Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Nel 2017 il centenario della Rivoluzione d’ottobre – a mio avviso – era stato celebrato sotto tono
Molto meno di quanto meritasse un tale evento. Epocale, quasi unico, fondamentale per la Storia umana, o almeno per gli oppressi e sfruttati. Indipendentemente dagli sviluppi successivi, in buona parte deludenti.
Chi oggi critica e condanna il comunismo sovietico (anche se dopo il 1921 di autenticamente “sovietico” ne rimaneva poco) finge di non sapere quali fossero le reali condizioni in cui versavano le classi subalterne sotto il regime zarista e quale prezzo stessero pagando nelle trincee della Prima guerra mondiale (notoriamente “i soldati russi votarono con i tacchi”, quello che i nostri proletari non riuscirono a fare compiutamente a Caporetto, purtroppo).
Ma tra le varie facce e sfaccettature della Rivoluzione d’ottobre non andrebbe dimenticata la componente libertaria, anarchica.
Invece nelle pubblicazioni, nei convegni e nelle iniziative tanto mainstream quanto “antagoniste” tenute in occasione dei cento anni della Rivoluzione russa, (1917-2017) quasi mai veniva dato il giusto risalto all’anarchismo, una delle componenti significative, almeno inizialmente…
Trascurando – si ritiene intenzionalmente – il fatto incontestabile che, all’interno del movimento operaio, l’anarchismo aveva sviluppato in tempi non sospetti una critica pratica e teorica ai (prevedibili?) risvolti autoritari della Rivoluzione russa,del suo “farsi Stato”. D’altra parte è innegabile che – così come i musei – anche gli anniversari sono un’invenzione delle classi dominanti.
Come si diceva sbrigativamente ai vecchi tempi: “l’unico modo per celebrare una rivoluzione è farne un’altra”.
Ma, anche senza arrivare a tanto, andrebbe comunque ricordata – nel suoi centesimo anniversario appunto – quella rivolta del 1921 che a Kronstadt tentò di innescare “la terza rivoluzione “(concetto tornato d’attualità con gli scritti di Bookchin e quelli di Ocalan, oltre naturalmente che con l’esperienza curda del Confederalismo democratico).
A loro, agli anarchici, possiamo forse rinfacciare una gran dose di ingenuità, una sorta di “predisposizione naturale” alla sconfitta (ripensando a come si son fatti massacrare dal braccio armato di burocrati, funzionari e commissari politici).
Ricordo una scritta apparsa sui muri nel secolo scorso in occasione del centenario della Comune di Parigi e del cinquantenario di quella di Kronstadt.
1871: LA COMUNE – 1921: KRONSTADT – 1971: … ?
Ma arrivati ormai anche al centenario di Kronstadt, si deve – per quanto amaramente – constatare che restiamo sempre in lista d’attesa…
Certo, i tempi sono cambiati. Così come la composizione sociale, l’immaginario collettivo, i rapporti di forza etc.
Rimane intatta, se non la speranza, almeno la nostalgia.
Per alimentarla ulteriormente ho recuperato due miei interventi, rispettivamente del 1990 e del 1991. Su Kronstadt appunto.
Oggi come oggi sarei più comprensivo verso i compagni leninisti, soprattutto con quelli che nel frattempo non hanno rinnegato. Meno comprensivo invece verso gli “autonomi” le cui posizioni su Kronstadt (ma anche sui fatti di Barcellona del maggio ’37) all’epoca non si differenziavano granché da quelle del PCI. Ma a quei tempi era (ed ero) così…
Oggi come oggi ritengo che di fronte a quello che accadde a Kronstadt e in Ucraina (vedi Nestor Makno), così come in Catalunya e Aragona nel 1937 andrebbe riconosciuto da tutti (anarchici, comunisti libertari, consiliari, bordighisti e anche leninisti…) che fu comunque una tragedia, una guerra fratricida tra compagni. E magari trarne le dovute conclusioni per il futuro.
Al riguardo vorrei riproporre due miei vecchi articoli. Curiosamente (“sincronicità”?) nel primo paventavo – ma solo ironicamente – la possibilità che qualche “seguace di Flores d’Arcais” recuperasse in chiave “revisionista” e socialdemocratica l’esperienza consiliare di Kronstadt (in realtà c’era già stato qualche piccolo precedente, un accenno in tal senso in un editoriale di Scalfari). La cosa incredibile fu che qualche tempo dopo su “la Repubblica” uscì effettivamente un intervento del Flores d’Arcais in cui – contrapponendo la componente libertaria a quella autoritaria – cercava sostanzialmente di portare acqua al mulino del riformismo borghese (o almeno così io l’avevo interpretato).
E la cosa richiese un mio secondo intervento.
Li ripropongo entrambi così come erano, senza modifiche o revisioni.
Considerateli – se non proprio un documento – almeno una testimonianza. Sofferta.
Tutti a Kronstadt!
(Gianni Sartori, ottobre 1990)
Non sarebbe una cattiva idea quella di cominciare a pensarci seriamente. Prima che Gorbaciov “riabiliti” anche quelli di Kronstadt e dell’Ucraina o magari se ne impadroniscano indebitamente i neo socialdemocratici della “Cosa” aggiungendo al danno le beffe e dio sa cos’altro. Da certa gente c’è da aspettarsi di tutto. Ricordiamoci che sono maestri insuperabili nel falsificare e manipolare. Con le loro facce di bronzo hanno sostenuto per anni che Nestor Makno era un bandito, i ciennetisti dei provocatori e la rivolta operaia-consiliare di Budapest una controrivoluzione… Capacissimi di venirci a raccontare che quelli della Risoluzione di Petropavlovsk, in fondo in fondo, erano dei seguaci di Flores d’Arcais e/o di Fassino. Del resto tra i ranghi del PCI c’è gente che fino all’altro ieri difendeva a spada tratta il socialismo da caserma; che fino a ieri tesseva le lodi di quell’Ercoli che tanto si era “prodigato” per strappare qualche dissenziente dalle grinfie di Stalin; per non parlare del sostegno fornito da alcuni esponenti comunisti (pace all’anima loro) a regimi totalitari come quello del boia Menghistu. Ora, sempre dagli stessi ranghi, qualcuno pontifica che non si è mai visto sul pianeta un comunismo democratico. Sfido. Quello libertario di Ucraina, Catalunya, Aragona ecc. lo hanno abolito per decreto ed estirpato manu militari. A suggello dichiarano che non può esserci libertà senza capitalismo. Dal che sembra di intuire che hanno introiettato fino in fondo l’ideologia borghese per cui anche la libertà non è altro che una merce; un tanto al chilo, per chi può permettersela. Potrebbero anche aver ragione, forse. Ma solo se Kronstadt fosse un mito, una favola bella che i proletari si tramandano per autoconsolarsi. Ma KRONSTADT è stata. Alla faccia di tutti i capitalisti, burocrati e ideologi è stata. Settanta anni fa e non nell’età dell’oro. Come la “repubblica su tachanki” dei Machnovisti o la lunga estate di autoemancipazione proletaria che traversò la penisola iberica per tutta la prima metà del secolo (non solo nel ’36-’37). Questi fatti incredibili sono accaduti (ed è questa la cosa più incredibile). Il “problema” resta insolubile per tutti gli storici di regime di ogni regime. Gli eventi di Kronstadt urlano ancora che la “mutazione culturale” era avvenuta; non nel cervello o nei libri di qualche intellettuale situazionista ma nella mente, nel cuore e nella vita di quei proletari che alzarono (idealmente almeno) le bandiere rosse e nere. Per non dover essere né servi né padroni. Mai più. Illuminando per il tempo di un attimo il cupo orizzonte della storia umana. Kronstadt porta il segno di una contraddizione irrisolta e irrisolvibile fintanto che ci si aggira nella palude delle ideologie mercantili e spettacolari. Kronstadt è quel gesto collettivo di rivolta che non potrà mai essere integrato, riciclato, addomesticato dal potere; soltanto represso, rimosso, cancellato. Perché è oltre il potere. Nella storia in rivolta contro la storia; un sogno che non si è istituzionalizzato, che non si è “fatto Stato”: ma che è stato, semplicemente. Non l’ennesimo tentativo di prendere il potere ma la messa in pratica del sano e radicale proposito di estinguerlo. La storia è abbastanza nota. Riepiloghiamo per i più giovani o smemorati. Nel 1921 i marinai di Kronstadt nel Golfo di Finlandia, presso Pietroburgo, si ribellarono armi alla mano al governo “sovietico” (virgolette, mi raccomando) e alla commissariocrazia. Quella che venne chiamata la “Seconda Comune” fu molto di più che una pura e semplice “rivolta della fame” (come vorrebbero insinuare certi “revisionisti”) e riuscì a sopravvivere per sedici giorni. Pochi, almeno apparentemente. Ma ci sono giorni nella storia della lotta di classe che contano millenni. La resistenza venne stroncata, soffocata nel sangue per mano dell’Armata Rossa su ordine di Lenin e Trotzki. Seguirono persecuzioni, arresti, torture, fucilazioni in tutto il paese, particolarmente ai danni degli anarchici. Kronstadt comunque non “appartiene” solo a loro. Appartiene a tutti i diseredati, perseguitati, oppressi e sfruttati; a tutti quelli che sanno o cominciano a intuire che “non basta cambiare padrone per essere liberi” (vale tanto per chi si è illuso sulle proprietà salvifiche del marxismo-leninismo ortodosso come per chi si illude sulla bontà intrinseca della coppia democrazia-mercato). Kronstadt è il punto di non ritorno a cui tornare e da cui ripartire per ogni discorso di autoemancipazione proletaria. E allora, in questo ormai prossimo settantesimo, riprendiamoci Kronstadt; la nostra Kronstadt libertaria, sovversiva, rivoluzionaria e – ca va sans dire – anche sovietica. (n.d.r. in questo caso sovietico va senza virgolette). Kronstadt è stata l’esempio vivente di un’autentica democrazia consiliare. L’ultimo forse prima che l’apparato burocratico-militare esautorasse di ogni reale autonomia i consigli; mantenendo peraltro inalterata la formale definizione di “sovietico”. Un caso evidente di appropriazione indebita. Kronstadt resta la faccia pulita della Rivoluzione russa, quella che non volle imboccare la “scorciatoia” del totalitarismo, senza per questo cadere nella trappola della socialdemocrazia. Rilancio quindi la mia “modesta proposta”. Ritroviamoci a Kronstadt vecchi e nuovi compagni. Per qualcuno sarà un modo di rivendicare quel che siamo stati. Per altri più giovani potrebbe essere un’occasione per riprendere discorsi rimasti in sospeso. Il sogno resta aperto. E contagioso. L’anno prossimo.
A KRONSTADT.
Gianni Sartori (ottobre 1990)
Giù le mani da Kronstad
Gianni Sartori (ottobre 1991)
Davvero non sospettavo di avere doti divinatorie! Scrivendo “Tutti a Kronstadt” (“A” n. 176, pag. 41, ottobre 1990) mi ero riferito ai burocrati del PCI, allora “Cosa” ora PDS, con queste parole: “Capacissimi di venire a raccontare che quelli della Risoluzione di Petropavlovsk, in fondo in fondo, erano dei seguaci di Flores d’Arcais e/o di Fassino”. Non l’avessi mai fatto! Lo sciagurato mi ha preso in parola. Quello che per me era solo un divertente paradosso è diventato realtà. Leggendo tra le righe dell’articolo “Addio a Togliatti” (la Repubblica del 3/9/’91) di Paolo Flores d’Arcais (da ora PFdA) si dovrebbe probabilmente dedurre che a Kronstadt insorsero contro il comunismo, comunque inteso, in nome della libertà d’impresa e del lavoro salariato (ossia del capitalismo, senza di cui – ci insegnano i nuovi adepti pidiessini – non può esserci libertà). Ora non credo che le cose stiano esattamente così. All’elaborazione della Risoluzione di Petropavlovsk parteciparono attivamente radicali di diversa estrazione: socialisti rivoluzionari, menscevichi, anarchici, senza partito e anche militanti comunisti di base, con buona pace di PfdA. Al punto undici, il più “intriso” di velleità capitaliste, dichiarava: “Di conferire ai contadini piena libertà d’azione per ciò che riguarda la terra, e anche il diritto di tenere delle mucche, a condizione che se la cavino con i propri mezzi, senza cioè impiegare manodopera esterna”. Un po’ pochino, veramente. Più che ai programmi pidiessini mi pare si richiami al classico (e sovversivo) “né servi, né padroni”. Non credo sarebbero piaciuti a Boris Eltsin così come non vennero compresi nemmeno da Vladimir Ilich Ulianov. Inoltre si rivendicava la libertà per i sindacati operai, libertà per i prigionieri politici “incarcerati perché coinvolti nel movimento operaio e contadino”. Al punto due: “Di concedere agli operai e ai contadini, agli anarchici e ai partiti della sinistra socialista piena libertà di stampa e di parola”. E così via. Nessun accenno alla restaurazione del lavoro salariato, nessuna difesa dell’ordine borghese di quei “democratici” patriottardi che avrebbero voluto mantenere operai e contadini russi nelle trincee a crepare nella guerra imperialista. Nessun ritorno alla prima rivoluzione ma un segnale per la terza… Contro vecchi e nuovi padroni. Ma torniamo al pezzo di PFdA. Considero indecente quel riferimento a Camillo Berneri e Andres (non Andras, caso mai Andreu, in catalano) Nin definiti “dirigenti dell’antifascismo non comunista”. Ma stiamo scherzando? Camillo Berneri bastava chiamarlo per quel che era, anarchico. Anarchici erano anche buona parte di quelli di Kronstadt ma anche in questo caso l’autore evita elegantemente di dirlo, volendo forse lasciare intendere che erano dei bravi occhettiani antelitteram. Quanto poi a Nin, definirlo “dirigente dell’antifascismo non comunista” è pura ignoranza prodotta da malafede. Possibile che un intellettuale di professione non sia al corrente del fatto che Andres Nin era fondatore e dirigente del POUM (Partito Obrero de Unificacion Marxista) e come tale venne perseguitato e assassinato dagli stalinisti, con il benestare dei loro alleati borghesi? Nin era un comunista antistalinista (con una militanza giovanile nella CNT) che voleva la Rivoluzione Sociale. I suoi assassini erano miliziani del PSUC, braccio armato per la repressione interna, funzionali alla borghesia repubblicana nell’opporsi alle collettivizzazioni operate dagli anarco-sindacalisti. In questo caso chi era più comunista? Non diceva forse il PSUC di difendere i diritti dei proprietari? Quello che in ogni caso difendeva era un modello statuale, autoritario e borghese di organizzazione sociale. Proprio come i socialdemocratici alla PFdA. Dietro entrambi c’è lo stesso retroterra gerarchico e statalista. Quello che mancava assolutamente ai marinai di Kronstadt, alla CNT, ai Maknovisti… Qui passa la differenza tra noi e loro. Si chiamino PSUC o PDS. Teniamo poi presente che comunque chi voleva coltivarsi da solo la terra dopo la redistribuzione era libero di farlo. Purché non usasse lavoro esterno (v. in Aragona). Contro il capitalismo e il lavoro salariato quindi, senza per questo passare al socialismo da caserma. Vale qui la pena di ricordare anche che il comunista Nin era amico fraterno, oltre che di Victor Serge, di Jaime Balius, anarchico catalano che accusava la CNT di essere troppo accondiscendente nei confronti del governo; animatore di quel gruppo libertario denominatosi “Amici di Durruti”, fautore di una radicalizzazione in senso sociale-rivoluzionario della lotta antifranchista. Tra l’altro idearono lo slogan “Potere Operaio”. Espressione con cui si rivendicava – più che la canonica dittatura del proletariato – il diritto per i proletari delle fabbriche barcellonesi di armarsi, eventualmente anche contro le autorità repubblicane e le milizie staliniste, per difendere le conquiste rivoluzionarie. Era l’auto-organizzazione armata dei proletari. Cosa assai diversa dalla militarizzazione voluta dagli stalinisti e dalla riduzione dei gruppi operai di combattimento a milizia -o polizia – di partito. Evidentemente PFdA ignora o finge di ignorare che il Massacro di Barcellona del maggio ’37 (in cui tra l’altro persero la vita Berneri e Nin), scatenato dagli stalinisti contro anarchici e poumisti, derivava dal fatto che questi si rifiutavano di riconsegnare le armi, di sottomettersi alla logica borghese e militarista che andava affermandosi nel fronte repubblicano. In questo lo stalinismo era complice dei partiti borghesi dello schieramento repubblicano. Nella Catalogna degli anni trenta, anarchici e comunisti libertari erano, per quanto a volte in modo confuso, espressione dell’autonomia di classe del proletariato che si autodeterminava attraverso i consigli e la “libertà armata” (ossia la libertà e capacità di armarsi autonomamente) mentre gli stalinisti erano organici al governo della borghesia repubblicana. Basti ricordare che razza di giornale pubblicava il nostro Camillo Berneri: nientemeno che “Guerra di classe” roba da far inorridire i funzionari del PDS, a cui ormai anche solo l’espressione “lotta di classe” procura orticaria, malesseri e vertigini. Perché poi, a ben guardare, è soprattutto questo il problema: cancellare dal lessico ogni riferimento alla lotta di classe. Dopo essersi prodigati per anni ad annacquare, svuotare, disinnescare ogni accenno di lotte spontanee, operando come vere quinte colonne del capitalismo infiltrate nel movimento proletario, ora sembrano volerle affossarle definitivamente, cancellarne anche solo il ricordo (sperando naturalmente che poi i padroni, grati, li chiamino al governo). Qui in realtà si vuole seppellire la memoria storica dei proletari, espropriarli definitivamente di ogni loro autonomia e identità, riscrivere la storia delle classi subalterne in funzione della restaurazione capitalista. Così come in passato la riscrissero in funzione dell’ideologia e del partito. Kronstadt, l’Ucraina di Nestor Makno, la Barcellona di Buenaventura Durruti e Francisco Ascaso ci insegnano che le “battaglie di libertà” non sono monopolio borghese; che la Rivoluzione Sociale ha ben saputo produrre i suoi anticorpi libertari contro la riproduzione del potere in seno al movimento antagonista. Quei proletari seppero realizzare, anche se per poco, una democrazia reale e compiuta, quella dei consigli, di fronte a cui quella formale di cui va paludato il capitalismo appare come una caricatura. Perché non c’è libertà finché c’è fame, oppressione, sfruttamento…
E di tutto questo è intriso il nuovo ordine mondiale con cui d’Arcais e “compagni” dichiarano di voler pacificamente (e proficuamente, suppongo) convivere. Sostiene il PFdA che “quando un partito cambia politica, devono cambiare anche gli episodi e i personaggi assunti a simbolo di riferimento”. Ossia, in questo caso, sostituire nell’immaginario collettivo del popolo pidiessino la presa del Palazzo d’Inverno con la rivolta di Kronstadt, il ritratto di Lenin con quello di Berneri… in nome del capitalismo democratico. Ma il discorso non regge quando simboli e personaggi vengono stravolti e strumentalizzati da chi, ad ogni buon conto, oggi come ieri si schiera col nemico di classe. Sarebbe aggiungere al danno le beffe nei confronti degli anarchici. Prima massacrati dai bolscevichi, poi derisi e infangati dai loro epigoni nostrani e infine riesumati e strumentalizzati da quelli che, sostanzialmente, rimangono gli stessi. Nonostante gli auspici di PfdA, Kronstadt e Berneri non potranno mai far parte della tradizione del PCI-PDS. Per almeno due buone ragioni. Innanzitutto perché il PCI era stato in qualche modo l’equivalente nostrano del PSUC (Vidali ne sapeva qualcosa, credo…). E poi anche perché in parte già era – e nella versione PDS lo è ancor più compiutamente – una componente del variegato mondo borghese; sostanzialmente antiproletari per scelta e vocazione. La rivolta di Kronstadt, espressione di autonomia e coscienza proletaria, sta fatalmente “altrove”. Da che parte deve stare un democratico di sinistra chiede il “nostro”? Stia pure dove gli pare ma non cerchi di coinvolgere anarchici e libertari nelle sue scelte filo-capitaliste. Non piace per niente questa riabilitazione postuma – e non richiesta – del tutto strumentale. Oltretutto è probabile che per l’ex trotzkista PFdA sia dovuta a cattiva coscienza. Ma il rimedio è, se possibile, peggiore del male. Non molto tempo fa sullo stesso giornale di Scalfari l’ineffabile Viola, reduce da un viaggio nella “giovane democrazia spagnola” dava, suo malgrado, una conferma di quanto ho sostenuto sul ruolo di bassa macelleria in funzione antiproletaria cui spesso si sono prestati gli stalinisti per compiacere i loro alleati borghesi. Abituati a subappaltare ad altri i lavori più sporchi (la divisione del lavoro è una costante del capitalismo), nel ’37 a Barcellona, il 7 aprile del ’79, si parva licet, qui nel Veneto, i borghesi non mancano poi di rilasciare attestati di benemerenza ai loro subalterni. Parlando della Guerra Civile Spagnola, Viola accennava ai contrasti interni al movimento repubblicano. Dichiarava la sua sostanziale diffidenza e ostilità per gli “estremisti” della FAI-CNT (“oggettivamente antidemocratici”) e tutta la sua simpatia per quel comandante Lister, noto stalinista, che seppe “riportare l’ordine” in Aragona. In fondo in fondo, sembra dire, Lister era uno dei nostri. Naturalmente questo non vuol dire che Kronstadt, Berneri, ecc., siano patrimonio esclusivo degli anarchici. Ci mancherebbe. Possono legittimamente far riferimento a Kronstadt quanti lottano contro il potere, comunque inteso. Per coerenza e tradizione si sono richiamati ad essa gli anarco-comunisti, i piattaformisti, i consiliari, i situazionisti, i comontisti, qualche comunista libertario…e anche qualche autonomo (del resto in giro per l’Europa c’è un sacco di brava gente che dell’autonomia operaia dà una lettura libertaria; in Spagna, in Germania, all’est…). Possono richiamarsi ad essa oppressi e diseredati del pianeta, se credono. Ma, direi, non certi intellettuali di professione, ieri leninisti ortodossi oggi pidiessini. Non li riguarda. Sono molto più imparentati con l’altro grande affossatore dei consigli operai, quel social-democratico Noske, chiamato macellaio dagli operai berlinesi. Quello forse potrebbe rientrare a pieno diritto nella tradizione del PDS.
Giù le mani da Kronstadt.
Gianni Sartori (ottobre 1991)