Le mobilitazioni suscitate dall’assassinio di George Floyd proseguono, ormai, da più di tre mesi. La loro portata e durata si spiegano con l’intreccio di una serie di fattori: violenza razzista della polizia, senso di abbandono economico, sociale e politico, in particolare della comunità nera ma non solo, reso esplosivo dalla pandemia e dalla sua gestione politico-sanitaria, pressione della crisi economica con la disoccupazione crescente.
Allo stesso tempo, però, sono l’espressione di qualcosa che potenzialmente trascende quei fattori, e contiene in sé i germi per svilupparsi oltre una tradizionale rivolta razziale. Non solo perché vi hanno partecipato fin da subito latinos, bianchi, nativi e persino asiatici-americani, ma, anzitutto, per il dato di partenza che tutti li unifica, ossia il fatto che il complesso della vita sociale comincia a rivelarsi inaccettabile per l’insieme degli sfruttati. La sollevazione, infatti, prende spunto dalla brutalità della polizia (contro tutti e non solo i neri), ma questa è solo la punta di un iceberg di oppressione e brutalità che si vive sul lavoro, nella vita sociale, nella ricerca di assistenza sanitaria, nell’accesso alla ricchezza, nella forte divaricazione dei rapporti sociali tra chi è ricco e chi no, e, in ultima istanza, in una società divenuta l’arena di uno scontro competitivo permanente, e che negli Usa si esplica con caratteri, appunto, particolarmente brutali. Una sollevazione dal contenuto non immediatamente economico, non perché eluda i problemi su questo piano ma perché li riassume e li comprende nel rifiuto della brutalità, a partire da quella istituzionale, ufficialmente diretta a proteggere individui e comunità ma praticamente rivelatasi strumento di oppressione e di dominio.
Brutalità e oppressione hanno costellato tutta la storia degli afroamericani, giustificate e puntellate dal diffuso razzismo contro di loro. Il razzismo è stato sempre un elemento decisivo per la stabilità degli Usa, in quanto offriva l’opportunità a chiunque non-nero di sentirsi integrato per il solo fatto di conseguire una posizione sociale superiore a quella dei neri, per trasformare, quindi, il potenziale conflitto tra classi nel molto più utile, per la stabilità del capitale, conflitto tra razze. La lotta dei neri contro la discriminazione razziale non si è mai fermata e ha raggiunto il punto più elevato negli anni 1960/70 con l’affermazione dell’orgoglio nero, suscitato dalle rivoluzioni anti-coloniali in Africa, il Black Power, le lotte di massa per i diritti civili con Martin L. King e l’emergere con Malcom X e le Black Panthers di una tendenza politica che non si limitava a rivendicare diritti civili ma una rivoluzione a un tempo di razza e di classe, nazionale e internazionale. L’elemento fondante di questi processi politici era stata la comunità nera, la sua capacità di auto-organizzazione e di riscatto, ma il loro sviluppo portò alla diffusa consapevolezza (tanto di King quanto di Malcom X e le Black Panthers) della necessità di un fronte comune dei neri, di tutte le altre razze oppresse e dei bianchi poveri, e di un collegamento internazionalista con i popoli in lotta contro l’imperialismo Usa.
I diritti civili furono concessi, assieme a forme di riparazione, le affermative actions, che hanno alimentato la formazione di un ceto medio e di una piccola borghesia nera sufficientemente integrati, anche se nei gradini inferiori, nella società dei bianchi. Contro la tendenza rivoluzionaria (e contro lo stesso King, quando scoprì l’inefficacia della richiesta di diritti civili a uno stato che li conculcava in tutto il mondo anche con guerre come in Vietnam), invece, venne scatenata una repressione feroce e il sottoproletariato nero, che gli aveva fornito consenso e supporto, venne precipitato nell’inferno di abbandono, droga, criminalità e dissoluzione dei rapporti sociali, familiari, ecc. La comunità nera venne così divisa e indebolita. Mentre una minoranza entrava nella società ufficiale, sia pure in posizione subordinata, la maggioranza era sospinta in una situazione di degrado e dissoluzione (solo per citare due dati: 1. ancora oggi il più alto numero di neri morti per violenza è vittima di altri neri. La polizia uccide in media 250 neri all’anno, i neri uccidono in media 7.000 dei loro fratelli ogni anno; 2. il tasso di figli con un solo genitore è tra i neri il 74%, tra i bianchi il 27%). Con ciò la lotta contro il razzismo era fortemente indebolita e la maggioranza dei neri rimaneva, impotente e indolente, nei bassifondi della società, ai suoi margini nei propri quartieri-ghetto. I tentativi di scuoterla dal torpore (come quello di Farrakhan con la Million Men March), di risollevarla, fermando lo scontro fratricida e ricostituendo un senso di responsabilità nella propria vita individuale, nei confronti della famiglia e della comunità come premessa per riprendere la lotta contro il sistema razzista e oppressore, non hanno mai dato risultati concreti. D’altra parte si era esaurita anche la fonte principale dell’orgoglio nero, le rivoluzioni anti-coloniali in Africa. I capi più promettenti erano stati eliminati, gli altri trasformati in zii Tom dall’imperialismo che aveva bloccato le rivoluzioni e piegato ai suoi interessi il moto anti-coloniale.
Le condizioni, insomma, per il ritorno di una lotta anti-razzista con le caratteristiche di cinquant’anni fa non ci sono più. Ma nel momento in cui la battaglia per destrutturare la lotta anti-razzista dei neri sembra definitivamente vinta, un’altra parte della società scopre di vivere in condizioni analoghe a quelle in cui sono costretti gli afroamericani e si esprime, assieme a loro, con un moto di ribellione che scuote da tre mesi la scena politica Usa ed ha riflessi in tutto il mondo.
Brutalità sistemica
La prima e più evidente analogia è quella della brutalità della polizia.
Secondo Black Lives Matter (BLM) la polizia Usa è razzista, ossia adotta nei confronti dei neri comportamenti più violenti di quelli adottati con persone di altro colore. La polizia Usa è senz’altro razzista, e lo è saldamente rimasta nonostante le politiche di integrazione, avviate dal riconoscimento dei diritti civili, con il reclutamento di afroamericani e membri di altre etnie-razze per facilitare i rapporti con tutte le comunità. D’altronde, è un organo deputato a difendere la società, che è, a sua volta, profondamente razzista. Ciò non di meno le vittime della brutalità della polizia Usa non sono soltanto gli afroamericani. La percentuale di vittime nere della violenza della polizia è intorno al 23-25%. Questo dato è superiore a quello dei neri nell’insieme dei residenti (13%), ma segnala, tuttavia, che c’è anche un 75-77% di vittime non-nere. Il ricorso alla brutalità, indicato dal numero di vittime annue della polizia (intorno a 1.000, ma forse anche di più, considerato che la polizia non fornisce dati ufficiali), ma che, ovviamente, non si riduce a esso, è di tutta evidenza molto superiore al ricorso alla violenza estrema che viene fatto dalle polizie del resto del mondo. Ciò avviene nell’ambito della lotta alla micro-criminalità. La polizia Usa è, dunque, brutale in modo massiccio contro gli afroamericani, ma è, del pari, brutale contro tutti i micro-criminali o quelli che gli sembrano propendere, con i loro comportamenti, verso la micro-criminalità. Perché? I poliziotti Usa hanno attitudini particolarmente bestiali oppure la loro bestialità è il portato di una società in cui il tasso di micro-criminalità e violenza è molto più alto di qualsiasi altro paese al mondo? Perché questo tasso è più alto? Perché gli americani di tutte le razze ed etnie hanno una natura violenta, magari rimastagli impressa nel DNA dalla mitica Conquista del West della violenza fai da te?
Ora, la storia lascia senz’altro le sue impronte, ma più che al Far West bisognerebbe guardare alla violenza senza freni dello schiavismo, dello sterminio dei nativi e della Guerra civile americana, la prima che adottò su vasta scala la distruzione di città e le stragi di civili come atti di guerra, e a tutte le successive guerre che gli Usa hanno combattuto (nella storia non c’è un singolo anno in cui gli Usa non abbiano combattuto da qualche parte, fino al record di Obama, sette guerre contemporaneamente) con una violenza ogni volta superiore e più cieca, a partire dagli interventi nella prima e seconda guerra mondiale, in cui gli Usa adottarono con spregiudicata ferocia le tattiche della Guerra civile, mettendo in pratica una sistematica aggressione a civili, fabbriche, infrastrutture civili e città con l’obiettivo dichiarato di suscitare uno scollamento tra popoli e governi nemici.
Ma più ancora della storia il rilievo va dato allo stato attuale della società Usa. Decine di milioni di persone (non solo afro) abbandonate in uno stato di povertà e precarietà, costrette a inseguire quotidianamente la ricerca di qualcosa per sfamarsi o per acquisire un minimo di paccottiglia che dia impressione di integrazione nelle dinamiche sociali dominanti, ad accettare lavori precari, gravosi, salari di fame, senza assistenza sanitaria, senza casa o con case fatiscenti e sovrabitate, in quartieri miseri e cadenti, ecc. Una situazione che rende inevitabile la diffusione della micro-criminalità, con furti, rapine, spaccio e la formazione di bande che fanno, tra di loro e contro gli altri, un uso esteso di violenza e prevaricazione, spesso del tutto gratuite. Inoltre, se prima un po’ di violenza, di furti e rapine, potevano essere fatti nei quartieri ricchi (anche Malcom X, prima di diventare membro della Nation of Islam, viveva rubando nelle case dei ricchi), oggi ciò risulta completamente impossibile. Gli straricchi sono lontani dalle città, in mega-ville, isolate e super-protette (e durante la pandemia si isolano negli yacht e incrementano l’acquisto di jet privati per evitare contatti negli aerei di linea), ma anche i quartieri del ceto medio benestante sono isolati dalle città e, a loro volta, protetti dalle polizie private e interventi solleciti ed efficaci di quelle pubbliche. Allo stesso modo sono super-protetti i compound residenziali o da ufficio collocati nelle città (anche qui con uso massiccio delle polizie private). La micro-criminalità può dunque essere esercitata solo nei quartieri poveri, ai danni di popolazioni già misere e vessate.
Ed è in questi quartieri, e in questa situazione, che la polizia dovrebbe intervenire, ufficialmente, per proteggere gli onesti dai malfattori. Mentre avanzava l’impoverimento di vaste parti della popolazione di ogni colore, mentre si affermava la rigida separazione per censo dei luoghi di residenza e di vita, e mentre cresceva la diffusione della micro-criminalità, lo stato vi provvedeva prioritariamente con l’intervento della polizia, con il mandato precipuo di mantenere l’ordine sociale, ossia contenere la micro-criminalità entro i confini dei quartieri poveri e contrastarla al loro interno con un solo mezzo, la violenza. Si è, in questo modo, ridotta la micro-criminalità? Dai quartieri ricchi è, effettivamente, scomparsa (per i poveri anche solo entrarvi per una passeggiata è impossibile. Vi possono accedere solo in funzione di occupazioni servili). Nei quartieri poveri si è ulteriormente diffusa e, anche a causa della violenza poliziesca, è divenuta ancora più violenta. Non solo, ma il ruolo della polizia di controllo sociale è divenuto sempre più chiaro ed evidente: non reprime più solo i micro-criminali, ma esercita un controllo preventivo, e sistematicamente violento, contro chiunque appaia potenzialmente tale. Milioni di bianchi poveri, latinos, asiatici, si sono ritrovati vittime di un trattamento poliziesco che fino a poco fa sembrava riservato, in termini di massa, ai soli neri.
A questa base già esplosiva si sono sommate le misure di confinamento per il coronavirus, che hanno, da un lato, dato nuovo impulso al controllo sociale della polizia, dall’altro privato milioni di persone anche dei loro miseri lavori di sussistenza. Una miscela cui mancava solo la miccia. Giunta con l’assassinio di Floyd. Un certo ruolo è stato giocato anche dalla copertura mediatica data all’assassinio allo scopo di creare difficoltà alla rielezione di Trump, ma ciò non la trasforma certo in una sollevazione a comando, troppe, e troppo solide, essendo le basi materiali che l’hanno scatenata.
La motivazione che ha spinto alla mobilitazione è espressa felicemente, in uno scambio su facebook, dalle parole di un giovane bianco di Minneapolis “vogliamo riportare la nostra comunità fuori da queste esasperazioni e per questo vogliamo una polizia al nostro servizio”. Sono pronunciate da un bianco e quindi la comunità non va intesa nel senso razziale, ma in quello sociale. Problematico ipotizzare che si riferiscano (anche inconsciamente) alla classe, ma si riferiscono senza dubbio a una comunità di individui di tutti i colori che condividono una stessa condizione sociale e residenziale, una stessa collocazione nella società.
La rivendicazione di una polizia al nostro servizio, o di un’espulsione della polizia dalle comunità, coglie la punta dell’iceberg dell’oppressione sociale, ma contiene in potenza un’evoluzione della sollevazione in una direzione più generale, verso, cioè, il corpo dell’iceberg. Per rendere, infatti, le comunità più pacifiche non basta espellere o riformare la polizia, ma bisogna aggredire anche le cause della loro miseria e del loro degrado, quelle che producono la violenza interna alla comunità. Si può aspirare al progresso della comunità senza mettere in questione la politica e l’economia dell’intero paese? Evidentemente no. È sufficiente, inoltre, sviluppare la lotta in ogni singola comunità o diventa necessario l’organizzazione di un fronte nazionale con obiettivi unici e in grado di costituire rapporti di forza favorevoli? Evidentemente la seconda.
La sollevazione sta dunque gettando i semi da cui può svilupparsi un movimento di carattere nazionale, in grado di unificare larghi strati di sfruttati e diseredati di tutti i colori su obiettivi inizialmente non economici, ma, forse proprio per questo, molto più efficaci a mostrare il punto in cui versa il capitale e quanto potenzialmente totale sia il grado di rifiuto del suo rapporto sociale.
Supremazia bianca
Lo sviluppo deve, però, fare i conti con gli ostacoli che gli sono già frapposti e che, come sempre, non si limitano alla sola repressione, che, in questo caso, peraltro, è stata utilizzata massicciamente all’inizio, ma ridotta in seguito, almeno finora. La riduzione è stata sicuramente dovuta alla grande estensione del movimento, ma vi hanno influito anche altri fattori.
Un secondo fattore è il conflitto che oppone i dem a Trump. I primi si sono erti a protettori del movimento e delle sue ragioni, lasciando a Trump la parte del repressore, pronti a sfruttare contro di lui la violenza repressiva cui avrebbe dato corso. Trump ha evitato questa trappola: svariate minacce di intervento repressivo, ma in sostanza pochi e localizzati interventi. Utile per lui sul piano elettorale per cercare di consolidare il suo già notevole consenso e cercare di pescare voti nella maggioranza silenziosa presentandosi come candidato estraneo a un establishment che lascerebbe precipitare gli Usa nel caos pur di escludere lui dalla presidenza.
Un terzo fattore che ha influito sull’intensità della repressione è stata la modifica delle forme di lotta. Queste inizialmente sono ricorse massicciamente ai saccheggi, contro cui la repressione è stata dura. In seguito i saccheggi sono diminuiti e la repressione si è ridotta. Forse questo è anche un segnale della modifica della composizione del movimento. All’inizio vi hanno partecipato anche schiere di sotto-proletari neri, la cui radicalità si è espressa nella particolare forma di lotta, mentre, in seguito, sentendosi anche non benevolmente accolti dagli altri partecipanti, si sono defilati. Da parte dei neri l’ossatura del movimento è costituita da quello strato di ceto medio e proletariato che era stato integrato dai diritti civili e dalle azioni positive e che vive oggi la minaccia di nuova esclusione ed emarginazione, assieme, appunto a strati simili delle altre etnie. Ciò non inficia in nulla le potenzialità del movimento, ma dimostra ulteriormente come una ricomposizione della comunità afroamericana con caratteri simili a quelli del ciclo iniziato negli anni 1960/70 sia sempre più difficile. Non risultano, per esempio, notizie analoghe a quelle della rivolta di Los Angeles del 1992, quando le gang di neri concordarono un accordo di tregua tra di loro al fine di coalizzarsi contro la polizia. Oggi le gang hanno continuato a farsi guerra e pare che si siano tenute, dopo un primo approccio, distanti dal movimento. La riunificazione delle schiere proletarie e sotto-proletarie sarà, naturalmente, un altro problema da affrontare nello sviluppo della lotta. Quando ci si riferisce alla comunità in senso, come detto, sociale non si può infatti prescindere dal prendersi carico anche delle condizioni di queste vaste masse soprattutto di giovani. La pacificazione della comunità deve risolvere anche il loro problema e deve, dunque, contare anche sulla loro mobilitazione.
Il movimento è stato, quindi, appoggiato dai dem, dai grandi media, da un nugolo di multinazionali globaliste. Questo potente schieramento ha cercato, innanzitutto, di contenerlo in un ambito esclusivamente anti-razzista e, secondariamente, di un anti-razzismo puramente cosmetico, da politically correct, con al massimo un ripescaggio di azioni positive (con promesse di assunzione di quote di lavoratori neri e di altre etnie), e un appoggio alla rivendicazione defund police o di riforma della polizia. L’appoggio a quest’ultima non corrisponde certo all’accettazione della riduzione del controllo sociale dello stato, ma rientra perfettamente nei piani dello schieramento degli appoggiatori, che sanno perfettamente che persino una completa abolizione della polizia municipale non creerebbe minacce alla sicurezza sociale delle classi possidenti e del ceto medio ricco, già oggi super-protetti da polizia privata, sistemi di controllo informatici, Fbi, Guardia Nazionale, ecc, mentre il problema delle classi oppresse lo si potrebbe, in extrema ratio, risolvere lasciandogli il controllo sulle proprie comunità, purché siano rigidamente isolate dal resto della società, e magari assistite con redditi di cittadinanza che finanzino la sopravvivenza minima per tutti, o per lo meno per gli strati potenzialmente combattivi.
Il gruppo dei protettori cerca di sospingere il movimento contro Trump in quanto sostenitore e rappresentante della supremazia bianca. Questo discorso non è nato al puro scopo di deviare il movimento attuale, ma ha alle spalle una lunga storia. Per secoli la supremazia bianca ha costituito il collante che ha tenuto insieme classi dominanti e proletariato bianco, in un’alleanza efficace per sottomettere gli afroamericani e conservare, come detto, la stabilità del sistema. Contro di essa la mobilitazione degli afroamericani non si è mai estinta, sia pure tra alti e bassi, ma non è mai riuscita a metterlo seriamente in crisi, con l’apertura di crepe decisive al suo interno. L’unità delle classi sulla base della whitheness ha, insomma, resistito con solidità a tutti i tentativi dei neri di infrangerla. Essa ha, tuttavia, retto grazie al fatto che la whitheness era accompagnata anche da un fondamentale apporto materiale, in termini di condizioni economiche e sociali di vita. Da quando queste condizioni hanno iniziato a peggiorare anche per masse crescenti di proletariato e ceto medio bianco, la sua solidità come collante ha cominciato a vacillare. Con ciò si fa largo la possibilità che parti significative del proletariato e del ceto medio bianchi, non traendo più alcun vantaggio dalla whitheness, possano abbandonarla sostituendola con un’alleanza di classe con gli afroamericani. Possibilità non più solo teorica, come si è cominciato a vedere proprio in questi mesi, anche se per ora riguarda parti limitate dei bianchi, e su cui, non di meno, gravano i secoli di storia precedenti di oppressione e contrapposizione razziale, da cui non sarà per niente facile uscire.
Contro questa possibile saldatura sono attive sia la destra che la sinistra, sia la galassia rep che quella dem.
La prima mette in campo gli attivisti del suprematismo che fanno, in gran parte, riferimento a Trump, il quale, tuttavia, non li appoggia direttamente, preferendo impostare la sua reazione politica non sulla razza, ma sulla difesa della proprietà aggredita dai manifestanti, oggi fisicamente nelle mobilitazioni, ma, suscettibile di essere domani ancor più radicalmente messa in discussione con uno sviluppo politico e programmatico di una lotta di classe multirazziale. Se i suprematisti provano a richiamare l’unità della whitheness contro gli afroamericani, Trump prova, in modo più adeguato ai tempi, a conservare l’unità di borghesia e ceti medi proprietari di tutte le razze contro l’assalto alla proprietà e alla sua libertà di esplicarsi attraverso il rapporto di capitale, l’unico in grado di perpetuare i privilegi di classi dominanti e intermedie.
La seconda, invece, risponde dando riconoscimento all’esistenza della supremazia bianca e alla necessità che i bianchi l’abbandonino. Inserisce ciò nelle politiche identitarie, sorte con l’obiettivo di superare, negandolo, il conflitto tra classi, e secondo le quali nessuna razza, etnia, genere, sesso, ecc. deve prevalere e discriminare le altre, ma ognuna deve avere appropriati riconoscimenti, e tutte devono essere alla pari, purché tutte siano docilmente sottomesse al rapporto di capitale e, in particolare, al dominio del capitale globalista, rappresentato da grande finanza, Big Tech, multinazionali che sfruttano lavoratori in tutto il mondo e che per farlo liberamente necessitano di un mondo aperto, democratico, liberale, che non opprima le identità, ma si lasci opprimere dal proprio sfruttamento.
Mentre i rep, dunque, non esitano a contrapporsi alle mobilitazioni, i dem cercano, al contrario, di condizionarne l’evoluzione. Entrambi vogliono disinnescare il rischio del formarsi di un fronte di lotta anti-razzista e, nel contempo, di classe, ma perseguendo tattiche diverse, che rispondono, peraltro, ai propri schieramenti di riferimento e alle peculiari (e diverse) politiche che ciascuno di essi persegue per risolvere lo stesso problema: conservare e rafforzare l’egemonia imperialista degli Usa.
L’azione dei dem, supportata da un potente apparato mediatico, può fare leva all’interno del movimento su una certa base di appoggio, costituita da quei militanti, e dalla stessa BLM, che individuano nella supremazia bianca (che sarebbe raccolta per lo più nella destra politica, soprattutto quella trumpista dell’America first) la causa del regresso delle politiche anti-discriminazione inaugurate con la stagione dei diritti civili e, di conseguenza, collocano l’anti-razzismo all’interno della politica per l’affermazione delle identità di razza, religione, genere, sesso, ecc. Da qui nasce la battaglia che esige la correzione del linguaggio, l’abolizione dei simboli schiavistici e razzisti, il riconoscimento delle quote, il rispolvero delle azioni positive. Una strategia che rivendica il ritorno alle politiche di integrazione sia pure fondandole sulle basi nuove di un movimento generale di riconoscimento di tutte le identità. Integrazione e non totale contrapposizione che produce, per esempio, l’aggressione alle statue dei colonialisti e schiavisti del passato e non vede l’azione imperialista, colonialista e schiavista degli Usa attuali. Mentre crollavano le statue dei confederati sotto i colpi anti-razzisti, gli Usa, tanto per dire, aggredivano il popolo siriano con il Caesar Act, senza meritarsi il benché minimo cenno di disapprovazione da parte di BLM, che pure annovera tra i suoi idoli King e Malcom X.
Razzismo del proletariato bianco
Riusciranno le ragioni del moto di rivolta a infrangere la gabbia di ragioni affibbiategli da dem, media, multinazionali, ecc.? L’approfondirsi della crisi economica offre senz’altro alle sterminate masse di poveri, lavoratori super-sfruttati, razze ed etnie oppresse e discriminate, una grande opportunità per procedere in avanti nella mobilitazione unitaria contro l’oppressione del complesso della vita sociale. Le condizioni oggettive per questa saldatura di classe sono, insomma, oggi molto più presenti che all’epoca di King e Malcom X, ma questo non è sufficiente, di per sé, per realizzarla. Non solo perché è necessario liberarsi dell’opprimente cappa sotto cui i protettori vogliono contenere le mobilitazioni attuali, ma, soprattutto, perché bisognerà trovare il modo per ricucire le diffidenze e le contrapposizioni razziali originate da secoli di razzismo e discriminazione contro gli afroamericani esercitati anche dalla grande maggioranza del proletariato bianco. La ricucitura è possibile solo nel fuoco di una lotta comune, sulla base, quindi, di un riconoscimento pratico di interessi condivisi, che solo unitariamente hanno la possibilità di affermarsi, e di nemici comuni. Obiettivo più a portata di mano di ieri, ma, non di meno, per nulla agevole. Per gli afroamericani è, infatti, indispensabile non rinunciare neanche di un millimetro alla lotta anti-razzista, e, renderla, anzi, sempre più esigente e coerente. Un annacquamento di queste istanze nell’ambito di una comune lotta di classe sarebbe, per loro, esiziale perché non scuoterebbe minimamente il proletariato bianco dalle sue (per lungo tempo incrostatisi) abitudini e attitudini razziste, lasciando, con ciò, sopravvivere il terreno, da parte del capitale e dei suoi apparati politico-mediatici, per soluzioni atte a indurre nuove divisioni e contrapposizioni di razza, che confermino il suo potere su tutte le sezioni razziali del proletariato. Il proletariato bianco, scuotendosi dal torpore e dando vita a conflitti sociali e politici, in cui praticamente può riconoscere l’esigenza di un fronte comune di lotta con gli afroamericani e le altre razze, dovrà, dunque, anche grazie al’anti-razzismo coerente degli afroamericani, fare i conti con il suo proprio razzismo. Il che può avvenire, davvero, in un solo modo: assumendo su di sé la lotta anti-razzista, sia nei confronti del potere economico e politico, sia al suo proprio interno, abbandonando concretamente le sue abitudini e attitudini.
In questi tre mesi di mobilitazione ci sono stati molti segnali in questo senso. Le migliaia di bianchi che hanno supportato e partecipato alle mobilitazioni sono la prova che in una parte, almeno, del proletariato e dei ceti medi bianchi in crisi si stia facendo spazio l’esigenza di sostenere la lotta anti-razzista in quanto si tratta anche di un proprio interesse immediato. Molti di questi bianchi limitano il proprio interesse a un orizzonte di lotta diretto esclusivamente al maggior riconoscimento dell’identità afroamericana nell’ambito delle politiche identitarie, e, dunque, premono per un uso privilegiato delle tattiche di pressione politica per cambiamenti solo in ambito razziale, puntando sullo strumento elettorale a favore dem, ossia del partito che, dai tempi dei Kennedy, ha promosso legislazioni che implementavano i diritti civili. Ma molti altri, sollecitati da condizioni sociali divenute ormai molto simili a quelle della maggioranza degli afroamericani, sono indubbiamente sollecitati a sviluppare un fronte di lotta comune che sia, a un tempo, anti-razzista e politico-sociale per sé stessi e per tutti coloro che sono accomunati da identiche condizioni. Ed è soprattutto tra questi ultimi che può concretamente prendere avvio un percorso di intreccio di lotta comune con gli afroamericani contro il razzismo e contro l’oppressione economica e sociale.
Il passaggio da una lotta sul terreno razziale a una lotta che lo unisca a un terreno economico-sociale coinvolgendo schiere di proletari di ogni colore (fino a coinvolgere le -tuttora- decisive sezioni industriali del proletariato) è, dunque, oggi, favorita dall’espandersi di molte condizioni oggettive. Ma per realizzarsi ha, non di meno, bisogno che si sviluppino anche delle forze organizzate che la pongano come esplicito obiettivo. E, per questo aspetto, è necessario indagare sul ruolo politico svolto da BLM.
Questa organizzazione/movimento s’è conquistata una solida leadership del movimento e lo orienta in una direzione esclusivamente anti-razzista su uno sfondo coerente con le politiche identitarie. Ciò non toglie che nei suoi programmi ci siano anche denunce anti-capitaliste. Un conto, però, è denunciare il capitalismo, altro conto è battersi per un intreccio di lotta anti-razzista e lotta multi-razziale contro l’oppressione economico- sociale del capitalismo. Pertanto, le ragioni di un tale intreccio dovranno imporsi in una battaglia interna al movimento. La strada apparentemente più veloce sarebbe di cercare di modificare dall’interno le posizioni di BLM. Ma BLM è tenacemente blindata dalla pratica della democrazia orizzontale. Questa, adottata con la motivazione di impedire l’emergere di capi, è, in realtà, molto più efficace del centralismo democratico (o democrazia verticale) a bloccare sul nascere i tentativi di mutare gli indirizzi ufficiali dell’organizzazione. Consiste, infatti, nell’assumere decisioni solo all’unanimità. Se qualcuno propone un’innovazione deve, perciò, convincere tutti gli altri a farla propria. È sufficiente la presenza di un abile mediatore a impedire che si raggiunga l’unanimità su una proposta che deraglia rispetto al programma ufficiale. E di mediatori capaci BLM ne ha addestrati in buon numero, con l’aiuto di esperti nella costruzione di organizzazioni aperte, democratiche, liberali. Le ragioni profonde del moto di rivolta, per un orizzonte di lotta anti-razzista e anti-capitalista, avranno, dunque, da affrontare anche il problema di proprie organizzazioni.
Il declino degli Usa
La gestione della pandemia, la sollevazione anti-razzista e l’emergere delle difficoltà economiche hanno indubbiamente indebolito l’immagine degli Usa come guida del mondo. Il loro soft power mondiale ne esce fortemente intaccato, ma è stato intaccato anche il loro hard power interno ed esterno e su cui è possibile ricostruire anche il soft?
Pandemia e sollevazione hanno messo in luce il grado di conflitto raggiunto da due schieramenti politico-economico-sociali che si contendono la guida della politica nazionale e internazionale. E lo hanno anche approfondito. I contrasti tra i due poli sono prodotti dall’incedere della crisi generale dell’accumulazione capitalista e, in essa, dell’incepparsi del meccanismo della globalizzazione. Gli uni, detto a spanne, si battono per rilanciarlo incuranti dei nuovi danni sulla produzione nazionale (e, dunque, sul capitale che vi è impiegato e sulle classi che ne dipendono), gli altri vorrebbero non abolirlo, ma correggerlo profondamente, con un ritorno di vantaggi per il capitale nazionale (e buoni lavori con salari decenti per i lavoratori) e una riduzione dei vantaggi per quello globalista. Non si tratta semplicemente di uno scontro inter-capitalistico, ma coinvolge tutte le classi sociali, dividendole al loro interno. Lo scontro giungerà alle estreme conseguenze, provocando una disarticolazione complessiva del potere soft ed hard degli Usa? La possibilità appare, al momento, poco probabile. Sia perché è imperituramente valido l’adagio popolare cane non mangia cane, e dunque si farà il possibile e l’impossibile per fermarsi prima del precipizio (il che, tuttavia, non esclude completamente che, sopratutto dinanzi a conflitti sociali acuti, la situazione possa sfuggire di mano). Sia perché gli schieramenti hanno una base comune maggiore di quel che alcuni spettacolari contrasti lasciano intendere. Comune nell’interesse di classe anti-proletario e nell’interesse nazionale (imperialismo), ma comune anche in un obiettivo immediato: contrastare il tentativo cinese di risalire le catene del valore, ossia di ri-equilibrare la ripartizione mondiale del plusvalore, trattenendone in Cina una quota maggiore di quella misera che riesce finora a trattenere, con il taglio che conseguirebbe della quota appropriata dall’imperialismo.
Infatti, pur nello spettacolare contrasto che li divide, si sta affermando una crescente convergenza anti-cinese. Su questo piano Trump può vantare concreti risultati, di cui beneficeranno anche i dem, nel caso – che al momento il mainstream presenta come probabile- lo dovessero sostituire.
Vediamo brevemente quelli che paiono i più importanti:
1. messa in crisi delle Vie della Seta, con la chiusura degli approdi mediterranei in Israele e Libano, e con la crisi permanente in cui viene trattenuta la Siria, che si aggiungono alle chiusure delle Vie prodotte dai dem in Sudan, Egitto, Libia;
2. messa in crisi della rete di potenziali alleanze cinesi con l’espulsione dell’Iran e del Venezuela dal mercato petrolifero (espulsione utile anche per rinforzare il potere Usa, tramite il petrolio da scisto, sul mercato petrolifero mondiale);
3. la pressione sull’Iran, peraltro, sta iniziando a dare frutti evidenti: a) l’Iran ha accettato un capo del governo in Iraq sponsorizzato dagli Usa e ritenuto un complice nell’assassinio di Soleimani; b) in Libia si è schierato dal lato di Al Serraj e, dunque, della Nato; c) aumentano i segnali di un disaccoppiamento tra Iran ed Hezbollah. Non si può ancora dire che si tratti di un inizio di svolta con il ritorno dell’Iran nella cerchia Usa (infatti l’Iran sta cercando, allo stesso tempo, di rafforzare i rapporti con Cina e Russia), ma sicuramente si tratta di passaggi che evidenziano le crescenti difficoltà iraniane a conservare una relativa indipendenza dagli Usa al fine di conseguire un’autonoma presenza nell’area mediorientale indispensabile per tirarsi fuori dallo stato di paese esclusivamente petrolifero e trasformarsi in un paese industriale, con i vantaggi sociali che ne deriverebbero per conservare anche la stabilità interna. Per mettere una pietra tombale sulle aspirazioni dell’Iran, Trump sta, inoltre, disegnando un’alleanza tra paesi arabi del Golfo e Israele per un’area di libero scambio dominata e protetta da Israele (molto simile ai vecchi progetti di Peres e Rabin);
4. la pressione sul Venezuela sta, forse, anch’essa iniziando a dare frutti, considerate le recenti dichiarazioni di Trump sulla disponibilità a incontrare Maduro e sulla presa di distanze da Guaidò;
5. l’esclusione di Huawei e ZTE dal mercato del 5G è ormai operativa in Usa e in un certo numero di paesi europei e la stessa UE sta in tutta evidenza rallentando il suo slancio pro-Cina;
6. i rapporti con la Russia. Qui i contrasti con i dem sono più radicali. Tuttavia Trump sta riuscendo a coltivare un approccio (in particolare in Siria, Libia ed Afghanistan) di compromesso, che apre alla condivisione (pur sempre con una Russia subalterna) del potere in alcune aree, al fine di perseguire l’obiettivo di impedire il saldarsi di un’alleanza strategica tra Russia e Cina.
Tutti questi significativi passi avanti prodotti dal MAGA trumpiano stanno determinando delle gravi conseguenze sulla politica cinese di risalita. Molto più gravi ed efficaci delle già aggressive politiche di Obama di pivot in Asia e di accordi di partenariato commerciale per escludere (e sottomettere ancora di più) la Cina (perseguiti da Obama e cassati da Trump).
La Cina è sempre più stretta all’angolo. Trump gli sta dimostrando brutalmente chi detiene il potere di accesso al mercato mondiale ed ha innescato una politica di aggressione che Biden non mostra di voler correggere (anzi accusa Trump di non essere sufficientemente anti-cinese…). Né Trump né Biden hanno alcuna intenzione di escludere la Cina dal mercato mondiale. Entrambi hanno l’obiettivo di ridimensionare tutti gli elementi che possano aiutare la Cina a risollevarsi dal ruolo di paese produttore di una grande e decisiva parte del plusvalore mondiale a beneficio dei capitali del blocco dei paesi imperialisti, anzitutto Usa.
Può la Cina reagire a questa aggressione? Di sicuro è costretta a farlo, insistendo sulle politiche di espansione dei propri commerci e investimenti, ma sono molti, ed esplosivi, i problemi che la zavorrano. Uno per tutti, a titolo esemplificativo. Il padre della globalizzazione cinese per affrontare il rischio della riduzione delle esportazioni cinesi ha proposto la sua ricetta: completare l’urbanizzazione e trasformare i contadini in consumatori. Nella stessa rassegna segnalata in nota compare la sintesi di un altro articolo che riconosce che in Cina vi sono ancora 600 milioni di persone che vivono con meno di 140 dollari al mese (quanti sono quelli che vivono con poco più di tale somma?). Urbanizzarli e trasformarli in consumatori? A Roma si direbbe: me cojoni! Se la Cina cede si apre al suo interno una profonda crisi sociale e politica, che può risolversi in una crisi sociale e politica di dimensione mondiale, oppure nella disgregazione stessa della Cina, con il moltiplicarsi delle Hong Kong. Se la Cina cerca di resistere lo fa al prezzo di una conflittualità crescente con l’imperialismo, che la espone a un’aggressione progressiva fino al punto di una precipitazione bellica mondiale, da cui la Cina può sperare di uscire vittoriosa (o, per lo meno, non distrutta) solo con una stretta alleanza con la Russia e almeno con una parte dell’Europa (con in testa la Germania).
Dominio Usa oppure caos
La crisi dell’accumulazione capitalista e l’inceppamento del meccanismo della globalizzazione (che, in ultima istanza, è prodotto proprio dal tentativo di risalita cinese, che, a sua volta, è necessitato dal conflitto di classe in quel paese, su cui in questa sede non è possibile diffondersi) nel caso si combinasse con un profondo conflitto di classe negli Usa, potrebbe mettere a rischio la loro egemonia, accelerare il loro declino come potenza imperialista dominante?
Se con questo si vuole intendere che sia possibile – senza un devastante interludio bellico– l’emersione di un nuovo soggetto che sostituisca gli Usa nel dominio, la risposta non può che essere recisamente negativa. L’unico soggetto che potrebbe, in molto sofisticata teoria, aspirarvi sarebbe l’Europa, ma ne è impedita dalla strutturale impossibilità di trasformarsi in Stati Uniti d’Europa. Porsi la domanda sull’eventualità che possa essere la Cina può valere, al massimo, come una … infelice battuta da avanspettacolo.
Può, allora, il declino Usa dar vita a un mondo multipolare, dominato da una molteplicità di soggetti alla pari? Questo è l’obiettivo dichiarato da Russia e Cina, ed è sostenuto da filo-russi e filo-cinesi, equamente distribuiti tra destra e sinistra. La risposta va cercata nell’analisi del capitalismo. Può esistere senza una polarizzazione di classe e geografica dell’accumulazione di plusvalore? Cui consegue: questa polarizzazione può fare a meno di un paese dominante? E, in ultimo: il paese dominante attuale può essere cambiato senza una nuova guerra mondiale?
Gli Usa, dopo aver consolidato la loro egemonia sul mondo con la seconda guerra mondiale, lo hanno guidato al compimento del mercato mondiale del lavoro e, dunque, del plusvalore (ciò che va sotto il nome di globalizzazione).
Il mercato mondiale del plusvalore si regge:
1. sulle multinazionali che detengono tutto il ciclo (dall’inizio alla sua chiusura) della produzione e della circolazione mondiale del capitale, e sottomettono, direttamente o indirettamente, tutte le unità produttive sparse sul pianeta. Le multinazionali più potenti sono in Usa. Conferiscono potere allo stato e ne ricevono in cambio l’appoggio necessario a conservare il loro predominio mondiale;
2. il mercato di consumo Usa è quello mondialmente decisivo. Determina il successo dei prodotti, dei loro standards e dei metodi di produzione. Non tanto per quantità (dove sono superati dall’Europa) ma per qualità. Un prodotto che ha successo in Usa lo ha in tutto il mondo. Un prodotto che ha successo in un altro paese si diffonde nel resto del mondo solo se il mercato Usa se ne appropria;
3. la finanza Usa è quella di gran lunga più potente, in grado di determinare la vita e la morte di ogni altro soggetto finanziario, produttivo e persino degli stati. Questo potere le deriva dall’essere il centro mondiale in cui affluiscono i capitali di tutto il mondo;
4. il dollaro divenuto ormai moneta mondiale. Domina le transazioni e, di conseguenza, le riserve monetarie di ogni paese, ma rende gli Usa, tramite la Fed, anche la fonte principale di liquidità per tutto il mondo. Il gigantesco debito pubblico e privato Usa è, dunque, in ultima istanza, un idrovora che sugge capitali da tutto il mondo, ma, allo stesso tempo, una fonte di credito e liquidità di cui tutto il mondo capitalistico ha assoluta necessità, tanto più in un’epoca, come l’attuale, in cui il credito è divenuto il volano decisivo per la riproduzione del capitale, e per la stessa riproduzione sociale, in tutto il mondo.
Gli Usa sono poi anche una grande potenza militare, ma questo è l’unico terreno in cui la loro supremazia barcolla. Sembra ormai piuttosto acclarato che Russia e Cina abbiano sviluppato armi in grado di metterle a riparo da un’aggressione Usa. Per lo meno di poter difendere efficacemente sé stesse. Quindi una minaccia militare diretta non le preoccupa più di tanto, a meno che non si tratti di una guerra prolungata che le esporrebbe a subire il grande divario produttivo di armi (le armi russe e cinesi hanno quasi sicuramente raggiunto e talvolta superato in intelligenza quelle Usa, ma la loro quantità è ridotta e, dunque, non potrebbe fornire una resistenza di lunga durata contro l’irraggiungibile, per quantità, arsenale Usa). Per il resto dei paesi, non di meno, la minaccia militare Usa è ancora terribilmente concreta, per quanto con molti di essi non sia più scontato per gli Usa vincere facile.
Le potenti leve economiche e finanziarie, l’apparato militare distribuito in ogni angolo di mondo, il soft power fondato sulla forza d’attrazione di una società ricca, libera e piena d’opportunità per tutti, la grande capacità politica di manovrare, manipolare, condizionare, sottomettere, ecc. fanno degli Usa il paese garante della stabilità mondiale del capitalismo.
Trump ha, dunque, tutte le ragioni per richiamare il vecchio motto della nazione indispensabile, e ha ragione Halevi (v. nota 3) ad aggiungere: insostituibile. Indispensabile alla tenuta del capitale come rapporto sociale dominante, insostituibile per sorreggere la configurazione del capitalismo reale. Questo è costituito da un paese centrale e da una lunga teoria di paesi, dislocati a gradi diversi in una rigida gerarchia imperialista, con un gruppo ridotto e blindato che partecipa alla spartizione dello sfruttamento capitalistico con l’appropriazione delle quote più rilevanti di profitti (all’interno del quale, tuttavia, vi sono paesi in deciso declino), e una congerie di paesi dipendenti, dominati, oppressi. Concorrenza di capitali e conflitti tra paesi non sono (e non possono essere) esclusi, ma tutti i soggetti hanno interesse a preservare lo stato generale del capitale, e, dunque, a evitare di metterlo pesantemente in crisi. Tutti, perciò, hanno conflitti aperti anche con gli Usa, ma tutti hanno interesse a conservare la supremazia Usa, senza la quale non ci sarebbe un capitalismo multipolare, o un capitalismo in cui tutti i paesi siano alla pari, ma ci sarebbe una violenta anarchia, che metterebbe a rischio l’esistenza stessa del capitalismo.
La crisi dell’accumulazione sta acuendo tutti i contrasti interni al capitalismo reale e può giungere a un punto in cui non sia più possibile conservare il suo equilibrio. Una nuova epoca di grandi sconvolgimenti è, dunque, probabilmente, alle porte. Sconvolgimenti economici, politici, geo-politici e bellici, ma, soprattutto, sconvolgimenti sociali. Come sempre nel rapporto sociale del capitale le sue leggi oggettive confliggono e si intrecciano indissolubilmente con la lotta di classe. Il conflitto e l’intreccio tra questi due poli caratterizzeranno l’epoca di sconvolgimenti e ne determineranno il tipo di uscita.
La novità è che la crisi sembra mordere nel modo più duro proprio nel paese guida. Non da adesso, infatti, la situazione sociale Usa ha evidenziato il rischio di rottura della lunga pace sociale garantita dall’american way of life, con l’esposizione di masse crescenti al precipizio di una povertà senza speranza, sul piano economico e di vita individuale e sociale. Naturalmente sensibile (et pour cause!) alla spinta sociale che ciò smuove nella società, il complesso del potere Usa è indotto a mettere in discussione il precedente equilibrio, per incamerare quote ulteriori di plusvalore mondiale, necessarie, almeno in parte, a finanziare la pace sociale interna. Nella difficoltà generale di accumulazione del capitale, però, questa richiesta si scontra con la necessità degli altri paesi di conservare le proprie quote di profitti e, anzi, di cercare di incrementarle per mettere in condizione il proprio capitale di resistere alla crisi e per prevenire crisi sociali al proprio interno, tanto più nel caso cinese dove il proletariato sta appena adesso vedendo qualche tenue beneficio dell’intensa fatica sopportata negli ultimi 40 anni, e non ha, quindi, neanche il grasso accumulato dal proletariato dei paesi imperialisti (le cui riserve, non di meno, anche qui si sono in buona misura ridotte).
Il paese garante della stabilità è divenuto, così, il maggior produttore di caos. Il paese che aveva determinato l’equilibrio mondiale che sembrava durevolmente acquisito con l’enorme passo avanti del mercato mondiale del capitale, diviene il paese che minaccia di scuoterne le fondamenta allo scopo di rafforzare ancora di più i vantaggi già preminenti su tutti gli altri. O cedete alle nostre richieste, o lasceremo che il caos domini incontrastato, mettendovi di fronte alla vostra impossibilità di dominarlo.
Lungo questa via necessitata Trump costituisce solo un alfiere che perora la causa Usa con toni brutali e aggressivi, ma tutto il resto del potere Usa, dai dem al deep state, da Wal Street a Silicon Valley, esige un ri-equilibrio della stabilità mondiale a vantaggio Usa, con arretramenti da parte degli amici imperialisti, e dei nemici dipendenti, dominati e oppressi, a partire, ovviamente, dalla Cina.
Le necessità interne spingono amici e nemici a resistere alle pressioni Usa, ma dall’altro lato ciascun paese deve fare i conti con la necessità, divenuta imprescindibile, del mercato mondiale e del potere di gestione di esso in mano agli Usa, messogli saldamente in mano nell’interesse di tutti.
Una profonda crisi sociale negli Usa non è, perciò, un problema solo degli Usa. Amici e nemici possono ironizzare sulle carenze Usa contro la pandemia, sulla tuttora rilevante presenza di razzismo, sulla violenza della repressione contro gli anti-razzisti, ecc., ma ognuno di essi sa che sarà chiamato a versare il proprio contributo per evitare che il tutto degeneri in una crisi incontrollabile. E sa che non potrà sottrarvisi, pena l’esistenza stessa del mercato mondiale capitalista e, dunque, la propria stessa esistenza.
Fino a che punto può giungere la solidarietà obbligata? Il limite non è stabilito dalle leggi del capitale, ma dalla lotta di classe. L’esplosione simultanea di conflitti di classe in tutto il mondo renderebbe l’equilibrio sempre più impossibile, aprendo un’epoca di sconvolgimenti, che potrebbero produrre l’innesco di un processo di superamento del rapporto di capitale, oppure l’innesco dell’ultima risorsa disponibile, in extrema ratio, per preservare il capitale e, allo stesso tempo, fondare un nuovo equilibrio, e, inoltre, per produrre condizioni adatte a un nuovo rilancio dell’accumulazione su grande scala: la guerra mondiale generalizzata.
Segnali di smottamenti nelle alleanze e nei conflitti locali disegnano un quadro di sotto-fondo in cui la guerra comincia a preparare i suoi presupposti, ma la loro precipitazione non avverrà per scelte autonome delle borghesie al potere nei vari paesi, ma solo sotto l’impulso di lotte di classe diffuse e determinate.
Avranno le classi sfruttate dei paesi imperialisti e di quelli oppressi l’opportunità di avviare un percorso di collegamento internazionalista (per il quale lo sviluppo in senso anti-razzista e anti-capitalista del movimento Usa potrebbe apportare un appoggio decisivo) che impedisca o rallenti la guerra facendo ulteriormente aggravare la crisi del capitale e degli stati? Tema a cui andrebbe dedicato un apposito approfondimento che tenga conto della necessità di un bilancio della storia delle lotte di classe in epoca capitalista e dell’analisi puntuale di cosa è divenuto il rapporto di capitale e come in esso sia mutata la lotta di classe, con quali nuovi vincoli e con quali nuove possibilità.
L’augurio è che comincino a emergere forze che si confrontino con questi problemi, o, meglio ancora, che emergano conflitti sociali che ne sollecitino la costituzione, perché se rimane tuttora valido che non possa esserci rivoluzione senza teoria rivoluzionaria, è del pari tuttora valido che non possa esserci teoria rivoluzionaria senza che la rivoluzione inizi a premere nel sottosuolo sociale. Una teoria rivoluzionaria che non deve, naturalmente, essere scoperta ex-novo, ma che deve aggiornarsi e mettersi in linea con le necessità della lotta di classe nell’epoca attuale.
Improbabile che qualche parte della vecchia sinistra (anche quella più coerentemente comunista) abbia ancora benzina nel motore per affrontare la situazione nuova che va emergendo. E, se ancora la avesse, dovrebbe essere anzitutto consapevole di non essere portatrice di soluzioni pre-confezionate, valide per tutti i tempi (nonostante siano in tutti i tempi trascorsi fallite!), ma di potere, tuttalpiù, cercare d’individuare in anticipo almeno i principali nodi che l’antagonismo anti-capitalistico all’altezza del presente dovrà di necessità affrontare e sciogliere. Dando, con ciò stesso, un contributo decisivo allo sviluppo della lotta.
Note
su alcune di queste questioni si può vedere l’intervista a J. Halevi, uno dei pochi economisti di sinistra che ancora ci capisce qualcosa (non a caso allontanatosi da il manifesto anni fa) undefined
Fonte articolo: https://www.sinistrainrete.info/societa/18797-nicola-casale-la-sollevazione-anti-razzista-e-il-declino-usa.html