C’era una volta…il servizio pubblico locale

Dopo un periodo di assestamento durato all’incirca un secolo (il ventesimo, cioè quello dello Stato sociale) la disciplina dei servizi pubblici locali/SPL ha subito, a partire da inizio millennio, un’improvvisa e frenetica evoluzione in peius che, per un paradosso della Storia, potrebbe riportarci a breve alle insoddisfacenti condizioni di partenza.

Ripercorriamo sinteticamente una vicenda ultracentenaria[1]: a fine Ottocento l’industrializzazione in atto nel Regno d’Italia e il conseguente bisogno di manodopera spingono grandi masse di contadini poveri verso le città in espansione. I nuovi arrivati trovano precaria sistemazione in periferie dove manca tutto, dall’acqua da bere ai mezzi di trasporto. La domanda di servizi proveniente da questo nuovo proletariato urbano non viene intercettata dall’imprenditoria, che valuta poco profittevole un’eventuale erogazione: si attivano pertanto le amministrazioni comunali che, con risorse proprie, iniziano a fornire elettricità, ad aprire farmacie pubbliche, a installare reti tranviarie e a garantire l’approvvigionamento idrico ai meno abbienti – il tutto a prezzi politici, cioè nettamente inferiori a quelli di mercato. Il fenomeno del “socialismo municipale” attira l’attenzione del legislatore italiano, che nel 1903 (Legge Giolitti) adotta una prima regolamentazione, poi ritoccata nel 1925. All’iniziativa privata (ove presente) si affianca quella pubblica e il sistema sembra funzionare bene, sicché si mantiene inalterato nei primi quarant’anni di storia repubblicana. La Legge 142/1990 conferma i dati acquisiti, mettendo un po’ d’ordine nelle modalità organizzative e gestionali: scopo della gestione è e resta la “produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (art. 22). La legge nazionale identifica alcuni servizi da gestire obbligatoriamente in sede locale, ma lascia liberi i Comuni di individuarne di ulteriori sulla base delle esigenze comunitarie e non pone limiti all’autoproduzione, cioè alla gestione diretta da parte degli enti territoriali. E’ consentito costituire delle società (anche miste), ma nel testo normativo non ci imbattiamo in alcun riferimento alle virtù del mercato o agli interessi imprenditoriali.

Nel 1992, con la firma del Trattato di Maastricht, l’Europa cambia faccia, anche se sono in pochi ad avvedersene: entra prepotentemente in scena il principio di tutela della concorrenza, estraneo al nostro ordinamento giuridico ma consustanziale alla logica mercantile e privatistica su cui si fonda la UE. Tollerato per decenni (finché è esistita la “controproposta” sovietica) l’intervento pubblico in economia diventa tutt’a un tratto un tabù: le quotidiane giaculatorie su “sprechi”, “corruzione” e “inefficienza del gestore pubblico” sono funzionali a ricondizionare l’atteggiamento collettivo in senso pro-market. Più che il ruolo di arbitro alle istituzioni (statali e locali) è assegnato quello di promotore della libera impresa in ogni ambito di attività. Teorici e pratici dell’ordoliberismo scorgono nel meccanismo dell’autoproduzione un fastidioso intralcio alla crescita dei profitti privati, e il legislatore nazionale prontamente si adegua: nel 2003 viene introdotta la distinzione fra servizi pubblici con e senza rilevanza economica – i primi sono caratterizzati dalla “attitudine a generare utili” e possono essere affidati a imprenditori individuati tramite gara pubblica, a società miste pubblico-private oppure a società private c.d. in house. L’in house providing è un “alieno” plasmato dalla giurisprudenza comunitaria che il nostro ordinamento fatica a inquadrare, conferendogli un’anomala forma societaria: esso coinciderebbe in realtà con la gestione diretta, ammessa nel rispetto di stringenti condizioni. Si pone però un problema: quello di giustificare la minuziosa regolamentazione statale di un settore in cui agli enti locali è da cent’anni riconosciuto un ampio margine di autonomia. Investita della questione la Corte Costituzionale la risolve (sent. 272/2004) valorizzando la “tutela della concorrenza”, nuovissima materia di esclusiva competenza statale caratterizzata da una trasversalità che le permette di incidere su vari ambiti normativi. Ove difetti la rilevanza economica, invece, lo Stato non ha titolo a legiferare: la difficoltà risiede nel fatto che l’attitudine a generare utili è un concetto inafferrabile, che può essere declinato secondo le esigenze del momento.

Fatto sta che nel 2008 il Governo Berlusconi vara la c.d. seconda privatizzazione… in due atti (Decreti 112/2008 e 135/2009, frettolosamente convertiti in altrettante leggi): il nuovo articolo 23 bis prevede come regola generale per gli affidamenti l’esperimento di una gara pubblica aperta a società miste e singoli imprenditori. Solamente in presenza di eccezionali circostanze economiche, sociali, ambientali ecc. “che non consentono un utile ed efficace ricorso al mercato” (e la cui sussistenza va dimostrata all’esito di un’accurata analisi costi-benefici) è consentito l’affidamento in house, previa acquisizione di un parere rilasciato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato – vale a dire di un soggetto non propriamente imparziale[2]!

Più che la consapevole contestazione di un’ideologia (di marca anglosassone) oramai largamente maggioritaria, è l’invadenza statale a suscitare la reazione delle Regioni, rintuzzata però da una Consulta ertasi a tutrice degli interessi delle lobby economico-finanziarie sovranazionali: nell’indifendibile sentenza 325/2010[3] troviamo infatti scritto che il servizio idrico “non costituisce funzione fondamentale dell’ente locale” e che, più in generale, “la gestione dei predetti servizi (pubblici locali) non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale”. Alla luce di un’esperienza ultrasecolare l’apodittica affermazione suona perlomeno discutibile, ma la Consulta aggiunge una serie di postille che assomigliano a professioni di fede: la disciplina europea impone un minimum di tutela della concorrenza[4] che gli Stati possono estendere a piacere, anche perché “per il legislatore nazionale, come per quello comunitario, la rilevanza economica sussiste pure quando, per superare le particolari difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un «mercato a monte», e cioè un mercato «in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi» agli utenti. Dall’evidenziata portata oggettiva delle nozioni in esame e dalla indicata sufficienza di un mercato solo potenziale consegue l’erroneità (…) di quell’interpretazione – fatta propria da alcune ricorrenti – secondo cui si avrebbe rilevanza economica solo alla duplice condizione che un mercato del servizio sussista effettivamente e che l’ente locale decida a sua discrezione di finanziare il servizio con gli utili ricavati dall’esercizio di impresa in quel mercato”.

L’abnormità di questa pronuncia risulta evidente a chiunque le si accosti senza aver inforcato gli “occhiali concorrenziali”: se è sufficiente “un mercato solo potenziale”, allora qualsiasi attività (dalla gestione dei campetti di calcio ai servizi cimiteriali, dalla difesa alla giustizia) riveste astratta rilevanza economica, e compito delle amministrazioni pubbliche sarebbe quello di tradurre la potenza in atto, favorendo con sovvenzioni l’ingresso dell’imprenditoria in settori prima negletti perché non abbastanza redditizi. Risultato: il pubblico fa da cavalier servente al privato, cui garantisce l’equo profitto (art. 117, co. 1, lett. d) del TUEL) senza pretendere – molto signorilmente – alcunché in cambio per i “cittadini”-consumatori che pagano le tasse.

“Purtroppo” nel 2011 capita un incidente di percorso: il corpo elettorale abroga tramite referendum l’articolo 23 bis e vanifica gli sforzi di legislatore e giudici costituzionali di apparire più realisti del re. La reazione del Governo Berlusconi è immediata: per cattivarsi la benevolenza della UE pensa bene di reintrodurre di nascosto la vecchia disciplina (art. 4 del D.L. 138/2011), ma stavolta la Corte – che ha un nuovo Presidente – fa il suo dovere e sgamato l’espediente lo boccia (sent. 199/2012). Al povero Parlamento non resta altro che cedere le armi e richiamarsi all’ambigua normativa comunitaria.

Le istituzioni europee non sono altrettanto rinunciatarie: all’eretica pronuncia referendaria fanno seguito – del tutto casualmente – un aggravarsi della crisi economica italiana (estate 2011: mr. Spread prende il sopravvento) e, a due mesi dal voto, la lettera firmata da Trichet e dall’attuale Presidente del Consiglio[5], in cui troviamo scritto, fra l’altro, che “Per aumentare il potenziale di crescita dell’economia, si deve aumentare la concorrenza, in tutti i suoi aspetti: servizi pubblici e privati, con liberalizzazioni e privatizzazioni”.

Colpisce, anche se non meraviglia, il disprezzo per la volontà popolare, considerata un ostacolo da superare in fretta: assistiamo negli anni successivi a svariati tentativi di “rimettere le cose a posto” mediante l’inserimento nel corpus normativo di disposizioni modellate sull’abrogato 23 bis (l’articolo 192 del Codice dei contratti, ad esempio), l’ossessivo attivismo dell’ANAC – che applicherebbe le regole della concorrenza anche ai giochi infantili – e la predisposizione di una riforma costituzionale[6] ispirata (anche) ai contenuti della sentenza 325. L’iperliberista Governo Renzi vorrebbe integrare la lettera e) del secondo comma dell’articolo 117 Cost. affiancando alla tutela della concorrenza la sua promozione: tutto deve ridursi a merce di scambio, ma ancora una volta purtroppo l’elettorato non si dimostra sufficientemente “progressista” e la legge di riforma viene cassata.

Seguono anni di tregua, perché le elezioni 2018 segnano l’affermazione di forze politiche ancora acerbe ed estranee al sistema (soprattutto il M5Stelle); poi, a inizio 2020, irrompe il Covid-19, che da emergenza assoluta si trasforma ben presto in occasione per un giro di vite autoritario[7] e per un ritorno al passato prossimo. Denota grande ingenuità l’opinione, espressa da molti (anche e soprattutto a sinistra), che l’Unione Europea potesse cambiare rotta: lo scorpione muta l’esoscheletro, mai la propria natura. Il PNRR, spacciatoci per panacea, è soprattutto un prestito a strozzo concesso da un creditore esigente e privo di scrupoli morali: l’erogazione dei fondi è subordinata all’attuazione di “riforme abilitanti”, fra le quali si annovera il rafforzamento della concorrenza. La forzatura istituzionale attuata un anno fa con la nomina di Mario Draghi a Presidente del Consiglio risponde all’esigenza dei mercati – e della UE, che è loro emanazione – che qualcuno garantisca l’esatto adempimento degli impegni assunti: e chi può farlo meglio di colui che undici anni orsono fece pervenire al Governo italiano un ultimatum neoliberista?

Se esaminiamo il testo del DDL Concorrenza[8] presentato a novembre vi ritroveremo ciò che era stato messo nero su bianco nella famigerata missiva: le finalità esplicitate nell’articolo 1 consistono nella promozione dello sviluppo della concorrenza[9] (lett. a) e nella rimozione degli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, all’apertura dei mercati (lett. b)[10]. Gli articoli da 6 a 10, che riguardano la materia dei servizi pubblici locali, sono ancora più chiari: la legge delega il Governo ad approvare in tempi brevi (sei mesi) un Testo Unico in conformità a una serie di principi che merita rapidamente esaminare. Il primo (art. 6, co. 2, lett. a) demanda al legislatore statale l’individuazione “nell’ambito della competenza esclusiva di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione, da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza[11]” delle attività di interesse generale il cui svolgimento è necessario al fine di assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali: sembra proprio uno spossessamento delle prerogative comunali, sulla scia delle affermazioni contenute nella pronuncia 325/2010. La lettera b) prevede la “separazione, a livello locale, tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi”, che evidentemente non spetteranno più ai Comuni; la lettera c) impone il “superamento dei regimi di esclusiva non conformi” alla normativa comunitaria, che esprime un’indiscussa preferenza per la fornitura di beni e servizi da parte di privati in libera competizione fra loro limitando le ipotesi di “esclusiva” a casi marginali di fallimento del mercato – tradotto in parole povere significa che, ad esempio, il trasporto urbano potrà essere garantito da una pluralità di soggetti privati (un po’ come avviene per i servizi di telefonia mobile). La lettera d) prevede l’armonizzazione delle normative di settore, cioè l’esercizio delle funzioni da parte di ambiti sovracomunali, mentre le lettere e) ed f) confinano il “modello dell’autoproduzione” (il c.d. in house) nel campo delle assolute eccezioni, richiedendo di volta in volta “una motivazione anticipata e qualificata, da parte dell’ente locale (…) che dia conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità, degli investimenti e dei costi dei servizi per gli utenti, giustificano il mancato ricorso al mercato”. Non basta: l’ente locale sarà tenuto a “trasmettere tempestivamente la decisione motivata di utilizzare il modello dell’autoproduzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato”: si ripropone in sostanza lo schema dell’articolo 23 bis del D.L. 112/2008, disconoscendo gli esiti del referendum abrogativo del 2011, e ad abundantiam si prescrive un gravoso “monitoraggio dei costi ai fini del mantenimento degli equilibri di finanza pubblica e della tutela della concorrenza”, ma soltanto in caso di ricorso alla gestione diretta. Che la terza privatizzazione sia persino più radicale della seconda lo evinciamo da ulteriori puntualizzazioni: quella che obbliga a tener conto, in sede di revisione annuale delle partecipazioni societarie comunali, “anche delle ragioni che, sul piano economico e della qualità dei servizi, giustificano il mantenimento dell’autoproduzione anche in relazione ai risultati conseguiti[12]” (lett. i) e la pretesa (lett. o) di razionalizzare i rapporti tra la disciplina dei SPL “e la disciplina per l’affidamento dei rapporti negoziali di partenariato regolati” dal Codice del Terzo settore, evidentemente uniformando la seconda alla prima, come da anni suggerisce ANAC. Attenzione: gli enti del III settore sono associazioni no profit cui le amministrazioni possono oggidì affidare lo svolgimento (dietro rimborso spese) di attività di interesse generale senza attivare rigorose procedure di evidenza pubblica – non sempre queste entità perseguono genuine finalità solidaristiche, ma la loro equiparazione alle imprese commerciali denota un’aprioristica preferenza legislativa – di inequivocabile matrice ideologica – per il liberoscambismo rispetto alla cooperazione altruistica. Non finisce qui: il DDL getta le basi per una nuova e perniciosa privatizzazione dell’acqua (lett. n) e prevede, coerentemente con le premesse, l’unificazione della disciplina dei servizi pubblici locali con quella in materia di contratti pubblici (lett. p).

In tutto questo, bisogna dirlo, non vi è nulla di sorprendente: per il regime neoliberista, uscito dalla pandemia più saldo di prima, tutto è merce e va trattato come tale, indipendentemente dalle ricadute sociali (che penalizzano soltanto le classi subordinate). Sarebbe tuttavia opportuno che, preso atto di quanto sta avvenendo, autonomie locali e cittadini non privilegiati reagissero: le prime a tutela di un’autonomia che, solennemente sancita dalla Costituzione repubblicana, è oggi degradata a flatus Chartae, i secondi per salvaguardare dignità e tenore di vita, oltre che il futuro di figli e nipoti troppo spesso tirati ipocritamente in ballo dal potere e dai suoi prezzolati incensatori.

Per quanto mi riguarda, posso ribadire che da un commissario ad acta come il premier “che piace all’Unione Europea e all’America[13]” non mi aspettavo niente di diverso da ciò che, col plauso dei propagandisti di regime, sta puntualmente facendo: sebbene di altissimo livello è anch’egli un esecutore di scelte condivise, ma non autonomamente assunte.

 

 

[1] Rimando, per più dettagliate informazioni, al mio articolo “Dal privato al privato”, pubblicato nell’ormai lontano 2015: http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2015/04/dal-privato-al-privato-di-norberto.html?spref=pi

[2] Con tutto il rispetto (per entrambi) è come chiedere lumi sui diritti delle donne a un mullah talebano…

[3] https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2010&numero=325

[4] Essa, si rammenti, pone (pilatescamente) l’in house providing sullo stesso piano degli altri moduli gestionali, senza farne un’eccezione alla supposta “regola” dell’affidamento al mercato.

[5] https://st.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-08-03/lettera-francoforte-cambiato-italia-063800.shtml?uuid=AbZPWYIG

[6] Cfr http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2016/02/referendum-costituzionale-2016-alcune.html?m=0

[7] L’ovvio riferimento è alle restrizioni, palesemente sproporzionate e illegittime, a vari diritti costituzionali, primo fra tutti quello al lavoro su cui si fonda la Repubblica.

[8] Reperibile, tanto per cambiare, in bozze non ufficiali: https://www.ansa.it/documents/1636051142145_concorrenza.pdf

[9] La formula riecheggia quella coniata da Renzi nel 2016.

[10] Della “tutela dei consumatori” (lett. c) non importa nulla a nessuno, ma le formulette pigre non fanno danno…

[11] Lo “sviluppo economico e civile delle comunità” (vecchio art. 22) passa in secondo piano: il fine è adesso quello di rafforzare il mercato. Oramai il Comune è chiamato a curare gli interessi dell’impresa privata (anziché della comunità) e a promuovere la concorrenza (anziché lo sviluppo del territorio)…

[12] In pratica: per mantenere le proprie partecipazioni in società pubbliche in house (quelle ad es. che gestiscono il ciclo dei rifiuti e i servizi idrici) i Comuni dovranno annualmente attestare non solamente che la società in questione svolge una delle attività consentite dall’art. 4 del D. Lgs. 175/2016 (produzione di un servizio di interesse generale, realizzazione di un’opera pubblica, servizi di committenza, autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente), ma anche che essa “costa meno” di un operatore di mercato: probatio piuttosto difficile, per non dire diabolica!

[13] Così Lucio Caracciolo, qualche giorno fa a Ottoemezzo, per poi aggiungere: “Dopo il precommissario viene il commissario vero: qualcuno che ci mandano da fuori… la Troika” (https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/draghi-cosi-non-si-va-avanti-otto-e-mezzo-17022022-17-02-2022-423764)

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Fonte foto: da Google)

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