Nella barbarie di falsità stampata nella comunicazione occidentale sulla guerra ucraina, il libro di Sara Reginella “Donbass, la guerra fantasma” aiuta a trovare una bussola che permette di riportare il discorso a una dimensione di ragionevolezza. E di umanità. L’autrice riesce nell’intento grazie e testimonianze dirette e al suo continuo peregrinare nei luoghi del conflitto, acceso nel 2014 a seguito della svolta autoritaria e fascista dello Stato ucraino corrispondente al colpo di stato di Euromaidan. Da lì, da quel momento, il nazionalismo ucraino si è dotato di prassi, icone, miti, simbologia di chiara matrice nazional-socialista, ha istituzionalizzato i battaglioni paramilitari ideologicamente appartenenti a quella tradizione, ha emanato leggi di persecuzione politica, sociale e culturale nei confronti della popolazione russofona, posto fuori legge i partiti di opposizione. Diventando, di fatto, il punto di riferimento di una nuova internazionale nera acclamata dai cantori della società aperta di stampo liberale.
L’auto-proclamazione della Repubbliche indipendenti di Lugansk e di Doneck si comprende solo se si volge lo sguardo su queste premesse. E sulla specificità di quei territori che risultarono decisivi nella contrapposizione all’invasione tedesca durante la Grande Guerra Patriottica – così i russi chiamano la Seconda Guerra Mondiale. A dimostrazione del fatto che ogni popolo possiede una propria consapevolezza storica e anche in base a quella compie le proprie scelte di ordine politico. Sta di fatto che lo Stato ucraino ha reagito sin dal 2014 con una guerra distruttiva nei confronti dei propri connazionali dell’est, guerra molto apprezzata dai vertici militari della NATO e dai fascisti di mezzo mondo che improvvisamente sono stati riverniciati con il colore della dignità. Guerra completamente dimenticata dai media “democratici”.
La popolazione del Donbass ha così riscoperto le proprie radici di resistenza alla nuova ondata nazistoide e ha iniziato a difendersi dall’aggressione fratricida dell’esercito ucraino e delle sue inquietanti milizie. In questo contesto tra le storie raccontate nel libro/documentario c’è quella della Brigata Prizrak, in russo Brigata Fantasma. Nome evocativo di una leggendaria riapparizione della divisione dopo che i mass media ucraini diedero la notizia del suo annientamento. Il primo comandante della Brigata fu proprio Aleksej Mozgovoj. Per descrivere la sua sensibilità politica riporto le parole dell’autrice: “Nel 2014, solo un anno prima della sua morte, Mozgovoj, un uomo comune che non aveva mai avuto velleità politiche si era ritrovato a guidare l’insurrezione popolare ad Alchevsk nella regione di Lugansk. Come in molte altre città del Donbass, nei mesi successivi il golpe di Kiev anche in quella città erano stati occupati i palazzi delle amministrazioni pubbliche, i militari delle caserme si erano uniti alle rivolte armando il popolo, e i minatori si erano associati all’insurrezione, rifornendo la brigata d’ingenti quantità di esplosivo.
Aleksej Mozgovoj era orgoglioso delle proprie radici russe e ortodosse e in quella ribellione portava avanti un progetto non comunista, ma socialista.”
“Tutti sanno che ho alcune riserve rispetto alla rivoluzione del 1917 – aveva spiegato il comandante della Prizrak, basco in testa e kefiah al collo, durante il suo discorso al popolo nell’ambito delle celebrazioni per la Rivoluzione d’Ottobre, ad Alchevsk. – Da un lato è stata una rivoluzione socialista, ma dall’altro è stato un evento accompagnato da distruzione. Io sono per costruire, sempre, ma dal momento che ora tutti noi stiamo vedendo come vengono abbattute le statue di Lenin nelle diverse città dell’Ucraina, abbiamo il dovere di schierarci dalla parte dei socialisti e dalla parte dei comunisti, perché lo sviluppo del fascismo che osserviamo in Ucraina è inaccettabile per il mondo intero!.” E ancora: “Mi rivolgo a tutti coloro che sono coinvolti in questa guerra, mi rivolgo a entrambe le fazioni. Ci stiamo uccidendo tra noi, anziché punire coloro che andrebbero puniti. Combattiamo contro gli oligarchi da una parte come dall’altra parte, ma uccidendoci tra noi ci stiamo solo suicidando in modo sistematico”.
“Aleksej Markov e Aleksej Mozgovoj ritenevano che gli ucraini fossero il loro popolo fraterno e che molti di loro avessero iniziato le proteste a Maidan lottando contro gli sessi mali per cui si lottava in Donbass, mali che andavano dall’oligarchismo all’ingiustizia sociale. La cellula nazista e quella ultranazionalista, però, avevano veicolato le proteste fungendo da sudicia manovalanza per il golpe, ma del fatto che vi potesse essere un’unione di intenti con una parte del popolo ucraino, al di fuori della frangia nazista, Mozgovoj era certo.”
Mozgovoj è stato ucciso il 23 maggio 2015 all’età di 40 anni in un’imboscata su una strada tra Luhans’k e Alčevs’k, quartier generale della Brigata Prizrak. La sua segretaria Anna Samelyuk, l’autista, e sei guardie del corpo sono rimaste uccise. La vettura del comandante è stata assaltata con IED e armi da fuoco.
Naturalmente era descritto dalle autorità ucraine come un terrorista.