Tutti i luoghi comuni dei nostri tempi che vengono ripetuti sino allo sfinimento, quelli che racchiudono i valori del merito, dell’efficienza, della creatività, sono plasticamente rappresentati dalla proposta di una Superlega organizzata e finanziata dai club più ricchi.
D’altronde è proprio il sistema della concorrenza nei mercati che presuppone la diseguaglianza. Nella competizione ci saranno vincitori e vinti, ma quest’ultimi meriteranno le conseguenze della sconfitta che porteranno all’invisibilità. I ricchi conducono questa guerra ideologica da qualche decennio con particolare aggressività. Nessuna norma può ostacolare l’unico valore dotato di credibilità. Il loro massimo profitto.
Nessuna struttura comunitaria può imporre regole limitanti all’espansione delle possibilità di profitto. Né lo Stato né alcuna organizzazione collettiva. Tutti sono soggetti privati e tutti concorrono con armi diseguali. Qualsiasi tentativo di minare i saldi principi di mercato sarà cassato da qualche apposito arbitrato internazionale.
Eppure queste strutture alcuni mezzi per far valere le proprie ragioni li avrebbero. Nello specifico radiare le società che si macchiano di contravvenire qualsiasi principio sportivo, revocare tutti i titoli conquistati sul campo, impedire ai giocatori loro affiliati di rappresentare le nazionali di appartenenza.
Ma questo non avverrà. Già da tempo le leghe calcistiche sono meri strumenti a disposizione dei ricchi. I quali creano regole, stabiliscono calendari, formano un mercato a uso e consumo dei propri interessi.
Un tempo il campionato di calcio – soprattutto quello italiano – permetteva a compagini “minori” di costruire pian piano, con lungimiranza, squadre che entravano nell’immaginario collettivo. Ogni decennio presentava nuove realtà che si facevano mito. Tra gli anni ’50 e ’60 Bologna e Fiorentina, nei ’70 Cagliari, Lazio e Torino, negli ’80 Roma, Napoli, Hellas, Sampdoria. Ognuna di queste squadre sarà ricordata per sempre. Ma non solo le realtà vincenti. Il mito ha toccato i secondi posti di Perugia e Lanerossi, la zona della Ternana, il Mantova “piccolo Brasile”, il Genoa del Professore. E così via.
Con l’avvento dei monopoli televisivi privati, questa “democrazia sportiva” che era l’essenza del calcio è scomparsa. Deve vincere a tutti i costi chi porta profitti, chi ha più consumatori. Chi insomma è legittimato a imporre con arroganza la forza di una meritata ricchezza.
Fonte foto: Areanapoli.it (da Google)