Rileggere la Lettera di Friedrich Heinrich Jacobi (Düsseldorf, 25 gennaio1743 – Monaco di Baviera, 10 marzo 1819) a Fichte è un’ importante esperienza filosofica per comprendere talune criticità dell’Idealismo. L’Idealismo identifica l’essere col pensiero, l’essere è posto dal pensiero (Gegenstand) per cui, la realtà storica, i significati, la qualità del vivere trova nel soggetto la sua verità. Fichte definiva l’Io come assoluto, libero, esso si può ipotizzare sia la metafora dell’umanità in cammino nella storia. L’Io assoluto è la verità della storia, la pone e la può trasformare (prassi), ma l’Io può anche abdicare alla sua funzione germinatrice di storia, per fatalizzare il presente, può deresponsabilizzarsi e ipostatizzare la storia. La fatalizzazione della storia non accade semplicemente, ma è l’Io responsabile del suo ritrarsi dalla storia. Fichte, dunque, coglie la verità della storia, la riporta alla responsabilità umana. L’oggettività, la realtà esistente a prescindere dal soggetto è solo dogmatismo funzionale a caratteri e gruppi sociali ed alle loro posture ideologiche. L’ obiectum[1] è una necessità dei caratteri dogmatici che devono porre l’ipostasi per deresponsabilizzarsi, scelgono volontariamente la reclusione nella caverna. Con una bella metafora Fichte paragona costoro ad un pezzo di lava sulla luna, la loro coscienza vive come congelata ha smesso di confrontarsi con il non io, con la storia, con la prassi, per cui si sono allontanati dalla storia e dall’umano. Sono sideralmente lontani, la bella immagine ci parla dell’attualità, del mondo digitale, in cui tutto è movimento, ma senza prassi, vige la perenne riproduzione del sistema. I meriti di Fichte sono indubitabili, eppure Jacobi coglie un rischio, un grande pericolo insito nell’Io creatore e dissolutore di mondi, ovvero ne teme il titanismo meccanico con il quale l’Io si afferma per nullificare e nullificarsi senza limiti[2]:
“Ma lo spirito può essere creatore di se stesso esclusivamente alle condizioni generali indicate, deve annientarsi nell’essere per rinascere e possedersi solo nel concetto: nel concetto di un’origine e una fine pure, assolute, originariamente da nulla, verso nulla, per nulla, nel nulla, o nel concetto di un moto pendolare che, in quanto moto pendolare, si pone necessariamente dei limiti in generale. Tuttavia ha limiti definiti solo in quanto moto particolare, prodotto da un’inspiegabile limitazione, secondo l’analogia della forza centrifuga e centripeta della materia”.
La maglia di Jacobi
La metafora della maglia utilizzata da Jacobi è utile per esplicitare il pericolo scorto da Jacobi, l’Io sovrano della prassi è come il ferro da uncinetto: crea la maglia, le dona i colori, le immagini, in un movimento ritmico incessante. L’incessante attività creatrice e disgregatrice prende il sopravvento, fino a diventare attività meccanica che col suo andirivieni acquisisce il senso della propria onnipotenza, diventa Dio in Terra, il padrone della storia. Il pericolo descritto da Jacobi è reale, e può concretizzarsi e degenerare nell’individualismo narcisistico a cui assistiamo nel tempo del capitalismo assoluto. Prevale il movimento sul fine, sulla teleologia, in questo modo l’attività trascende il fine per naufragare in un attivismo senza prassi, in un illimitato agire senza scopo[3]:
“Per farsi un’immagine diversa da quella empirica abituale del generarsi e prodursi di una maglia fatta a mano, basta sciogliere il capo della maglia e lascia lo scorrere sul filo dell’identità di questo soggetto-oggetto. Allora si vede chiaramente come questo individuo giunga a realizzarsi per il semplice movimento di andata e ritorno del filo, ossia per l’incessante limitazione del suo movimento e l’impedimento a proseguirlo all’infinito, senza che nulla d’empirico intervenga nella trama o si mescoli e s’aggiunge qualcos’altro.
In questa mia maglia faccio raggi, fiori, sole, luna e stelle, tutte le figure possibili, e riconosco che il tutto non è altro che il prodotto dell’immaginazione produttiva delle dita, oscillante tra l’Io del filo e il non-Io del ferro. Considerate dal punto di vista della verità, tutte queste figure insieme alla maglia sono soltanto semplici fili nudi”.
Nichilismo
Jacobi utilizza il termine nichilismo per denotare l’Idealismo di Fichte, poiché l’Io diviene attività senza fondamento, manca lo scopo, è preso dalla produzione di mondi, è reso passivo, poiché l’iperattività gli impedisce di porre un limite a se stesso, di definire delle geometrie di senso, prevale il nulla, ogni senso etico e storico collassa nell’ipertrofia dell’Io che si espande fino a perdersi, Jacobi utilizza la parola “nichilismo” per descrivere il disperdersi dell’Io nella sua espansione spaziale[1]:
“Sinceramente caro Fichte non mi turberei se Lei o chiunque altro volesse chiamare chimerismo ciò che oppongo all’idealismo, che io accuso di nichilismo. In tutti i miei scritti ho manifestato il mio non-sapere, mi sono così vantato di essere scientemente tanto ignorante, perfettamente e minuziosamente in così alto grado, da poter disprezzare il comune scetticismo”.
L’Io lasciato a se stesso si consuma nella vacuità dell’autocontemplazione, non vede altro che se stesso, rapporta tutto a se stesso, si caratterizza per la sua voracità produttiva. Jacobi allarga lo strale non sono a Fichte, ma anche a Kant, in quanto la filosofia trascendentale di Kant è la premessa dell’Idealismo. Fichte ne completa il percorso, il pericolo del nichilismo era già in embrione in Kant ed è esplicitato da Fichte[2]:
“La filosofia trascendentale non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità; non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio. Se la cosa suprema su cui riflettere e che posso contemplare è il mio vuoto, puro, nudo e semplice Io, con la suo autonomia e libertà, allora l’autocontemplazione riflessa, la razionalità, sono per me una maledizione e io maledico la mia esistenza”.
La risposta di Fichte al nichilismo
Jacobi è valutato un autore secondario nella storia della filosofia, eppure ha posto un problema “drammaticamente vero”, che ha attraversato la filosofia ed ha trovato risposta nel comunitarismo. L’Io assoluto rischia di ribaltare la prassi in attivismo, di perdersi in una dimensione priva del limite e, quindi, di etica. L’ultimo Fichte con la teoria giovannea e la missione del dotto, già accoglie i dubbi di Jacobi, poiché l’Io del dotto trova il suo senso e il suo limite etico nella libertà interpretata come servizio alla comunità, in cui si è radicati ed all’umanità, il dotto insegna ad essere liberi. Il comunitarismo riesce a rispondere a Jacobi palesando la necessità della prassi nella comunità, ovvero l’Io esplica la propria libertà non in astratto, ma nella famiglia, nEi corpi medi della democrazia, nel lavoro e nello Stato. La prassi dell’io è un percorso, in cui si ritrova il fine, che strappa dalle spire del nichilismo, poiché la libertà non è una forma di solipsismo creatore, ma incontro, relazione nella quale, non solo, ci si autodefinisce, ma specialmente si scopre che si è parte vivente di una comunità, per cui il fine dell’agire umano è la libertà non competitiva, ma comunitaria, senza l’altro non vi è autoriconoscimento di sé e dell’altro, pertanto il fine della libertà è conoscere se stessi attraverso l’altro. Ogni libertà solipsistica che prolifera nell’indifferenza verso l’altro è solo negazione di sé, dell’altro e della libertà. Essa non è negazione della propria identità culturale e linguistica e dell’altrui, ma libertà di riconoscersi nell’incontro tra identità diverse. Un concetto tanto alto ed etico della libertà necessita dell’adeguata struttura economica, non a caso, Fichte comprende che l’economico sta per prevalere sul politico, e si profila il regno dell’assoluta peccaminosità. Jacobi e Fichte si ritrovano, alla fine, entrambi temono il profilarsi dell’ipertrofia dell’io, della patologia dell’io che conosce solo i propri desideri nell’ignoranza dell’alterità. Fichte accoglie la critica di Jacobi, e la trasforma in una possibilità di crescita critica della sua teoretica.
Filosofia e “critica dialogante”
La filosofia è attività corale, il dubbio, la critica possono anche essere profonde, ma se sono svolte con l’intento di allargare l’orizzonte di comprensione divengono materiale per nuovi salti quantici creativi. La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano, pertanto i filosofi ci insegnano l’ascolto dei problemi teoretici ed i problemi relativi, e dunque le critiche non sono che mezzi per umanizzarsi nell’incontro con i propri limiti umani e concettuali e ritrovarsi: la filosofia conosce i concetti (Begriff) e non la chiacchiera (Gerede)[1]:
“La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà”.
La filosofia è Streben (Sforzo), è tendere faticosamente al concetto, ma per condividerlo e ritrovarsi più autentici e veri.
[1] Obiectum objicere, composto dalla preposizione ob-, davanti e dal verbo jacere, gettare, e in particolare al suo participio perfetto objectum, da cui deriva anche oggetto.
[2] Friedrich Heinrich Jacobi Fede e nichilismo Lettera a Fichte Morcelliana Brescia 2001 pp. 41 42
[3] Ibidem pp. 45 46
[4] Ibidem pp. 59 60
[5] Ibidem pag. 57
[6] M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018 pag 45