Il giornalista Rai Marc Innaro ha subito la scomunica tipica dei totalitarismi. Di certe cose non si può parlare. Testualmente e in diretta così è stato apostrofato. Ma a cosa faceva riferimento nel momento in cui è stato processato come traditore? Certo l’allargamento della Nato a est. Ma non solo. Questo particolare lo si può somministrare alla plebe con uno strano riferimento alla sovranità, concetto da riutilizzare quando fa comodo.
In realtà, giustamente, Innaro voleva mettere un tarlo nel pubblico abbindolato dalla retorica nazionalista e fascistoide ucraina. Si è lanciato in considerazioni troppo pericolose per chi ha bisogno di confezionare una verità posticcia, tanto vendibile nella fiera dei cotillon propagandistici. Ha solo provato a ricordare qualche manovra britannica degli scorsi mesi ai danni della Russia.
Qualche lancio satellitare e strane incursioni della Marina di Sua Maestà in acque russe. Qualsiasi riferimento che possa spostare l’accento su aggrediti e aggressori viene mandato al confino. Si potrebbe ad esempio parlare della Turchia e di come la democrazia Erdoganiana – che conta un esercito non da poco – abbia improvvisamente aperto a mezzi non da crociera il canale di Istanbul. Oppure di quell’asse strategico tra Danzica e Costanza nel quale la militarizzazione occidentale si diffonde parlando polacco e rumeno.
Ciò che non deve in nessun modo emergere sono le ragioni russe. Quell’accerchiamento denunciato da anni e rimasto inascoltato. Anche dopo due mesi di ammassamento di truppe al confine ucraino. Che restavano lì immobili in attesa di saggezza.
Innaro paga perché alla ricerca di una ragione scomparsa nella vita contemporanea. La ricerca della verità. Oggi ci si deve accodare a questi anatemi belligeranti. Abbiamo i testimoni in diretta da Kiev che ci vogliono in guerra, ci indicano la guerra, ci dicono felloni. Dobbiamo combattere. Silenzio sul rapimento dei civili ucraini, maschi s’intende, impossibilitati a lasciare il paese. Loro sono il nostro monito. Scudi umani per l’esportazione di democrazia. Se ci provano, a mettersi al riparo, gli Azoviani, si quei nazisti un tanto al chilo, ti sparano pure.
Tutti con l’elmetto dunque. Fieri e robusti. Spavaldi e ginnici. Ma questa mentalità da guerra a ben vedere non è roba delle ultime ore. Siamo stati educati a questa tensione di sopravvivenza passiva ma sacrificale. Sopportare con resilienza. Quella condizione estatica che corrobora corpo e mente. Sballo, perfezione fisica, misticismo orientaleggiante, purezza vegana. Sembrano colombe di pace interiore. Ma interiorizzano la guerra. Come tutto ciò che distacca l’individuo dalla coscienza delle proprie condizioni materiali. Ciò che disabitua alla lotta prepara alla guerra. A una spiritualità eroica. Arcaicizzante.
Si dissolve il reale. L’epica diventa spettacolo. L’irrazionalità buon senso.
Qualcuno accenna alle proporzioni. E se il Messico diventasse filo-cinese? Ecco che colpi di stato, guerriglie, invasioni si trasformerebbero d’incanto in operazioni di salvezza.
Peccato che la guerra, noi e solo noi, non la usiamo ai nostri confini. Noi bombardiamo per l’estasi democratica a chilometri di distanza. Radiamo al suolo città per il gusto di civilizzare. Belgrado, Bagdad, Kabul, Damasco, Gaza.
Lì i civili non figurano in formazione.
Forse non sono neanche città.