Patrizio Bianchi è il nuovo ministro della pubblica istruzione, in realtà si dovrebbe dire solo ministro dell’istruzione, in quanto l’aggettivo sostanziale “pubblica” è ormai messo al bando. Il pubblico è gestito con modalità private, la scuola pubblica è azienda dell’offerta formativa, e pertanto il termine “pubblico” decade necessariamente, inoltre il ministro rappresenta la scuola pubblica come la privata ormai equipollenti. In queste ore la conoscenza del ministro avviene attraverso le interviste rilasciate e rintracciabili su you tube, oppure attraverso i testi pubblicati dallo stesso ministro. Da professore che come tanti ha cercato di far sopravvivere la scuola alla sua chiusura non posso restare indifferente dinanzi alle affermazioni del ministro, secondo cui la DAD non ha conseguito i risultati sperati, il ministro era nel gruppo di lavoro del ministro Azzolina, in quanto i docenti hanno riprodotto con la DAD lo stesso stile educativo e didattico che avevano in classe. I docenti, dunque, non sono adeguati alle nuove tecnologico, il cui uso corretto non può che esigere una didattica flessibile e smart. I nuovi ambienti di apprendimento devono liberarsi della rigidità tradizionale per organizzare gruppi di lavoro (lo si fa da decenni, non in modo integrale) che lascino spazio alle nuove generazioni, le quali devono costruire autonomamente le loro competenze.
Il mondo del lavoro desidera un altro tipo di scuola, in cui gli alunni si preparino a rispondere alle esigenze del mercato e del territorio. per cui va rilanciata l’autonomia scolastica, in modo che la scuola sia funzionale al tessuto economico in cui è inserita. La visione della scuola curvata sul lavoro è superata dalle stesse tecnologie che divorano l’occupazione, per cui necessitiamo di personalità solide nei valori e nei contenuti per affrontare il lavoro che sarà sempre più merce rara.
La lezione frontale, dunque, è un residuo della pedagogia ottocentesca ormai da mettere in soffitta. Le nuove generazioni in un mondo flessibile senza comunità e famiglia, invece, necessitano della lezione frontale con cui imparare a colloquiare, a interagire e ad ascoltare. La lezione frontale nell’immaginario stereotipato ed ideologico di taluni è pensata come un esercizio di autorità senza dialettica, se si entra in una classe sarebbero sorpresi nel constatare come l’ascolto è proficuamente interrotto dall’attività pensante corale, mediante la quale reciprocamente ci si conosce, mentre la flessibilità oraria ed ambientale produce solo solitudine didattica. La classe che il ministro desidera superare, esattamente come i precedenti ministri, è una comunità di cui i giovani hanno bisogno, perché sono soli, spesso sono figli unici di famiglie problematiche, ed imparano a vivere un bisogno umano profondo come l’appartenenza nella classe, che, non a caso, è ciò che agli alunni manca maggiormente, in tempi di DAD. Il ministro afferma la necessità di puntare sulle tecnologie, per non essere vittima delle stesse, per cui bisogna utilizzare le loro potenzialità. Naturalmente omette che per non essere vittima delle tecnologie bisogna conoscere, in primis, il capitalismo dell’informazione e le multinazionali che ne incentivano l’uso per controllare e trasformare ogni alunno in servitore e consumatore. La vera necessità degli alunni, qualora ci si preoccupi della loro formazione umana, è il linguaggio e il potenziamento delle capacità critiche. Si constata normalmente la povertà lessicale, la quale è indicativa della povertà del pensiero e delle emozioni sostituiti con tecnologie e con l’inglese commerciale. Il ministro afferma che la scuola non dev’essere luogo di insegnamento, ma di apprendimento: un’intera classe docente è delegittimata, perché i docenti insegnano ad alunni che non imparano. Se gli alunni non imparano, la motivazione è il tempo scuola eroso da una pluralità di attività che destabilizzano il tempo dell’apprendimento, e il cui fine non è la formazione, ma l’abitudine al comportamento flessibile fine a se stesso, perché lo vuole il mercato. Naturalmente se lo scopo della formazione, al di là delle belle parole, è il mercato, inevitabilmente si devono riformare le discipline e puntare sui contenuti minimi e sulla socialità. Non a caso il ministro afferma che bisogna puntare sulla musica e sullo sport come mezzi per socializzare, in quanto la scuola deve insegnare la socializzazione. Pare, dunque, che la scuola non insegni a socializzare, ancora una volta si attaccano i docenti con i loro metodi barbosi. Musica, arte e sport sono il nuovo perno della scuola minima e tecnologica, che deve consolidare la socializzazione in continuità con la società dello spettacolo in cui navighiamo e che produce narcisi molto organici al sistema. Le nuove generazioni necessitano di pensiero teoretico ed astratto per imparare a capire un mondo complesso che li ingloba attraverso le tecnologie che stanno intaccando la loro creatività.
Bisognerebbe pensare il senso dell’uso delle tecnologie in didattica per tracciarne limiti, possibilità e senso. Il nuovo per il nuovo è uno slogan del più decadente modernismo, si dovrebbe partire dall’attuale contesto, dall’atomistica delle solitudini tecnologiche per rifondare una scuola che metta al centro l’alunno e la sua formazione globale, anziché il mercato che minacciosamente incombe sulla formazione umana e professionale delle nuove generazioni. La domanda fondamentale è stata dimenticata, e ci dovremmo chiedere cosa vogliamo lasciare alle nuove generazioni: un cumulo di mezzi tecnologici o dei paradigmi culturali densi di contenuti, che danneggiano solo chi non li possiede, ma tale domanda in tempi segnati dall’economicismo fa fatica ad emergere e a diventare il “perno” della scuola.
Fonte foto: Today (da Google)