Qualche giorno fa le parole di Sergio Mattarella, puntualmente ripetute durante il tradizionale discorso di fine anno, hanno provocato reazioni stupefatte di esperti commentatori. Queste si sono dimostrate orgogliose del proprio operato, fiere soprattutto di lasciarsi alle spalle un popolo unito. Lo sbalordimento o il comprensibile disappunto però risulta quantomeno ingenuo poiché Il Presidente della Repubblica ha semplicemente voluto sottolineare un tratto coessenziale all’ideologia neoliberale. Intrinseco ai suoi dispositivi di funzionamento. Una trama del racconto sulla società imperniata sulla coesione sociale, sulla concordia regnante tra i vari sentimenti individuali della popolazione.
Infatti secondo la didattica incentrata sulla pedagogia dei mercati, la coesione sociale è quel condimento argomentativo capace di sfornare un buon piatto ad alta digeribilità per il pubblico. Un corpo sociale coeso rende le tecniche manipolatorie del consenso credibili, affidabili. Difficilmente sarebbe accettabile altrimenti una proposta esistenziale nella quale lo spartiacque per la sicurezza personale fosse rappresentato dalla concorrenza. Dalla sopravvivenza in una giungla di avversari.
La costruzione di un modello sociale accattivante per le masse si sostanzia in una dimensione pacificata, un popolo unificato che va incontro a un unico destino di salvezza. Questa retorica è propria dei totalitarismi dove appare essenziale fabbricare un’adesione entusiasta e allucinata per sconfiggere nemici esterni. Ma in questo caso la rappresentazione di un popolo affiatato e compatto serve a cementificare le fondamenta di un quadro ideologico molto pervicace nei confronti dell’individuo, anche se tratteggiato con pennellate apparentemente morbide, il quale dovrà concepirsi uguale agli altri per poi sopraffarli nelle dinamiche della vita quotidiana.
Il principio di concorrenza difatti presuppone la naturalità delle diseguaglianze, mai però collegabili a effettive scelte di politica sociale ma ascrivibili esclusivamente a tratti della personalità individuale non in grado di sopportare un’esistenza competitiva. Al fine di celebrare questa immaginifica e seduttiva raffigurazione sarà determinante nascondere il più possibile la Realtà. L’enunciazione di Mattarella sotto questo punto di vista è molto poco democristiana. La DC si serviva di un nemico, di uno spettro, il socialismo, ma politicamente ne teneva conto intravvedendo nel popolo un composito intrecciarsi di classi sociali in conflitto.
L’idea di un popolo omogeneo, unito da desideri indistinguibili, è propria dei liberali di ogni stagione. Per essi qualsiasi discordia di classe, ogni vagito di scontro tra capitale e lavoro, dovrà categoricamente essere sepolto. Ne va dell’intera narrazione persuasiva, che non ammette deroghe. La macchina spettacolarizzata dei media avrà il compito di oscurare qualsiasi tensione sociale; ridurle di volta in volta a scampagnate di perdigiorno, di esseri umani colti da pigrizia de-responsabilizzante. Nella pratica basterà censurare, rendere invisibili gli scioperi del sindacalismo di base, le mobilitazioni dei consigli di fabbrica, fino a far sparire dagli schermi lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL.
Ma il paradosso è che mai come negli anni di presidenza Mattarella sono esistite fratture così laceranti tra la popolazione, nelle quali appare impossibile riuscire a comporre le fazioni in lotta. SI VAX-NO VAX, uomini-donne, gender-no gender e così via. Lacerazioni esasperanti, contrapposizioni manichee dove è inconcepibile un arretramento dialettico, una predisposizione all’ascolto. Dimostrazione che i conflitti tra gruppi eterogenei, sempre scomponibili e ricomponibili a seconda dell’argomento trattato, mai unificati da una progettualità solida e duratura, dove è addirittura promosso un fluviale scambio di opinioni imperative, sembrano quasi far gola ai ragionieri di Stato.
Questa mentalità, questo modo di concepire le dinamiche sociali, ha potuto prendere piede, essere ben accolta dalla popolazione in quanto una determinata fetta di essa l’ha introiettata sino a farla diventare una ragion d’essere e trasformarla in buon senso comune. In discorsività giornaliera. Non si parla della maggioranza delle persone o dei lavoratori, ma di coloro i quali appartengono a una specifica categoria di salariati in grado di partecipare attivamente, con convinzione, alla disintegrazione dei meccanismi di unità e di partecipazione politica della classe lavoratrice, determinando una tendenza culturale che è diventata con il tempo di massa.
Si tratta di quel mondo salariato o della piccola iniziativa privata nel campo creativo o informatico erede di quel campo impiegatizio borghese un tempo racchiuso nella categoria dei quadri. Quindi di un inquadramento impiegatizio molto sensibile alle sirene del prestigio e della professionalità in un clima collaborativo con i ceti dirigenziali e padronali. Questa classe sociale ha subito come le altre i processi di precarizzazione del lavoro e di smantellamento delle attività produttive ma contemporaneamente ha assimilato le parole d’ordine della nuova idea di progresso incentrata sulla libera iniziativa privata e sulle dinamiche concorrenziali, e, soprattutto, ha accolto con feroce entusiasmo le ricadute antropologiche di questo sistema.
La visione di un essere umano slegato da condizionamenti sociali, aperto alla mobilità, disarcionato da obblighi morali e comunitari, in una dimensione individuale del riscatto, attratto dall’apertura della Rete come nuova frontiera da conquistare, ha perfezionato l’edificazione di una mentalità da un lato allettata dalla capacità terapeutica o evolutiva del capitale ma dall’altro compiaciuta dalla credenza di una perpetua civilizzazione progressista dell’individuo. Attratta dalla definizione del merito come fattore di disciplina della Giustizia. Il popolo è unito nella sfera della competizione ma le conseguenze di diseguaglianza del processo sono da addebitare alle responsabilità personali.
Un ceto sfruttato e inchiodato a condizioni di lavoro precarie e vessatorie ma convinto di poter aspirare allo status imprenditoriale, di creatore del proprio destino, più che a detentore di diritti da poter rivendicare nel conflitto politico. Inorgoglito della propria scolarizzazione, ormai mitizzata a criterio distintivo per la legittimazione all’esercizio dei diritti politici. La diffusione del lavoro immateriale ha esasperato questa tendenza, soprattutto se concettualmente legato alla natura creativa del soggetto o alla infinitezza della Rete. Questa categoria di lavoratori ha ritenuto essenziale dimostrarsi adattabile ai requisiti richiesti per l’impiegabilità che coincidono con una predisposizione personale alla sfida, all’interlocuzione docile e dalla mente aperta, alla sottomissione fatalista ma proficua, all’acculturazione sbrigativa e accomodante ma sempre soporifera.
Essenziale dimostrare un temperamento propositivo, mai accomunabile a quei soggetti storici burocratizzati in classi predeterminate e spontaneamente indirizzate alla lotta o perché posizionate nel gradino più basso della società, quella operaia, o perché alienate dai meccanismi ripetitivi e impersonali del lavoro routinario. Questo gruppo sociale ha rifiutato aprioristicamente una dimensione collettiva di organizzazione perché refrattaria nel prendere realmente coscienza della propria condizione di subordinazione, equivalente a una sconfitta soggettiva. Con l’abitudine quindi di immaginare soluzioni individuali a questioni sociali o al massimo di rifugiarsi in terapie di cura farmacologica o di allegria mondana spruzzante raffinatezza conformista.
Ma non si tratta di un semplice rifugio nella piccineria piccolo borghese o bottegaia di un tempo, bensì di un’adesione complessiva allo stile di vita, alla forma mentis, al costume delle classi privilegiate, alle quali si riconoscono spirito d’iniziativa o genericamente qualità non comuni. Ma mai intenti predatori, inclinazioni parassitarie o tendenze speculative e allo sfruttamento. Questa categoria di persone non è mai stata maggioritaria nella società ma sin dai primi anni ’80 del secolo scorso ha definito tendenze culturali, modalità di pensiero e comportamentali che hanno condizionato ideologicamente l’intera popolazione.
Mattarella – e con lui tutta la tecnocrazia neoliberale – quando fa riferimento alla coesione sociale, all’unità del popolo, ripete meccanicamente una lezioncina educativa indirizzata a quei determinati soggetti, ormai rinchiusi nell’angusta visuale denominata società civile, che oggi, dopo anni di crisi, quando il fallimento dell’individualismo di mercato appare perentorio, sa di allucinazione o di poca dimestichezza con la realtà. Pensa di addomesticare la popolazione con la consueta buona novella sulle spiccate capacità liberatorie del mercato. Ma dall’affiorare inesorabile delle contraddizioni sociali innescate nelle stanze dei bottoni del Potere, quel ceto così entusiasta delle magnifiche sorti e progressive della società aperta non riesce a vincolare più di tanto le coscienze.
Certo ancora la nostra società è pressoché spoliticizzata, le tensioni si rappresentano in modo inorganico, non riescono ancora a concepire una via di durata, un’alternativa intrigante che scalfisca la presunta assennatezza di regime, ma il mondo del lavoro sta pian piano riprendendo coscienza della propria centralità democratica. La vulnerabilità sociale e personale torna prepotente a definire l’attesa per il futuro.
Mattarella ignora appositamente questa novità, già emersa alle scorse elezioni politiche e lascia alle sue spalle un Paese devastato per precise colpe politiche, per scelte sconsiderate e irragionevoli, per l’adesione acritica a un’ideologia irrazionale e schiacciante per gli esseri umani e in aperta contraddizione con lo spirito e i dettami della nostra Costituzione Repubblicana. Per questo ha bisogno di enunciazioni di principio che contraddicono il senso di verità e ha bisogno di chiudere definitivamente la prassi e la formalità democratica lasciando il posto a chi si è reso responsabile dell’istituzionalizzazione delle cabine di regia, del pilota automatico, delle raccomandazioni sovranazionali. Quindi a una troika fatta in casa, direttamente insediata – stavolta in prima persona – al vertice delle istituzioni.