Angelo Del Boca[1] è stato un uomo e uno storico di raro spessore etico, poiché non si è limitato a ricerche in linea con il politicamente corretto delle Accademie, ha vissuto la ricerca storica come un valore civile. Ha dimostrato che l’emancipazione di un popolo avviene mediante la trasformazione degli eventi storici in esperienze di consapevolezza collettiva. La storia dev’essere vissuta e studiata nella sua verità per poter essere l’anticorpo culturale per evitare crimini ed errori del passato. La sua vita è stata dedicata alle guerre coloniali del fascismo, alla dimostrazione documentata dei suoi crimini, grazie alle sue ricerche nel febbraio del 1996 il ministro della Difesa del governo Dini, generale Domenico Corcione, ammise fornendo i documenti, che le armi chimiche sono state usate dagli italiani persino nella battaglia decisiva di Mai Ceu (1936) nella guerra di Etiopia. Le armi chimiche furono usate a dispregio della Convenzione di Ginevra del 1925 che ne vietava l’uso. Angelo Del Boca rompendo il silenzio generalizzato sui crimini di guerra ha dimostrato che nei campi di concentramento in Libia su 120000 prigionieri ne sono sopravvissuti solo 40000. Gli italiani durante la lunga conquista della Libia iniziata nel 1911 e proseguita durante il fascismo hanno assunto comportamenti e strategie di sterminio simili a quelle tedesche. L’episodio della strage di Debra Libanòs (1937) è sintomatico dell’azione di sterminio degli italiani: a seguito dell’attentato al viceré Graziani si colse l’occasione per eliminare la classe dirigente etiope e l’opposizione della chiesa copta. La strage come l’azione colonizzatrice è stata ignorata dalla storiografia italiana, che ha alimentato il pregiudizio positivo secondo cui “gli italiani sono brava gente”:
“Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un minimo di 1400 a un massimo di 30.000, a seconda delle fonti. Le migliaia di italiani che hanno partecipato alla strage di tanti innocenti, che nulla avevano a che fare con l’attentato, non hanno mai pagato per i loro delitti. Non sono mai stati inquisiti. Non hanno fatto un solo giorno di prigione. Dopo l’estenuante mattanza, sono tornati alle loro case e alle loro caserme, come se nulla fosse accaduto. Chi aveva famiglia in città ha continuato, senza problemi, senza sentimenti di colpa, a gestire i propri affari, ad accarezzare i figli, a fare all’amore, come se in quei tre giorni di sangue il suo forsennato impegno nell’uccidere fosse stata la cosa più naturale, più ammirevole. Questo di Addis Abeba, per quanto gravissimo, non è che uno dei tanti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltà. In genere le stragi sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanatici, non addestrati alle liquidazioni in massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione o perché persuasi di essere nel giusto eliminando “barbari” o “subumani”. Non rari, fra gli ufficiali, quelli che si sono vantati degli atti di ferocia compiuti e che si sono dilungati nel fornire macabri particolari. Per esempio, sul come trasformare in torcia umana un partigiano catturato in Slovenia. Erano sufficienti, assicuravano, un palo o un albero al quale legare il prigioniero, un fiasco di benzina e un cerino[2]”.
Storia ed ideologia
Angelo Del Boca ha ricostruito il quadro storico della conquista coloniale, fuori da conformismi e stereotipi. In assoluta solitudine, nell’ostilità generalizzata e nel timore di essere oggetto di aggressioni, come ha dichiarato in alcune interviste. Ha avuto il coraggio della verità con cui ha dato dignità alle vittime e nel contempo ha rispettato il senso della ricerca storica, la quale è finalizzata a favorire i processi di liberazione da stereotipi, semplicismi e falsa coscienza collettiva. Non a caso nel 2014 l’Università di Addis Abeba gli ha conferito la laurea onorifica in Storia africana, unico europeo ad aver ricevuto tale privilegio, ad Angelo Del Boca è stato, così, riconosciuto di essere uno storico non al servizio della sola nazione, ma di tutta l’umanità. La storia non la si può ridurre a semplici “bastoncini”, a porzioni ideologiche per la cattiva percezione collettiva dei popoli, ma va ricostruita nella sua integrità trascendendo posizioni ideologiche utili ai poteri che in tal modo possono perpetuare nelle logiche di conquista e disprezzo dei popoli[1]:
“Il mancato dibattito sul colonialismo e la persistente lettura in chiave apologetica delle imprese africane non soltanto hanno consentito che fossero mandati assolti tutti i maggiori responsabili dei genocidi africani, ma hanno anche notevolmente influito sulla politica elaborata nei confronti delle ex colonie, che si caratterizza per rozzezza, improvvisazione, inadempienze e ritardi. L’Italia ha perso una grande occasione. Poteva ritornare in Africa per riparare con generosità i suoi torti e per svolgervi, con le capacità che nessuno le disconosce, una proficua collaborazione. Invece ha dilapidato ingenti capitali, ha puntellato abiette dittature, ha costruito cattedrali nel deserto, ha aggiunto, alle vecchie, nuove ingiustizie, e non ha neppure finito di onorare i suoi debiti, come testimoniano il contenzioso con la Libia e la mancata restituzione dell’obelisco di Axum”.
La domanda storica
La rimozione dei crimini e la riduzione della storia a presenza scenica nel curriculo scolastico è l’espressione più concreta dell’atteggiamento ideologico vigente: il mercato e le logiche acquisitive possono perpetuare la loro azione nel solco dell’ignoranza con annessa falsa coscienza. Non a caso uno dei testi più rilevanti dello storico ha nel titolo una domanda: ltaliani brava gente?
La domanda in sé, già muove al dubbio, irrompe nell’immaginario collettivo, il testo risponde alla domanda non per accusare, ma per capire, se l’autopercezione che il popolo ha coltivato è reale o se è stata indotta mediante un’operazione di rimozione ideologica. La storia è porre domande, è ricerca finalizzata a verificare se i miti con cui i popoli costruiscono la loro identità sono reali o posticci. Decostruire non un’operazione di distruzione, ma di costruzione critica collettiva, senza la quale la storia non può che ripetersi automaticamente con le sue tragedie.
Le missioni di pace italiane hanno il loro consenso nell’immagine positiva di un popolo che si giudica diverso dagli altri popoli bellicosi e colonizzatori. Angelo Del Boca con le sue ricerche ci insegna che gli italiani sono stati colonizzatori e conquistatori eguali alle altre nazioni, e ciò dovrebbe indurci a dubitare delle “missioni di pace”. Non a caso nelle missioni di pace gli italiani hanno commesso crimini esattamente come le altre potenze[2]:
“Per finire, a confermare l’infondatezza di una presunta ‘diversità’ dei nostri reparti in armi, nella primavera del 1997 esplodeva in Italia lo scandalo delle torture praticate in Somalia da alcuni soldati della missione Ibis. Dopo alcuni pietosi tentativi, da parte dei militari, di depistare le indagini, di negare o di minimizzare gli episodi di violenza, il governo Prodi era costretto a nominare alcune commissioni d ’inchiesta, le cui prime conclusioni confermano l’attendibilità di alcuni fra i più gravi episodi denunciati”.
Senza storia non vi è umanesimo e specialmente non vi è futuro, la storia è l’identità di un popolo, ma ogni identità non è semplice trasmissione cadaverica di un patrimonio culturale, ma attività archeologica di concettualizzazione/verbalizzazione delle tragedie e degli errori che accompagnano ogni esperienza umana per progettare un futuro in continuità e discontinuità con il passato. Senza responsabilità etica verso la memoria storica non resta che un presente ed un futuro consegnato alla cecità collettiva. Angelo Del Boca credeva nel popolo italiano nella sua capacità di elaborare lutti e vicende storiche per poter disegnare un futuro più umano[1]:
“Questo modello di italiano, un chiaro prodotto del consumismo, dell’ignoranza e dell’egoismo, non è certo, anche se è l’ultimo, il modello immaginato da Massimo d’Azeglio e dagli altri padri della patria. Ma, per nostra fortuna, si tratta di un modello ancora in gestazione (benché alcuni esemplari siano già in circolazione) e si può ancora bloccarlo. Perché il paese, nonostante i suoi guai e le tare vecchie e nuove che siamo venuti elencando in queste pagine, è molto migliore di quanto non appaia. È ancora capace di grandi rifiuti, di immense mobilitazioni, di scelte coraggiose. Noi siamo persuasi che un giorno, forse neppure lontano, quando cesseranno del tutto le rimozioni e le false revisioni; quando non ci saranno più carte da nascondere in qualche “armadio della vergogna” e tramonterà la leggenda del «fascismo buono» e del confino di polizia gabellato da Mussolini come un luogo di villeggiatura; allora si potrà finalmente seppellire anche il falso mito degli «italiani brava gente», che ha coperto e assolto troppe infamie”.
La ricerca storica non è stata per lo storico novarese attività accademica, ma è stata impegno politico alla crescita comunitaria nazionale e globale.
[1] Angelo Del Boca (Novara, 23 maggio 1925 – Torino, 6 luglio 2021)
[2] Angelo del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore Vicenza, 2005 pag. 7
[3] Angelo Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze in Italia contemporanea, settembre 1998, n. 212
[4] Ibidem
[5] Angelo del Boca, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore Vicenza, 2005 pag. 143