C’è qualcosa di ancor più malsano nella riforma che ha dato vita all’alternanza scuola/lavoro, rispetto alle precedenti, seppur anch’esse indirizzate alla privatizzazione, di fatto, dell’istituzione scolastica. Già allora si programmò il progressivo disfacimento del significato pubblico dell’educazione, la svalutazione di quei valori formativi legati un tempo a un’idea di cultura collettiva e storica. L’autonomia scolastica volle spezzettare l’intero ordinamento per esaltare la dinamica di concorrenza tra le varie unità che si dovevano uniformare al modello aziendalistico.
Quell’autonomia quindi non prevedeva, né si curava di prevedere, un impianto etico, sociale e culturale dell’insegnamento, che veniva immiserito dai vademecum di valutazione sull’efficienza. Questa trasformazione ha premiato, anno dopo anno, gli insegnanti meno motivati culturalmente, quelli che si sono conformati in maniera congeniale al mandato imprenditoriale della didattica. La scuola è diventata un percorso formativo quasi sensoriale, un’esperienza di vita assimilabile alla metafora del viaggio che arricchisce interiormente gli individui in vista della prestazione.
Così si è espansa l’area dei progetti in collaborazione con enti, fondazioni, associazioni al fine di donare lustro alla singola unità scolastica, spinta dal preside/manager, sempre in cerca spasmodica di fondi e prestigio. Va da sé che la motivazione ultima dell’insegnante, ormai integrato in questo tipo di dispositivi, non sarà stimolata da una missione realmente educativa, nella quale il sapere è tramandato per obiettivi generalisti di crescita critica e sociale degli studenti, ma dalla volontà di ottenere risultati strumentali per sé e per il singolo istituto.
Con l’alternanza scuola/lavoro questa dinamica è entrata direttamente nel terreno degli interessi di profitto. Ai progetti interdisciplinari con enti, fondazioni e quant’altro si sono sommati gli accordi con le imprese per facilitare l’impiego di manovalanza gratuita. In questo modo gli intrecci economici tra singole unità scolastiche, tra presidi/manager, tra professori integrati e interessi privati del territorio sono stati istituzionalizzati. Ma su un punto occorre essere chiari. La riforma si è assunta anche degli scopi pedagogici che travalicano il semplice addestramento alla concorrenza tra individui.
Gli studenti devono essere abituati a costruirsi un carattere, un modo di essere adattabile all’impiego flessibile, mal retribuito e mobile. In particolare devono interiorizzare la qualità del lavoro come gentile concessione elargita da filantropi, da meritare giorno per giorno, attraverso una propensione attitudinale impalpabile, slegata dall’esperienza.
Ciò che realmente interessa è lo sviluppo di potenzialità future giudicabili attraverso canoni di valutazione arbitrari, che tengono conto sì dell’impegno, della tenacia, dello spirito competitivo ma anche e soprattutto della capacità nel genuflettersi di fronte alle ingiustizie, nell’affrontare le sfide che la vita richiede con entusiasmo, nel condurre l’esistenza con quella particolare inclinazione alla passività oggi chiamata resilienza. Il tutto per associare l’idea di sé a un capitale umano, capace di colpevolizzarsi con fermezza di fronte ai fallimenti. Didattica della schiavitù.
Schiavi che poi possono, incidentalmente, anche perdere la vita. Fa parte del viaggio.