Nel corso del 2020 ho dedicato alla questione Covid-19 tre brevi riflessioni scritte (due delle quali pubblicate sul Quaderno di Risorgimento Socialista), oltre a quelle contenute nel romanzo breve La peste su in montagna, uscito un anno fa a settembre. Non nego che la mia “incredulità” mi abbia tirato addosso qualche critica anche di compagni meritevoli della massima stima (alcuni di loro poi si sono ricreduti), ma tengo a precisare che gli argomenti da me affrontati erano la gestione dell’emergenza, i contenuti delle misure governative e il ruolo della stampa più che la malattia in quanto tale – il che è anche logico, visto che non sono un medico né un biologo.
Oggi, a un anno e mezzo dall’esplosione dell’epidemia in Italia (e in trepidante attesa della quarta ondata, preannunciata in Slovenia per metà ottobre), mi permetto di tornare sul tema per tirare un primissimo e provvisorio bilancio.
Chiunque rilegga le mie pagine vecchie di un anno non potrà non riconoscere che giammai ho dubitato dell’esistenza del virus e del pericolo che portava con sé: non è la peste nera, ma neppure un’influenza stagionale hard, anche se la sua caratteristica più inquietante sembra essere la persistenza, l’ostinata “volontà” di non abbandonare il campo dopo una stagione o al massimo due. Questo aspetto, piuttosto che la capacità di mutare, lo differenzia – in negativo – dagli agenti patogeni che provocarono la devastante epidemia di febbre spagnola e, decenni più tardi, quella asiatica. L’estrema difficoltà a liberarsene potrebbe essere un indizio dell’origine non naturale del Covid – tesi, quest’ultima, che procurava fino a pochi mesi orsono la taccia di complottista, ma che ora viene sostenuta da autorevoli ricercatori. Di laboratori segreti e armi biologiche si parla in fondo da decenni: che una possa sfuggire al controllo (errare humanum est, anche se gli effetti possono essere diabolici…) rientra nell’ordine delle cose. Oltre non intendo spingermi per mancanza di informazioni, anche se una fuoriuscita dolosa non apparterrebbe alla dimensione dell’inverosimile. Molti obietteranno che il pianificatore di un attacco biologico su larga scala avrebbe optato per un virus più micidiale, roba da filmone hollywoodiano, ma io non sono d’accordo: il diffondersi rapidissimo di una malattia invariabilmente letale avrebbe gettato nel panico e nell’isteria i governi, scatenando contro i sospetti aggressori reazioni da fine del mondo (della serie: muoia Sansone con tutti i filistei!), mentre un solido “mediano” come il Covid-19, oltre a dare inizialmente meno nell’occhio, ha il pregio, si fa per dire, di logorare eventuali Paesi-obiettivo, minando il morale di popolazioni impreparate, sottoposte a uno stress sfibrante e a tempo indeterminato. In ultima analisi, tuttavia, appare ozioso interrogarsi se il colpevole del contagio sia un ratto con le ali, uno scienziato pasticcione o uno stratega senza scrupoli: a contare davvero è la fondata previsione che con il Covid avremo a che fare ancora a lungo, forse per anni. Per poter immaginare il prossimo futuro è necessario considerare il modo in cui la crisi è stata affrontata sin dal suo affacciarsi sulla scena italiana ed europea.
L’assoluta e spiacevole novità offertaci dal 2020 è stata il confinamento domestico, ribattezzato lockdown in ossequio all’imperante moda anglofila (che è chiaro sintomo di subalternità culturale e non solo). Si è scelto di imitare la Repubblica Popolare, anche se la severità del modello, applicabile soltanto in una società gerarchica e disciplinata come quella cinese, è stata opportunamente mitigata – non troppo però, visto che le misure adottate in Italia appaiono più rigorose di quelle imposte nella generalità delle c.d. democrazie occidentali e persino nell’esecratissima Russia di Putin. Mettiamo da parte le polemiche sulla sostenibilità giuridica (altri hanno convincentemente approfondito la tematica) e sull’assenza di pianificazione, problema comune, come si è visto, all’intero Occidente: la nostra civiltà è molto più pressapochista di come la dipingano i film, dove c’è sempre qualcuno con la soluzione in tasca, e gli stessi virologi poi assurti a star televisive minimizzavano a gennaio 2020 i rischi e l’allarme. Di fronte a un sia pur (astrattamente) prevedibile imprevisto il lockdown ci poteva anche stare, a patto di ritenerlo e presentarlo come un rimedio temporaneo, una soluzione-tampone. Di solito le epidemie cessano in estate: le chiusure servivano a rallentarne la diffusione in attesa – si sperava – che l questione si risolvesse da sé. Badate bene: rallentare e non bloccare, poiché il virus avrebbe continuato a circolare – e l’ha fatto – nel chiuso degli ambienti domestici, buona parte dei quali angusti e sovraffollati, nei supermarket rimasti forzatamente aperti, nelle fabbriche “impossibilitate” a interrompere la produzione. Anche al di là della retorica sui balconi canterini la popolazione italiana ha reagito con inaspettata compostezza, adeguandosi docilmente alle nuove norme, ma alla lunga fiducia e consenso sono inevitabilmente scemati anche perché i governanti hanno affrontato con insufficiente energia il problema strutturale che è concausa dell’emergenza – cioè il progressivo e interessato indebolimento della sanità pubblica, ormai a malapena in grado di far fronte all’ordinario – e anziché promuovere la ricerca di cure ad hoc (ad es. l’utilizzo del plasma e il ricorso alle monoclonali) hanno puntato tutto sui vaccini di produzione nordamericana. Non do specifiche colpe al Conte bis, visto che l’attuale governo-trojka sta facendo ben di peggio, ma sottolineo che il confinamento è stato un’occasione persa, e che riproporlo oggi – acquisita la consapevolezza che il virus non ha alcuna intenzione di togliere il disturbo – sarebbe una decisione scellerata prima ancora che stupida. Aggiungo che ciò che appariva giustificabile nell’immediato (vale a dire a febbraio-marzo) lo era molto di meno nei mesi successivi, e qui vengo alla questione di certe misure assurde che definirei emulative. Dopo mesi di sopportazione sullo sfondo di una primavera ridente e soleggiata i primi allentamenti ci regalarono, se ben ricordate, la concessione di passeggiare nelle immediate vicinanze di casa (furono ideate delle App per calcolare le distanze ammesse…), ma i parchi pubblici non recintati rimasero off limits. Che si tratti di un divieto idiota è del tutto evidente a qualsiasi normodotato, in primis perché una prolungata permanenza fra le mura domestiche mina il benessere fisico e psicologico, in secondo luogo perché una camminata solitaria nel verde è quanto di più salutare ci sia, non espone a rischi (a meno di non incontrare un orso, sano o ammalato poco cambia) e riduce la possibilità di “assembramenti” nelle vie centrali e periferiche. Niente da fare: ancora lo scorso autunno c’erano comandanti di polizia locale che suggerivano ai sindaci di chiudere boschi e giardini… iniziativa insensata, ma che mette al riparo da possibili responsabilità. Attenzione, questo è solo un macroscopico esempio di “demenza normativa”: se ne potrebbero riscontrare innumerevoli altri, fra cui l’ipotizzato obbligo di Green pass per gli esami universitari… a distanza (effettivamente pure i pc possono essere infettati dai virus…) e l’obbligo di esibire il salvacondotto nelle mense aziendali (non però quando si timbra il cartellino all’ingresso in fabbrica!) e sulle Frecce bianche, rosse o argento – in cui il distanziamento è garantito e rispettato – ma non sui treni regionali, nei cui vagoni i passeggeri si accalcano come nel 2019. Dietro queste ridicole previsioni – mi chiedevo e seguito a chiedermi – c’è solo stupidità burocratica o si annida qualcosa di peggio? Se voglio assuefare all’obbedienza cieca un gruppo umano – che si tratti di un plotone o di un popolo intero è indifferente – non ricorrerò a precetti condivisibili e conformi al buon senso, ma piuttosto a ordini stravaganti, incomprensibili… cui però tocca obbedire sotto minaccia di una punizione. Ecco, l’ipotesi che il Covid-19, trattato dapprincipio come una grave emergenza, si sia poi convertito in opportunità per taluni non mi pare così campata in aria, e il modus operandi di media e reggitori (cioè della politica e delle forze economiche che la ispirano) rafforza i sospetti. Ma come?, controbatte il cittadino informato (da Repubblica&co), starai mica insinuando che tutti i regimi del globo, compresi quelli ostili al “mondo libero”, si siano messi d’accordo per fregarci e toglierci la libertà? Non lo insinuo perché non lo penso affatto, anche se in Europa sono le multinazionali a impartire gli ordini a tutti: semplicemente a nessun governo, sia esso nero, rosso o grigio, dispiace aver sotto di sé una popolazione impaurita, divisa e cedevole perché educata a obbedir tacendo.
Veniamo allora al ruolo dei media ufficiali, che in questa crisi è stato ed è determinante. Se nelle c.d. democrature (e nelle tirannidi dichiarate, tipo gli alleati mediorientali degli Stati Uniti) i mezzi di informazione sono nelle mani del potere statale, nelle autoproclamate democrazie liberali essi appartengono alle lobby economico-finanziarie che dettano la linea a Parlamenti ed esecutivi. Da noi sin dall’irrompere dell’epidemia giornali e tivù si sono specializzati nella fabbricazione dei capri espiatori, dei (falsi) colpevoli da additare all’esecrazione delle masse spaurite. La logica è sempre quella del divide et impera, a beneficio di chi comanda davvero. Li rammentate i primi poveri untorelli? Io benissimo: erano i podisti in solitaria della primavera del ’20, sinistramente definiti runner (il pensiero va ai replicanti di un noto film distopico). Sobillato e ammaestrato da certo “giornalismo” – che andrebbe chiamato col suo nome: propaganda – il popolino iniziò ad accanirsi sui reprobi, linciandoli sui social e augurando loro le peggiori disgrazie. Non rappresentavano una minaccia per nessuno? Poco importa: suggestionare individui destrutturati, prendere il controllo delle loro menti è un gioco da ragazzi per gli esperti di marketing – che si tratti di vendere il superfluo o di costruire un nemico di comodo. Dopo i corridori a essere condannati senza appello furono turisti e diciottenni: i primi per il crimine di aver viaggiato (attività lecita, venuto meno il lockdown), i secondi per quello di ballare nuovamente in discoteche che qualcuno nel frattempo aveva riaperto. E’ sempre lo stesso schema, che oggi viene riproposto a reti unificate ai danni dei presunti no vax. Esistono in Italia dei fanatici che si oppongono per principio alle vaccinazioni, ritenendole veicolo di chissà cosa, e magari alla medicina moderna tout court, ma si tratta di infime minoranze, meno numerose ad esempio dei vegani che, in quanto nicchia di mercato, vengono invece vezzeggiati. Alla categoria no vax i media hanno però già ascritto d’ufficio tutti coloro che si azzardano a nutrire dubbi sulle politiche sanitarie in atto e, non confondendo le fiabe con la realtà, stentano fortemente a credere che le decisioni superiori vengano tutte prese “per il nostro bene” da una classe politica che non si è fatta scrupolo, negli ultimi lustri, di azzerare pro bono dominorum le conquiste sociali del Trentennio glorioso. Il sottoscritto, che si è vaccinato (per quieto vivere, come la maggioranza dei connazionali) e ha in portafoglio il Green pass, un pezzo di carta provvisto di misteriosi poteri magici, è inseribile in base a questa narrazione nell’insieme no vax, che qualche giornale poi “promuove” a vivaio di terroristi. Un singolo squilibrato sferra un cazzotto a un reporter? Ecco la prova che questa gente è pericolosa e va combattuta, punita: tutta in blocco, anche le mamme inoffensive che protestano per astrusi obblighi imposti ai figli, gli anziani recalcitranti alla puntura che borbottano fra loro, i liberi pensatori che osano domandarsi se non ci sia sproporzione fra “rimedi” e minaccia. Per essere ostracizzati è oggi sufficiente esprimere qualche perplessità sulle virtù salvifiche dei vaccini made in USA, malgrado quella che viene pubblicizzata come “l’unica arma a nostra disposizione” non abbia risolto un bel nulla e la stessa comunicazione abbia più volte contraddetto se stessa. Al principio ci era stato assicurato che per raggiungere l’agognata “immunità di gregge” sarebbe bastato vaccinare gli anziani e i fragili, visto che a soccombere erano soltanto costoro – e che in ogni caso i giovani non risentivano degli effetti del coronavirus. Oggi, conseguita una percentuale di immunizzati pari all’80% – l’ha annunciato il generalissimo Figliuolo – si parla di introdurre un obbligo generalizzato e di estenderlo anche ai bimbi in tenera età… ma come, se in caso di infezioni non presentavano sintomi? No, perché adesso c’è la variante Delta (cui seguiranno la Epsilon, la Zeta ecc.) che, a quanto ci raccontano, riempie le terapie intensive di giovanissimi! Sarà vero? Siamo chiamati a fidarci, naturalmente… sponte a gratis per tuti, mentre il tampone resta a pagamento e, pur in assenza di un obbligo normativo, i lavoratori dubbiosi vengono sospesi. Fatto sta che negli ospedali continuano a essere ricoverati (e a morire) anche soggetti vaccinati… e che il numero di casi giornalieri supera enormemente quelli che si registravano un anno fa in estate. E allora, ‘sti benedetti vaccini americani? Forse sarebbe onesto dire forte e chiaro che non costituiscono una corazza (quasi) impenetrabile, potendo al più essere paragonati al caschetto che protegge il ciclista se batte debolmente la testa sul selciato. Qualcuno a denti stretti lo ammette, ma comunque… There is no alternative! E non solo non c’è alternativa ai vaccini come medicamento, ma gli unici accessibili sono quelli immessi sul mercato – a prezzi elevati e crescenti – dalle multinazionali a stelle e strisce, mentre per quelli russi, cinesi, cubani (e persino per quello anglo-svedese, assai meno costoso) non c’è posto. Stiamo parlando di sanità o di mercato e geopolitica? Non azzardo risposte, anche se mi è parso di capire che i soggetti privati che hanno tratto maggior beneficio dalla pandemia siano le imprese farmaceutiche e Amazon, che se non sbaglio appartengono al Gotha del finanzcapitalismo mondiale…
Sono osservazioni banalissime le mie, ma nel conformismo indotto e dilagante assumono quasi un carattere eversivo; avevo pronosticato, d’altra parte, che la crisi avrebbe generato non una “rivoluzione” bensì impotenti jacquerie – che, genuine o meno, costituiscono sempre un’eccellente scusa per imprimere un giro di vite autoritario – e avrebbe condotto a un ulteriore smottamento in senso individualista della società.
Ah, dimenticavo: nell’incipit non ho citato un racconto scritto lo scorso Natale e ambientato a Trieste, ma nell’anno sesto dell’era Covid. Mi auguro che sia una profezia sballata e che, come proclamano gli ingenui, “andrà tutto bene”.
Fonte foto: Openpolis (da Google)