Le manifestazioni di protesta avvenute in questi giorni a Cuba – ingigantite ad arte dai media occidentali – sono del tutto fisiologiche. Era il minimo che poteva succedere dopo un anno e mezzo di lockdown che ha messo in ginocchio l’economia cubana, costretta a rinunciare a quella che è la sua risorsa principale: il turismo.
Scusate se è poco per un paese che di suo è in grado di produrre ed esportare solo zucchero, noci di cocco, tabacco, ananas, banane e forse qualche altro tipico prodotto ortofrutticolo locale. E’ del tutto evidente che per un paese costantemente e sistematicamente sotto stress dal punto di vista economico e commerciale a causa dell’embargo, tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul piano sociale.
Non mi pare, inoltre, che sia successo nulla di particolarmente grave che non sia quello che succede anche in tanti altri paesi del mondo occidentale dove spesso la repressione dei movimenti di piazza è stata molto più dura.
Naturalmente, è sufficiente che qualche migliaio di persone esasperate scendano in piazza (e per come la vedo io, hanno tutto il diritto di farlo, sia chiaro) per montare una campagna mediatica in base alla quale sarebbe in corso una rivoluzione popolare finalizzata ad abbattere il regime socialista (naturalmente una dittatura comunista, per la vulgata mediatica) cubano.
Intanto cominciamo col dire che Cuba ha vissuto altri momenti molto difficili, in primis subito dopo il crollo dell’URSS – il famoso “periodo special” – quando il paese si è ritrovato praticamente isolato dal momento che era venuto a mancare quella che era la sua area di riferimento, quella all’interno della quale era inserita anche e soprattutto dal punto di vista economico e commerciale (petrolio e sostegno tecnico-industriale in cambio di prodotti agricoli). Ovvio che anche in quel periodo si verificarono manifestazioni di piazza e anche dei disordini come è naturale che sia.
Dopo di che l’isola è riuscita a risorgere grazie ad una serie di riforme economiche che consentono un certo margine di economia privata (affitto di appartamenti, apertura di ristoranti, taxi, servizi ai turisti, e varie altre attività private), apertura di grandi catene alberghiere straniere dove vengono occupati molti cittadini e cittadine cubane, e anche la cooperazione economica con la Cina, il Venezuela (petrolio in cambio di medici) e in misura minore anche la Russia.
Ora, è del tutto ovvio che la chiusura pressochè totale dell’isola dovuta alla crisi pandemica non poteva non creare, dopo un anno e mezzo, forti disagi alla popolazione.
Naturalmente c’è sempre chi specula per delle difficoltà oggettive e approfitta per cercare di destabilizzare un paese che, da un punto vista ideologico e simbolico, rappresenta una spina nel fianco degli USA. E lo dimostra il fatto che un embargo anacronistico (oltre che criminale) e privo di una ragione concreta che non sia ideologica e simbolica (Cuba non rappresenta certo una minaccia, per nessuno, da un punto di vista militare) continui ad essere pervicacemente protratto. E proprio questo ci dice quanto possa essere pericolosa per il gigante imperialista americano l’esistenza di un piccolo e indipendente paese socialista, pur con tutte le sue contraddizioni (chi non ne ha…) che il sottoscritto non intende certo negare.
Sono stato più volte a Cuba ed è un paese che conosco un pochino. Molta di quella gente, in larghissima parte giovani e giovanissimi, che sono scesi in piazza, non ha a mio parere una percezione corretta della realtà. Molti di essi sono imbevuti del “sogno americano” che sta lì a poche miglia. Nella loto testa c’è la convinzione che il mondo occidentale sia una sorta di Bengodi, di paese dei balocchi, e pensano che rovesciare lo stato socialista li catapulti automaticamente in una sorta di paradiso capitalista dove tutti spendono e spandono, consumano e godono, e sono liberi di fare quello che gli pare dalla mattina alla sera.
Ma la realtà vera è ben altra. Se lo stato socialista fosse rovesciato, Cuba diventerebbe un “pais bananero” come tanti altri di quell’area, destinato ad un graduale quanto rapido processo di sottosviluppo e allo smantellamento di uno dei sistemi di welfare più avanzati al mondo (in relazione alle condizioni oggettive e al contesto di quel paese), precipitato al rango di un qualsiasi piccolo paese dell’area caraibica, ignobilmente sfruttato dalle multinazionali e da un capitalismo predatorio, con conseguenti diseguaglianze sociali inimmaginabili per noi occidentali.
Dal momento però che conosco un pochino quel paese anche se vi manco da molto tempo, mi pare di poter dire che la maggioranza dei cubani sia al corrente di questo e che riuscirà, dunque, a tenere duro ancora una volta.
A Cuba, il regime socialista non è stato imposto con i carri armati o in seguito ad una spartizione fra superpotenze ma da una rivoluzione popolare autentica che ha visto il consenso, diretto o indiretto, della grande maggioranza dei cubani. E questo fa la differenza, se me lo consentite. Certo, le cose sono cambiate molto da allora, come è normale che sia, ma nonostante ciò non credo che la maggioranza dei cubani si lasci incantare dalle sirene che provengono da Miami e da Washington.