Non foss’altro che per l’increscioso coro mediatico che li esalta innalzandoli all’olimpo dell’esemplarità culturale ed etica (sull’aspetto musicale non mi esprimo), bisogna dire dove stanno in realtà i Maneskin.
Altre volte ho sottolineato come l’ostentazione sistematica e “trasgressiva” della diversità non sia affatto progressiva, né liberatrice. L’odierno progressismo, armato delle sue strutture discorsive politicamente corrette, la utilizza volentieri e con molto profitto per traslare il problema dell’uguaglianza e del suo riconoscimento interamente sul piano individuale, frammentando l’identità in una miriade di possibilità tutte completamente disarticolate dall’ossatura sociale che le produce. I Maneskin rappresentano piuttosto bene questa fluidità dei tempi. Ovviamente la “libertà” con la quale si rimane è in fondo una libertà del tutto esteriore, di costume, che io di certo non contesto, ma non una vera libertà di essere, perché è deprivata dell’essere sociale, la cui questione si mira a rendere persino impossibile porre e pensare. La libertà di essere è prima di tutto liberazione dal bisogno (per questo preferisco parlare di “liberazioni” e non di “libertà”). La stessa difesa dei diritti individuali neoliberali (che sono molto meno dei diritti civili seriamente intesi, che io sostengo) non corrisponde ad alcuna lotta di liberazione e di emancipazione, ma si inserisce in una cornice di marca sostanzialmente conservatrice. All’ombra della quale crescono i reazionari di domani e i disinteressati alla questione sociale di oggi e di domani.
Se torno brevemente sugli aspetti generali è perché illuminano il particolare, e viceversa.
Coerentemente con la cornice culturale della quale sono un prodotto, i Maneskin non mettono in questione il sistema di potere che li ha promossi, per la verità non lo sfiorano e non lo disturbano, proprio al contrario lo assecondano nelle sue pulsioni. Quel plateale “Fuck Putin” pronunciato da un palco californiano (e cioè simbolicamente dal cuore del potere economico), ben lungi dal rappresentare un atto di coraggio (il coraggio ci vuole a sostenere ciò!) è l’esternazione più banalmente conformista di chi sa, istintivamente, di essere protetto dal sistema. Perché un atto di coraggio sarebbe stato gridare da quel palco “Free Assange”, si provi solo a immaginare per un secondo con quali conseguenze, non certo l’esclamazione proferita dal nostro impavido cantante che, a prescindere da ogni e qualsiasi valutazione di merito, è la più facile da pronunciare in quel luogo e in questo momento.
Il fenomeno Maneskin, beninteso, non è solo il fenomeno di chi è stato sbaciucchiato dal successo e ricambia con parole grate, ma anche, e direi soprattutto, di un sistema mediatico raccapricciante che li incensa per una simile ruvida e inopportuna sciocchezza, rilanciando parole di guerra a oltranza.
Il meccanismo della ricompensa sociale dell’artista è guasto da tempo ma qui siamo oltre. La cialtroneria del tempo presente sembra non conoscere limiti. Si fa impunemente passare come un atto di coraggio esemplare il gesto più semplice e atteso, in certo senso indubbiamente richiesto, mentre non passerebbe per l’anticamera del cervello del cantante l’idea di dire una sola parola veramente scomoda. Siamo agli antipodi della funzione dell’arte di sferzare il potere.
È la punta dell’iceberg di un capovolgimento fattuale. Non si può non partire dalla premessa che stiamo assistendo a una narrazione unilaterale della guerra. Dalla lunga crisi russo-ucraino-euro-americana, la propaganda occidentale rimuove tutti gli aspetti che chiamano in causa, ciascuno nel proprio ordine, gli Stati Uniti, la Nato, l’Ue. Tutto viene ridotto al solo schema Russia aggressore / Ucraina aggredita, che è certamente vero relativamente alla causa occasionale, ma non esaurisce di certo le cause remote e strutturali, che evidenziano chiaramente (come qui abbiamo molte volte detto) la natura del conflitto in corso come una guerra Russia – Nato a guida Stati Uniti. La furia bellicista è inarrestabile e chiede di ingrossare il conflitto.
Dalle nostri parti esiste poco il problema della propaganda russa, e molto di più quello della propaganda occidentale, che è incalzante al punto che non si è forse mai assistito a un simile imbarbarimento dei sistemi informativi. Il corrispettivo più prossimo della repressione del dissenso nell’autocratica Russia è la reprimenda “democratica” che scatta da noi contro chiunque provi ad allargare lo sguardo sulle cause strutturali del conflitto in corso.
Essere coraggiosi, insomma, vuol dire essere scomodi in casa propria, nei confronti del sistema di potere con il quale si deve convivere. O rivelare l’ipocrisia di chi ha sempre sulla bocca il significante della democrazia mentre la svuota di significato. Per esempio denunciando i crimini di guerra degli Stati Uniti, come ha fatto Jualian Assange.