Quando si reca alle urne meno della metà della popolazione attiva vuol dire che l’intero sistema istituzionale è delegittimato. Significa insomma che determinati interessi – nello specifico quelli delle classi popolari o subalterne – non vengono rappresentati politicamente. Ma fu questo uno dei compiti specifici che si diede la Seconda Repubblica. Disarticolare i meccanismi partecipativi della democrazia sostanziale immiserendo progressivamente i partiti politici di massa, i sindacati e tutti i corpi intermedi, all’interno dei quali la popolazione definiva l’indirizzo politico dello Stato. Le elezioni quindi, attraverso i partiti di massa, riconfiguravano un tempo il conflitto sociale attraverso la dialettica istituzionale, dentro e fuori dal Parlamento.
Con la rivoluzione neo-liberale i partiti si sono trasformati in club privati verticistici che danno luogo a una rappresentazione posticcia e artificiale del dibattito. In realtà sono accomunati da un’unica visione ideologica messa al servizio di interessi omogenei e unidirezionali protetti dal Capo dello Stato e dalle strutture sovranazionali che delimitano i confini di ciò che può valutarsi come “democratico” o “civile” e setacciano i soggetti aventi diritto di parola. Per questo le classi popolari negano legittimazione a un impianto tanto chiuso da vantarsi di essere totalitario o oligarchico. Rifiutano l’idea dello Stato/Imprenditore e lo screditano attraverso l’astensione che non è più sovrapponibile – come un tempo avveniva – a un atteggiamento personale qualunquista. Si configura oggi come scelta politica di critica e di coscienza.
Seguendo queste premesse il lavoro politico degli ambienti radicali con un orizzonte socialista deve innanzitutto muoversi su uno spazio extra-parlamentare. Solo dopo aver compiuto un lavoro culturale tendente a sovvertire quel “buon senso comune” e l’egemonia dell’ideologia d’impresa si potranno creare le condizioni per la formazione di un blocco sociale e politico che punti però alla conquista del potere e non alla partecipazione a un gioco elettorale viziato nelle sue fondamenta. Nella situazione sociale contemporanea chi ha introiettato il modello d’impresa, chi si percepisce un consumatore portatore di diritti vota, si schiera tra destra e sinistra e accoglie le offerte di marketing liberali, chi lo soffre si astiene. Condannare la visione progressista sulla governabilità e rifiutare la logica maggioritaria o degli sbarramenti sarebbe un primo passo.
Il sostegno alle lotte dei lavoratori che subiscono l’andamento del totalitarismo dei mercati dovrà essere accompagnato, senza puzza sotto al naso, all’analisi e al dialogo ragionato con le rivolte squisitamente populiste ancora molto radicate nei paesi a capitalismo avanzato. Per esempio non guardare al movimentismo contrario al Green Pass con sufficienza, come se si trattasse esclusivamente di reazioni anarco-individualiste che caratterizzarono le prime proteste anti chiusura dei primi mesi di pandemia. Il Green Pass così come è stato concepito tocca da vicino il mondo del lavoro – la presenza nelle lotte dei portuali lo dimostra – e in un sol colpo mette in discussione diritti e principi costituzionali come quello della sanità universale che poco hanno a che vedere con il semplice richiamo soggettivista alla “libertà”. Seppur quest’ultimo ancora presente.
Ma anche in questo caso si cade in un errore teorico. Si dice infatti che il Green Pass rappresenti un ritorno dello Stato e solo per questo a una riaffermazione di principi collettivisti. Peccato però che il neo-liberismo non ha mai teorizzato l’assenza dello Stato. Anzi si caratterizza per una mastodontica attività statale denominata infatti dagli stessi liberali “interventista”. Per creare condizioni di mercato il neo-liberismo pretende una minuziosa attività legislativa a corredo della costituzionalizzazione della concorrenza. Dato che il mercato non è più considerato un elemento naturale della vita umana ma una creazione artificiale, questo deve essere salvaguardato da uno Stato forte, presente, talmente invasivo da concepire la genesi di un “uomo nuovo” perfettamente inglobato nella dimensione d’impresa, che si fa impresa. Il neo-liberismo non è solo una teoria economica, ma un’ideologia assolutista e pedagogica.
Quindi l’azione del Governo neo-liberale non seguirà mai una direzione sociale ma porrà sempre le basi per un’appropriazione privata degli spazi pubblici. Questa direzione univoca crea ancora oggi quelle fratture sociali eterogenee che caratterizzano il populismo politico. Ma è proprio il mondo del lavoro, attraverso la radicalizzazione del conflitto con il capitale, che avrebbe il compito di mettersi alla testa anche delle rivolte più intimamente populiste. L’astensione dimostra che il terreno della democrazia non è più coperto dal momento elettorale ma si espande nei percorsi indecifrabili della lotta. Lotta che è di classe, senza che questa ne abbia coscienza. Lotta priva o quasi di partiti, di sindacati o di movimenti di massa e organizzati. Priva di mezzi di comunicazione e di credibilità accademica. Riconosciuta nelle analisi culturali ma oscurata nei dibattiti politici convenzionali.