Comunicato.
1- Alcune note preliminari sulla situazione
Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La sua dimensione non permette al momento di darsi un’organizzazione politica strutturata in forma partito. Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo. Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove). Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso. Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.
L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario. Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati. Altrettanto chiaro è il nostro posizionamento ideologico: abbiamo sviluppato una durissima critica verso la sinistra che è sempre stata rivolta contro la sua adesione al liberalismo, questo senza mai assorbire elementi di destra, neppure ‘sociale’. Per noi lo slogan ‘né di destra né di sinistra’ vuol dire lottare per il socialismo e contro la sinistra liberale.
Ad esempio, la nostra critica all’Unione Europea è ed è sempre stata durissima. Tuttavia, su questo siamo stati sempre molto chiari: crediamo che l’uscita dall’Unione sia un mezzo e non un fine. Può sembrare una distinzione capziosa, da intellettuali sulla torre, ma il succo è semplice: il modo di uscire ha valore per noi più della stessa uscita in sé. Malgrado nel capitolo finale di “Il tramonto dell’Euro” (2012) Bagnai annunciasse la rottura finale per l’anno 2013, siamo ancora qui. E la rottura non è stata provocata dai mercati, non da un governo ‘sbagliato’ come non da uno ‘giusto’. Più prudentemente in “L’Italia può farcela”, due anni dopo, lo stesso autore poi andato con la Lega, dichiarava per i “prossimi anni, se non mesi” la bancarotta italiana o l’uscita dall’Euro. Il punto è che se mai ci sarà la rottura diventerà decisivo in quale direzione metteremo il paese. Quindi quali alleanze geopolitiche, quale struttura dei rapporti sociali, quale dominio sarà istituito e verso chi; che forma di cooperazione, che forma di internazionalismo avremo la forza di imporre. Sarà decisivo se prenderemo una nuova direzione o se sostituiremo il vincolo esterno con altre forme del solito vincolo interno che le nostre élite economiche, sociali e politiche da sempre impongono al resto del paese.
Il punto politico che ND intende proporre era chiarissimo fin dalla rinuncia al progetto con Fassina e Patria e Costituzione: volevamo e vogliamo esprimere un chiaro “no” alla subalternità alla sinistra, un “no” al tenere il moccolo all’Unione europea per cambiarla da dentro, poi un “no” al populismo comunicazionista ed un “no” al prestarsi come spalla alla destra sovranista, infine un “no” alla politica dei due tempi e all’uscita come fine.
2- L’Italexit è la soluzione?
A porre la domanda in questo modo è una nuova forza politica che, appena annunciata, viene accreditata di qualche punto percentuale nel mercato elettorale. La risposta potrebbe anche essere sì, ma la domanda è incompleta. La questione non è infatti se l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, sull’esempio britannico, sia la soluzione, ma di cosa lo sia. Uno strano consenso si raggruppa infatti sotto questo slogan, aggregando un’area che va dalla sinistra euroscettica alla destra sociale, includendo non pochi orfani della semplificazione introdotta dal neopopulismo del Movimento cinque stelle e della retorica salviniana primo modello (quella ispirata dal duo Bagnai-Borghi). Condivide un sentimento di ribellione e il senso del tradimento della promessa di benessere e promozione individuale che la svolta neoliberale degli anni ottanta e novanta portava con sé. Viene egemonizzato da quei ceti che sono stati illusi dalla rivoluzione neoliberale e sono cresciuti nella convinzione di poter raggiungere il benessere con le proprie sole forze. Ceti che oggi vedono come il gioco si praticasse con carte truccate. Sembra a tratti lo slittamento del sentimento antistatalista inculcato in decenni di propaganda neoliberale a reti unificate verso lo pseudostato europeo, visto come camicia di forza alla liberazione dei desideri individuali e delle relative energie. Ci sono dibattiti come quello sul Covid o le nuove reti di telecomunicazione che lo lasciano intravedere.
Si tratta di un intreccio di forze eterogenee e di sentimenti reattivi che, secondo le speranze della novella forza politica fondata dal senatore Paragone, potrebbe trascinarla oltre la soglia di sbarramento, andando a replicare l’operazione riuscita per il rotto della cuffia a Leu nella legislatura in corso (ma fallita con PaP). La speranza è di entrare nel Parlamento con qualche deputato e senatore, e porre le basi di un processo di radicamento. Restando ai due esempi citati ci sono poche somiglianze e molte differenze: entrambi i tentativi nel campo della sinistra erano sostanzialmente delle coalizioni di forze eterogenee con agende diverse, tenute insieme dal tentativo di fare una lista ed entrare in Parlamento, rinviando la creazione del soggetto politico ad una fase successiva; il programma era vago e non privo di contraddizioni. Il nascente partito, invece, raccoglie a sua volta forze eterogenee, ma immagina di partire dal soggetto politico per farne derivare la lista; inoltre cerca di replicare la parabola del Movimento 5 Stelle, fino alla scelta di intestare la comunicazione ad una società specializzata (facendo del suo titolare il comproprietario del marchio) e personalizzando tutto nella figura di Gianluigi Paragone. Si ha quindi un uomo, una scelta, un partito di scopo. La scelta è uscire dall’Unione Europea. L’uomo è il senatore Gianluigi Paragone, comproprietario del marchio. Il Partito è “Italexit”, allo stato con un Manifesto ma senza organi e statuto.
Nella narrativa proposta l’Unione Europea è individuata come il male assoluto e come un vincolo che dall’esterno impedisce all’Italia di essere, come potrebbe, forte, libera ed indipendente. Che ostacola il paese ed il suo popolo, entrambi al singolare, nelle sfide che dovrà affrontare nel mondo multipolare e di fronte all’arretramento della globalizzazione. Infine, che, impedendogli di esercitare la propria sovranità monetaria, lo costringe a privarsi delle politiche industriali, fiscali e del lavoro indispensabili per tornare a crescere. A questo livello di definizione non si potrebbe essere che d’accordo. Ma è proprio vero che l’Unione Europea nata a Maastricht (ma anche la Comunità Economica Europea che la precedeva) è un “vincolo esterno”? Ed è proprio vero che il soggetto della liberazione è “il popolo” ed il suo oggetto “il paese”?
L’esperienza di chiunque si sia avvicinato alla tradizione marxista impone di mettere questa immagine organica in discussione. Al cuore del sociale è la lotta non l’unità. La mossa da compiere è dissolvere le false rappresentazioni unitarie, espressione dell’egemonia data, per discriminare le posizioni soggettive create dai rapporti produttivi e dalle distribuzioni che ne derivano. Non è la ‘globalizzazione sfrenata’ a provocare la crisi, ma ciò che la causa: il pieno dominio del capitalismo e dell’imperialismo occidentali. L’Unione Europea, il dominio dei “mercati”, la mobilità dei fattori e la stessa mondializzazione sono la proiezione di rapporti sociali e produttivi costituenti il funzionamento del paese come esso è. Esprimono relazioni di potere che non si limitano a interessare dall’esterno un corpo “sano” ma determinano in profondità la posizione di ciascuno.
La questione non si dovrebbe porre, dunque, partendo dalla testa (ovvero dall’uscita dallo strumento), ma va posta sulle gambe: individuata a partire dalla messa in questione dei rapporti di produzione, della distribuzione dei prodotti sociali, dalla democratizzazione effettiva, dal superamento della competizione come principio di ordine e del capitalismo come suo motore primo. Muovendo da queste questioni bisogna accumulare la forza non già per entrare nel Parlamento, bensì per creare le condizioni di forza tra le classi e le diverse forze sociali perché si rompano insieme strumento e mano che lo brandisce.
E’ chiaro che se si dovesse uscire dalla Ue per ricreare l’assetto degli anni cinquanta saremmo in presenza di un ambiguo progresso. Non è affatto stato il ‘connubio tra la piccola e media impresa con le banche pubbliche, la grande industria di Stato e la pubblica amministrazione (istruzione, trasporti, sanità, ecc.)’ a fare del terzo quarto del secolo scorso un’epoca di emancipazione ed avanzamento, ma sono stati la forza e la pressione del movimento dei lavoratori, dei giovani, dei tanti movimenti civili di rivendicazione del riconoscimento e dei diritti. L’Italia ha avuto, in tutto il percorso che va dal dopoguerra agli anni ottanta, una fortissima crescita industriale ed economica, in parte sussidiata dallo Stato, ed ha costruito un modello di capitalismo misto che contiene in sé alcuni elementi di grande valore (come in questi anni l’esempio cinese mostra al mondo). Ma è solo la lotta instancabile dei lavoratori per partecipare ai risultati di questa espansione di ricchezza, e non la concessione dall’alto di questa, ad aver consentito, se pure in parte, di superare l’effetto autoritario dell’unione di monopoli pubblici a privati e a farne un elemento di emancipazione.
Questo modello di capitalismo, che sembra essere nell’immaginario trasfigurato della nuova formazione, era per sé enormemente distruttivo per l’ambiente e la natura; in se stesso foriero di costante crescita delle ineguaglianze; fondato sulla svalutazione del lavoro non meno di quello neoliberale (che ne è la continuazione con altri mezzi).
Se pure è quindi fondamentale recuperare la sovranità monetaria, stimolare una rinascita industriale, garantirsi la sovranità alimentare, il lavoro per tutti, il diritto alla salute e la cooperazione internazionale su piede di parità, bisogna subito individuare quale è la discontinuità che si chiede. Altrimenti si rischia nel migliore dei casi di essere facilmente neutralizzati, come è capitato al Movimento 5 Stelle, in altri di portare acqua al nemico, come è capitato a Leu.
C’è anche, ovviamente, il peggiore dei casi: portare retoriche ed immaginario verso la riproposizione di un capitalismo da anni cinquanta (e non sessanta). Un sistema nel quale: la ricostruzione, almeno nel primo decennio, fu finalizzata a consolidare sotto altra forma, dopo la ‘guerra di liberazione’, il dominio degli stessi ceti e classi di sempre (sotto la regia Usa); alla lotta all’inflazione sotto il golden standard seguì la lotta all’inflazione, magari sotto la protezione del Piano Marshall; al contenimento dei salari sotto il fascismo conseguì il contenimento ‘democratico’ sotto la Democrazia Cristiana; al vincolo ‘interno’ del regime altri vincoli non meno forti; alle retoriche sul sud del regime una politica di industrializzazione del Nord, con eliminazione dei “doppioni”; alla dittatura la crescita di un sistema clientelare di consenso, sussidiato nella misura necessaria a comprarlo.
Tornando alla domanda, quindi, di cosa l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea sia soluzione bisogna chiedersi se si tratta di superare la condizione di subalternità dei lavoratori tutti nella distribuzione e produzione imposta dal capitalismo contemporaneo che subordina tutto al proprio illimitato accrescimento, mercificando ogni relazione. Oppure se l’uscita sia solo una soluzione al problema del rango e della posizione del capitale italiano nel contesto della competizione internazionale, e quindi alla difesa del proprio ruolo sub imperialista, magari più strettamente interconnesso con il centro statunitense e più ostile ai suoi sfidanti. In sintesi, e per concludere con uno slogan: se la fuga dagli anni venti del XXI secolo deve ispirarsi agli anni cinquanta del XX, guerra fredda inclusa, noi non siamo della partita.
3- Due chiarimenti a proposito del “fare politica” e dello “sporcarsi le mani”
C’è un profondo fraintendimento su cosa voglia dire ‘fare politica’. Taluni lo interpretano come presentarsi alle elezioni e/o aderire a un organismo già organizzato. È chiaro che costruire dal nulla un movimento politico costa grande fatica e molto lavoro. Entrare in un partito con un capo ed esserci (confondendo la partecipazione con la presenza), è da questo punto di vista molto più semplice. L’attivismo viene scambiato con il tifo e la critica con l’esprimere opinioni sui social, attività che non influiscono sulla realtà. In più rispecchiarsi in un leader visibile e potente trasmette un senso di appagamento e permette di coltivare la propria immagine autoreferenziale. Tutto questo non è politica.
Altri invece intendono il “fare politica” come occupare posizioni di piccolo o grande potere, fruendo delle risorse pubbliche direttamente o indirettamente connesse con l’accesso alle istituzioni. Ci sono Partiti che si specializzano nel montare ‘Liste’ eterogenee solo per partecipare a questo gioco. Da quando la sinistra radicale ha perso la possibilità di superare in modo indipendente gli sbarramenti elettorali, con il fallimento della lista della sinistra arcobaleno nelle politiche del 2008, e la nascita di Sel (la quale nella sua breve parabola dal 2009 al 2016 arriva fino a 35.000 iscritti e si presenta alle politiche del 2013 in alleanza al Pd) è stato un continuo ricercare sigle e cartelli. L’attrattiva di questa tipologia di partiti consiste in sostanza nel nutrire le ambizioni di chi cerca un’occupazione politico-amministrativa. Anche questo può dare la parvenza che si fa qualcosa, mentre gli altri non fanno niente. Fra quelli che non fanno niente, ci sono le persone che fanno analisi (politica, economica, sociale), e svolgono attività sindacale, dialogando con soggetti e parti sociali. Tutte funzioni considerate non funzionali alla politica perché inutili dal punto di vista elettorale.
Veniamo ora allo “sporcarsi le mani”. Questo termine deriva dal concetto di lavoro, perché in genere è lavorando che ci si sporca le mani, con la terra, col grasso. Il lavoro che sporca le mani è spesso disperato, perché l’esito è incerto e i risultati si vedono dopo molto tempo; è il lavoro che si fa là dove non si arriva ad incidere con gli slogan, là dove le condizioni materiali sono terribili. Oggi il termine sporcarsi le mani viene viceversa scambiato con la disponibilità a toccare la merda pur di raggiungere gli obiettivi rapidamente, senza troppa fatica. Viene spesso richiamata la fortunata immagine di Rino Formica sulla politica come “sangue e merda”. Dimenticando che il primo termine è “sangue”, la politica è forza, radicamento, determinazione e volontà, obiettivo fino al sacrificio di sé. Rovesciare i termini, fuor di metafora, significa essere disponibili a fare alleanze di scopo con chi, una volta raggiunto il suo obiettivo, potrebbe trasformarsi nel carnefice della parte più debole. Ci si ‘sporca le mani’ perché si stipulano alleanze con il diavolo, sapendo che è tale. La questione non è mantenersi “puri”, avere le mani pulite. Ha piuttosto a che fare con ciò che con queste mani vogliamo fare, con che ‘sangue’ abbiamo. Per prendere una nuova direzione occorre fare molta attenzione ai lupi travestiti da agnelli, a coloro che vogliono tornare a prima degli anni della sollevazione popolare diffusa che prese avvio con le mobilitazioni operaie del 1963, quando il Paese era sotto il dominio statunitense, orientato alla domanda estera grazie ad una selvaggia compressione del lavoro, al controllo della moneta, alla deflazione provocata da manovre austeritarie. Allora non avevamo ancora sottoscritto Trattati della Ue, ma la piccola e media impresa italiana esprimeva la stessa feroce determinazione a schiacciare i lavoratori. Le mani dunque sporchiamocele pure, ma scegliamo anche a chi stringerle. Se alleanze sono necessarie, bisogna che i patti siano chiari e bisogna partire dal ‘sangue’, non dalla ‘merda’.
4- Sulla classe di riferimento e sulle opzioni possibili
Abbiamo sempre pensato che fosse importante ridare partecipazione e voce a chi non ce l’ha, in particolare alle periferie sociali ed economiche, ai lavoratori subalterni, alle partite iva forzate, ai dipendenti pubblici, ai giovani precari che non hanno famiglie facoltose alle spalle, ai Neet.
Altri questa voce ce l’hanno già. La classe imprenditoriale piagnona, grande e piccola, che denuncia la mancanza di aiuto da parte dello Stato e contemporaneamente la pigrizia dei lavoratori sfruttati con paghe da fame, non ha di questi problemi. Tramite le sue potenti associazioni riesce a pubblicare le proprie lagne sui giornali, e lo fa ogni giorno. Senza voce non è neppure la classe giovanile intellettuale di sinistra, alla quale non mancano le testate on-line su cui scrivere le proprie analisi. Alla fine è sempre dare più voce a chi già ha voce, dare potere politico a queste categorie, non a quelle escluse.
Sono anni che esiste un’area socialista/comunista anticapitalista che porta avanti la critica all’Unione europea in quanto incarnazione della più becera economia di mercato, della distruzione del potere contrattuale del lavoro, dell’esaltazione del capitale, della competizione intra ed extra europea, di una visione bipolare del mondo, di totale assenza di democrazia sostanziale e sovranità popolare. Per quest’area il tema dell’uscita dall’Unione europea è legato a doppia mandata a quello della necessità di dover cambiare il sistema, ribaltare il paradigma di mercato, andare a incidere sui rapporti di forza all’interno della società per rendere possibile e duraturo quel cambiamento. E questo comporta alla fine un profondo disaccordo con il mondo sovranista e la sua logica dei due tempi, con i finti CLN fuori del tempo e delle condizioni materiali. Un mondo che punta in sostanza a costruire un fronte con il capitalismo nazionale, a ridare potere alle classi padronali e imprenditoriali che sono rimaste fuori dal grande gioco. Segmenti di classe dominante spiazzati dal capitale europeo – che erroneamente identificano con un’intera nazione, “la Germania” – e per questo scontenti. Nella guerra tra i capitali, che non è nazionale quanto di natura funzionale ed organizzativa, si trovano molte cose, ma non la sovranità popolare. Quando si parla di popolo e volutamente si ignorano le classi, è perché si stanno facendo gli interessi di una a discapito di altre e queste non devono accorgersene, finché non sono ben incaprettate. Capiranno quando tenteranno di muoversi e il nodo alla gola si stringerà. Seguire il dibattito di questi giorni, tra blocco o meno dei licenziamenti, polemiche sui lavoratori, velati annunci di sacrifici futuri, mirabolanti programmi di spesa rivolti ad aumentare la interconnessione gerarchica e selettiva, aiuta a vedere dove sono gli interessi.
5- Concludendo.
Noi non siamo della partita se tutta la mobilitazione sovranista si riduce a dimenticare il ‘sangue’ e compromettersi con la ‘merda’, e punta a ritornare al sogno subimperiale del capitale nazionale. Magari nel contesto di una nuova guerra fredda che unisce la fobia del comunismo al razzismo occidentale.
Noi siamo nella partita, per quanto difficile, che punta a subordinare la logica del mercato (tutto, non solo finanziario) alle politiche realmente democratiche, rifuggendo dalle semplificazioni leaderistiche come dalle forme della democratura contemporanea. Siamo per mettere il ‘sangue’ al centro della politica e per rovesciare i rapporti sociali esistenti, a partire dai luoghi della produzione. Siamo per la piena affermazione di un nuovo mondo multipolare, contro ogni progetto neoimperiale.