La democrazia americana è un’aquila che ha due ali: entrambe destre.
Gore Vidal
Da decenni, sia di là che di qua dall’Oceano Atlantico, un malinteso realismo impone ai comunisti come una necessità ineludibile, in occasione delle elezioni, la scelta del “male minore”. Sorge allora spontanea, riguardo alle elezioni negli USA, la seguente domanda: in che modo un voto a favore di Biden può mutare i rapporti di forza tra le diverse e avverse frazioni della borghesia in un senso favorevole alla classe operaia e alle forze sinceramente democratiche? Da questa domanda ne consegue un’altra di carattere meramente retorico: che cosa hanno rappresentato, da un punto di vista di classe, gli otto anni dell’amministrazione del democratico Obama e del suo vice Biden, se non un massiccio trasferimento di ricchezza ai ceti capitalistici minacciati dalla crisi economico-finanziaria del 2008?
E il giudizio non cambia nemmeno se si prende in considerazione la mezza riforma sanitaria attuata da Obama con un lieve miglioramento dell’assistenza per molti cittadini, ma anche con l’enorme aumento del costo delle polizze sanitarie (in media del 24% ma con punte del 145%, per esempio in Arizona) e con l’ulteriore concentrazione monopolistica delle compagnie assicurative che tale riforma ha determinato. D’altra parte, nel campo della politica estera è stata proprio la pesante eredità di Obama, ossimorico premio Nobel per la pace in virtù dei meriti acquisiti con le guerre condotte in Iraq e in Afghanistan e con gli interventi in Siria e in Libia; è stata una siffatta eredità, si diceva, che, assieme al carattere di destra e militarista della campagna elettorale di Hillary Clinton, ha permesso a Trump, quattro anni fa, di assumere una posizione demagogica come oppositore dello ‘status quo’ e, in queste ultime elezioni, di presentarsi come un presidente che non ha intrapreso nuove guerre, quanto meno in modo palese ed eccezion fatta per il vile assassinio del generale iraniano Soleimani.
Ponendosi sempre da un punto di vista di classe per giungere a formulare una valutazione organica delle prospettive aperte dalle elezioni americane, il dato di fatto che occorre ribadire è che il Partito Democratico, oggi come oggi, è il partito di Wall Street: espressione, creatura e strumento di un blocco di potere formato dalla frazione finanziaria del capitale monopolistico USA e dai vertici militari: una plutocrazia più una stratocrazia. Dal canto suo, Trump non è uscito dal nulla, la sua politica è reazionaria, razzista e sciovinista, ma non è un demone dell’inferno, essendo anch’esso, non diversamente da Biden, un tipico prodotto della società nord-americana, come hanno crudamente rivelato le recenti elezioni contrassegnate dalla più alta partecipazione al voto (circa il 67%) che si sia mai registrata nella storia degli Stati Uniti a partire dal 1900.
Non ci si venga pertanto a dire che Biden, rappresentante politico di una frazione di milionari e di guerrafondai, sarebbe il male minore. Quanto a Trump, che è in prima persona un imprenditore milionario, si tratta di un’alternativa tutta interna alla logica del capitale monopolistico USA, di cui rappresenta la frazione agraria e alcuni settori di quella industriale. L’abilità di questo personaggio è consistita, grazie ad un’apparente rottura con l’‘establishment’ e alla svolta protezionista, nel saldare a questa frazione, oltre agli strati della piccola borghesia produttiva, vasti strati popolari, esattamente come accade nei movimenti populisti europei agli occhi dei quali non a caso Trump è un modello da imitare e un campione da seguire.
In conclusione, a livello della politica internazionale è prevedibile che con la presidenza di Biden non ci saranno cambiamenti radicali né tanto meno muterà la politica medio-orientale, essendosi Biden definito più volte “sionista” e gareggiando in questo con lo stesso Trump. La dura contesa con la Cina, con la Russia e con l’Iran, e la concorrenza sempre più aspra con l’Unione Europea sono infatti necessità strutturali di lungo periodo per l’imperialismo statunitense.
Tutto ciò dimostra che gli Stati Uniti sono ormai entrati in una fase di crescenti turbolenze interne ed internazionali, che ne aggraveranno fattori di criticità e di debolezza creando condizioni favorevoli allo sviluppo e alla radicalizzazione della lotta di classe non solo nell’America del Nord, ma in tutto il mondo. I comunisti, dal canto loro, non possono e non devono schierarsi con nessuna delle parti in campo, ma devono lavorare per costruire, tanto a livello internazionale quanto nei singoli paesi, quel campo autonomo e indipendente del proletariato rivoluzionario e delle forze antimperialiste che consenta loro di conquistare gli strati popolari che oggi finiscono preda di avventure reazionarie, le quali null’altro rappresentano se non nuove forme della medesima schiavitù: per usare la metafora dello scrittore statunitense citato nell’epigrafe di questo articolo, l’altra ala della stessa aquila.
Fonte foto: Il Dubbio (da Google)