Articolo su Repubblica di oggi interessante. Ho trovato istruttivo il riferimento al Concilio di trento e ve lo ripropongo.
Molto adeguato ai tempi è il movimento giurisprudenziale di cui si parla verso il “clean break” che renda possibile la vita a tutte e due le parti.
Sappiamo che fino a pochi anni fa la giurisprudenza, con l’intenzione, giusta di per sè, di proteggere la parte debole, che storicamente in Italia era prevalentemente femminile, aveva però ecceduto rendendo in molti casi, anche eclatanti, la vita impossibile alla parte maschile, non riconoscendo il cambiamento di situazione sociale. Così erano e sono nate proteste e anche un Movimento di difesa il cui personaggio più noto direi che è Fabrizio Marchi.
Le cose dette in questo articolo mi pare vadano nel senso auspicato da Fabrizio.
(Gabriele Pastrello)
Di seguito l’articolo a firma di Cesare Rimini
“Anathema sit! Tutto è partito da un anatema, una scomunica. La legge sul divorzio è entrata in vigore in Italia cinquant’anni fa, ma la storia del divorzio è iniziata molti secoli prima. Era la sera dell’11 novembre 1563 e, dopo una discussione molto animata durante il Concilio di Trento, fu approvato il celebre Tametsi, il testo sul matrimonio con cui la Chiesa cattolica reagiva alla riforma protestante. Venivano scomunicati tutti coloro che affermavano che il matrimonio potesse essere sciolto per la colpa di un coniuge.
Quattro secoli dopo, quella scomunica era ben presente ai colti e potenti giuristi democristiani che guidavano la discussione parlamentare sull’introduzione del divorzio in Italia. Poco dopo il ’68, dopo un intenso dibattito politico e sociale, fu raggiunto un compromesso fra le due anime della nostra gente: quella cattolica e quella laica. Nacque quindi in Italia un divorzio secondo un modello sconosciuto negli altri Stati occidentali: un divorzio non basato sulla colpa. I princìpi della controriforma venivano in qualche modo preservati. Il divorzio veniva ammesso, ma pronunciato dal giudice solo sulla base dell’accertamento di fatti tali da rendere intollerabile la convivenza, individuati dalla legge e non lasciati alla discrezionalità del tribunale. Fra questi presupposti del divorzio, l’unico applicato nella prassi quotidiana è il fatto che i coniugi abbiano vissuto separati per un certo tempo. In origine erano cinque anni (in alcuni casi addirittura sette), oggi sono sei mesi (se i coniugi si sono separati consensualmente) o un anno. Una cosa però non è cambiata: per ottenere il divorzio non c’è bisogno di dimostrare che l’altro coniuge ha tenuto un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio. È sufficiente pazientare il tempo della separazione.
Il divorzio senza colpa si sta oggi diffondendo in tutto l’Occidente. Possiamo quindi dire che la nostra legge è nata cinquant’anni fa modernissima. Una modernità forse inconsapevole. Eppure, quella stessa legge ha anche una faccia arcaica che la rende oggi inadeguata ad affrontare in modo equo le conseguenze economiche del divorzio. I rapporti patrimoniali fra gli ex coniugi sono infatti regolati esclusivamente tramite l’istituto dell’assegno divorzile. Il legislatore ha voluto che il vincolo di assistenza reciproca che caratterizza il matrimonio sopravviva al divorzio nella forma di un assegno mensile tendenzialmente vitalizio.
Una sorta di indissolubilità economica. Ma oggi non ha più alcun senso pensare che, dopo il divorzio, gli ex coniugi restino legati da un vincolo assistenziale tendenzialmente indissolubile. Negli altri Stati con i quali siamo soliti confrontarci, invece, da tempo i rapporti patrimoniali fra coniugi dopo il divorzio sono regolati con lo strumento del pagamento di una somma in un’unica soluzione determinata dal giudice solo allo scopo di compensare il coniuge più debole per ciò che ha fatto a favore della famiglia. Un clean break, come dicono gli inglesi, dopo il quale ciascuno va per la sua strada, vivendo la propria vita in modo indipendente dall’altro. Nel terzo millennio non è detto che sia la moglie a ricevere una compensazione: capita sempre più spesso che la «prestazione compensativa», laddove la legge la prevede, sia ricevuta dal marito che si è dedicato alla famiglia per permettere alla moglie di affermarsi nel mondo del lavoro. Prima o poi sarà così anche in Italia. Dopo cinquant’anni è arrivato il tempo di una riforma”.