«E senza dubbio il nostro tempo…preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà. l’apparenza all’essere…Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro si ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusione è anche per esso il colmo del sacro.»
Ho appreso ‘summo cum gaudio’ che la bolsa kermesse carnevalesca del Festival di Sanremo sta registrando un crollo della ‘audience’ televisiva. Il fenomeno tuttavia non sorprende se si considera il periodo di pandemia che stiamo attraversando e le relative conseguenze psico-sociali che tale fenomeno genera. Semmai vi sarebbe da sorprendersi che un paese il quale è avvezzo ad applaudire i morti durante le funzioni funebri non abbia riservato a questo annuale appuntamento canoro una reazione più festosa, ma “la Signora della porta accanto”, quella con cui c’è poco da scherzare, imponendo uno stile di vita penitenziale privo di qualsiasi ‘libido’, ha scoraggiato comportamenti poco appropriati alla congiuntura in corso.
Sennonché, considerando l’infimo livello a cui è progressivamente discesa la televisione dei ‘pessimi maestri’, ponendosi integralmente al servizio dei padroni e rendendosi responsabile del reato di circonvenzione delle nuove e delle vecchie generazioni, ciò che sorprende è che la scelta di defluire dal sistema televisivo non abbia assunto un carattere più massiccio. In un certo senso, mi sorprendono perfino coloro che narrano di trasmissioni televisive, lamentandosi della scurrile bassezza, del banale chiacchiericcio e del pacchiano bailamme che le contraddistingue, come se, in un territorio abitato da uno dei “popoli più volgari e condizionati del mondo” (lapidario epifonema pronunciato da Moretti nel film “Caro diario”), la televisione potesse mostrare e riflettere qualcosa di diverso. Appartengono, purtroppo, ad un’età ‘preistorica’ esperienze conoscitive, emotive e morali di straordinaria intensità, come, da una parte, la visione del “Mulino del Po”, dei “Giacobini”, dei “Miserabili”, di “Pinocchio”, dei “Promessi Sposi”, e, dall’altra, le “Tribune elettorali” con Pintor, Ferrara (padre), Togliatti, Nenni, Moro, Almirante, o anche la “Canzonissima” di Fo e della Rame, che contribuirono, mercé una gestione etica e pedagogica e, a volte, anche positivamente anticonformistica del mezzo televisivo, a formare la sensibilità e l’intelligenza della mia generazione. Certo, lo so bene: allora la tivvù era lo specchio di un’altra società, che, ad esempio, Nanni Loi descriveva con una finezza, un’ironia e un garbo senza pari nella trasmissione “Specchio segreto” (basta fare un confronto con le sguaiate imitazioni oggi in voga). Allora la tivvù rendeva migliori le persone che la guardavano, perché la società stessa, negli anni del ‘boom’ economico, del conflitto redistributivo, della massificazione controllata dall’alto e guidata dal basso (ad opera dei partiti, dei sindacati, delle associazioni, della intellettualità), esprimeva pulsioni e tensioni progressive.
Raccolgo qualche notizia sui palinsesti televisivi, navigando in Internet; quando mi càpita di seguire una trasmissione televisiva, provo la sensazione che immagino possa provare un cieco, il quale, recuperata fortunosamente la vista, si trovi ad osservare uno spettacolo così orripilante da indurlo a desiderare il ritorno più rapido possibile alla cecità.
Oggi la tivvù rende migliori i peggiori e peggiori i migliori: essa è da fuggire (e da rifuggire) come la lebbra mentale e morale, che una società malata, criminogena e patogena fin nelle sue intime fibre, secerne, produce e riproduce su scala sempre più vasta. Infatti, anche le trasmissioni ‘migliori’ (quelle affidate alla falsa sinistra che imperversa all’insegna del finto pluralismo e del vero cinismo, mercé il generoso contributo dello Stato borghese, in alcune reti ben note) servono colpevolmente ad avallare e a legittimare la massa infetta e contagiosa delle trasmissioni peggiori.
Per quanto mi riguarda, non ho il minimo dubbio sul fatto che per un uomo dotato di senno trascorrere una serata guardando la tivvù è sinònimo di bancarotta intellettuale e morale. Apprezzo quello statista tedesco (il socialdemocratico Schmidt, se non ricordo male), che diversi anni or sono invitò i suoi concittadini ad astenersi almeno un giorno (se non erro, il venerdì) dal guardare la tivvù, anche se sono convinto che, allo stadio attuale cui è pervenuta la ‘società dello spettacolo’, quella proposta, per quanto giusta, risulta oggi timida e insufficiente.
Solo un radicale luddismo antitelevisivo potrebbe oggi preservare il nostro popolo e i nostri giovani da guasti morali irreparabili, da degenerazioni antropologiche irreversibili, da un istupidimento psichico truce, isterico e compulsivo: caratteri i quali, sommandosi gli uni agli altri, non solo alimentano la SIG (sindrome da imbecillità generalizzata), ma contribuiscono a fare del popolo italiano “un popolo triste e depresso”, come ebbe ad osservare un quotidiano europeo con quell’ottica estraniante e non pregiudicata che rende lo sguardo degli stranieri così lucido e inconfutabile.
“Il primo principio della morale è imparare a ragionare”, afferma giustamente Pascal: la più grande risorsa cognitiva della nostra epoca è alla portata di tutti e di ciascuno, la pandemìa della teleinfezione si può ancora fermare, basta premere il bottone e spegnere il televisore. Solo così il popolo dei teledipendenti, dopo aver distolto lo sguardo dal volto di Medusa della televisione e averlo rivolto finalmente all’intorno, scoprirà, prendendo in mano un libro, sfogliando un giornale, fissando il niveo profilo del Monte Rosa, la vastità del mare, la linea ondulata delle colline, il viso dei propri figli, lo svolo dei pettirossi nell’intrico dei rami di un abete, che, una volta liberati da quelle invisibili catene, vi è tutto un mondo perduto da riguadagnare. Anche nei tempi calamitosi in cui ci è dato vivere.
Note