Nonostante la sua presunta e pretesa modernità il capitalismo sta sempre più mostrando la sua obsolescenza.
E’ evidente che lo sviluppo scientifico e tecnologico tende a ridurre sempre più la quantità di manodopera necessaria alla produzione di beni e servizi. E’ quindi altrettanto evidente che si debba procedere verso una ridistribuzione e una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro contestualmente ad un processo di formazione e di crescita delle competenze e delle professionalità di ciascuno in tutti gli ambiti, in modo da occupare tutti in base alle proprie professionalità e capacità. Nello stesso tempo la “liberazione” di rilevanti quote di tempo dalla produzione favorirebbe la crescita di attività culturali e ricreative e l’impiego sempre più crescente di persone in questo ambito.
E invece si sceglie lucidamente di andare dalla parte opposta, come in fondo è sempre stato. Il lavoro stabile tende ad essere sempre più prerogativa di una minoranza di “specializzati” (in alcuni casi anch’essi sfruttati) in presenza di una massa sempre più ampia di lavoratori precari, precarizzati, sottoccupati e spesso dequalificati, questi ultimi soprattutto – come è inevitabile – tra le fasce più deboli della società. E questo perché il profitto (di pochi) e non la piena occupazione (di tutti) è la stella polare del capitalismo. Lo era nel XIX secolo e continua ad esserlo nel XXI.
Nel momento della sua massima espansione, il capitalismo sta in realtà mostrando le sue strutturali contraddizioni e la necessità storica del suo superamento in direzione di una società che abbia al suo centro l’essere umano e non il profitto. In altre parole, una società Socialista.
Fonte foto: Blog di Pociopocio – Altervista (da Google)