pensato che il rendere facile il credito fosse sufficiente, molto probabilmente, ha sbagliato i calcoli. Qualche algoritmo si è rivelato errato.
Non penso che la soluzione sia quella paventata dai Falchi del nord UE e dalla stessa Lagarde. Non penso nemmeno che la soluzione stia nella riduzione del costo del denaro. Tra la riduzione del costo del denaro e la crescita degli investimenti in innovazione per la transizione ecologica non c’è nessun automatismo. Se il denaro costa poco vi si può accedere utilizzando quel denaro per attività speculative. <<Dal 1973 al 2004, mentre il Pil mondiale si triplicava, la media di denaro scambiato ogni giorno sul mercato dei cambi valutari crebbe da 15 a 1.900 miliardi di dollari; tra il 1982 e il 2012 i flussi annui di investimenti esteri da 57 a 1.361 miliardi e il capitale detenuto negli Stati Uniti da fondi di investimento comuni da 25 a 3.488 miliardi. Dal 1980 al 2010 il volume a prezzi correnti dello stock di finanza globale (depositi, azioni, debiti pubblici e privati) aumentò da 12 a 212.000 miliardi di dollari. Negli Usa il valore totale della finanza, che nel 1900 era pari al 101% del Pil e nel 1929 al 167, ammontava nel 1980 al 194, nel 2007 al 442%. A livello globale un campione di 79 paesi metteva in mostra la stessa tendenza: dal 120% del 1980 al 260% del 1990, al 370% del 2007 2 .
A gonfiare questa bolla di carta sempre più svincolata dalla ricchezza reale erano soprattutto i «derivati»: prodotti finanziari legati a scommesse sul corso di titoli azionari, quotazioni di valute e altre variabili dei mercati. Quasi sempre essi erano gestiti con denaro non posseduto, preso in prestito da banche e società finanziarie. I capitali preferivano la strada facile e rapida, ma instabile della speculazione a quella complicata e lenta degli investimenti produttivi nell’industria e nel commercio. I guadagni non ricadevano più sull’intero corpo sociale in termini di nuovi posti di lavoro, ma restavano appannaggio di una ristretta schiera di investitori: l’ineguaglianza dei redditi, che era andata calando dal 1945, riprese a crescere in diversi paesi a cominciare dagli Stati Uniti>>[12] .
Altro dato sul quale riflettere è in che misura è cresciuto dal 1973 al 2016 il Pil mondiale. <<Se esso è aumentato di quattro volte, la quota dell’Occidente e del Giappone è diminuita dal 59% al 37%, mentre quello del resto dell’Asia è passato dal 13% al 48% grazie soprattutto alla Cina, passata dal 3% al 27%. Negli stessi anni gli Stati inizialmente appartenenti al blocco sovietico scesero dal 17% al 5% e l’America Latina dall’8% al 7% mentre l’Africa rimase stabile attorno al 3%. Se collochiamo questi mutamenti in un contesto di lungo periodo, vediamo che gli equilibri produttivi del mondo sembrano tornare ad essere quelli precedenti la Rivoluzione industriale, quando la produzione e il peso demografico dei vari paesi andavano di pari passo. Si tratta quindi, con ogni probabilità, di un processo sostanzialmente irreversibile.>>[13].
In conclusione il mondo occidentale è di nuovo in stagflazione con una differenza rispetto a mezzo secolo fa: la Globalizzazione, ossia l’ideologia dell’imperialismo USA trionfante, ha prodotto la contraddizione per il suo stesso superamento nel senso che, come è stato dichiarato da Putin, da Xi Jiping o come prova il recente vertice dei Brics al quale hanno chiesto di essere ammessi altri Stati, non è morta in sé, non può essere funzionale ai soli interessi dell’Occidente rappresentato dagli USA. Rispetto a questo quadro per risolvere la crisi economica che è insieme crisi politica serve un nuovo protagonismo dello Stato e una nuova relazione tra questo e il mercato. Detto in altro modo servono nè la politica delle “cannoniere” nè dell’imperialismo occidentale rappresentato dagli Stati Uniti, serve una politica capace di ricostruire, nelle società post moderne occidentali, la Comunità.
[1] I programmi della socialdemocrazia tedesca. Da Bad Godsberg a oggi. Prefazione di Peter Glotz Editori Riuniti 1986
[2] Jacopo Perazzoli – Bad Godsberg: il coraggio del riformismo. Movimento operaio e capitalismo nell’Europa del XX Secolo . milano, 6 aprile 2016 pag. 13. https://www.academia.edu
[3] Fanfani , Amintore di Pietro Roggi – Il Contributo italiano alla storia del Pensiero : Economia ( 2012) Enciclopedia Treccani
[4] La centralità della <<persona>> di Flavio Felice – Reset 28 dicembre 2011
[5] The decline of ordoliberal influence in the Mont Pelerin Collective. Ropke’s Occident, the “Hunold Affair” and the rise of the Chiacago Scholl. Posted by ledgerrobbert 29 febbraio 2016 https://ordoliberalism.wordpress.com.
[6] L’ordoliberalismo e il mercato sociale di Razeen Sally IBL Occasional paper ibl Istituto Bruno Leoni 10 dicembre 2012
[7] T. Detti – G . Gozzini L’età del disordine . Storia del mondo attuale 1968 – 2017. Ed. Laterza 2018
[8] Colin Cruch Il Potere dei giganti. Ed. Laterza 2012
[9] Ibidem nota 6 pag. 37
[10] Ronald Dore – Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi. Ed. il Mulino 1990
[11] S. Bernardini – C. Cottarelli – G. Galli – C. Valdes La riduzione del debito pubblico: l’esperienza delle economie avanzate.htpps://osservatoriocpi.unicatt.it
[12] Idem nota 6 pag. 25.
[13] Idem nota 6 pag. 29.