Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Introduzione.
La forma valore del prodotto del lavoro è la forma piú astratta, ma anche piú generale, del modo di produzione borghese, che ne risulta caratterizzato come un genere particolare di produzione sociale, e quindi anche storicamente definito.[1]
[..] Marx era stato chiaro: ciò che contraddistingueva il suo approccio, e che fa di esso una critica piuttosto che una continuazione dell’economia politica, era la sua analisi della forma valore. Nella sua celebre esposizione de «Il carattere feticistico della merce e il suo segreto» egli scrive: |
Ora, l’economia politica ha bensí analizzato, seppure in modo incompleto, il valore, la grandezza di valore, e il contenuto nascosto in tali forme. Ma non si è nemmeno posto il quesito: perché questo contenuto assume quella forma? Perché, dunque, il lavoro si rappresenta nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale si rappresenta nella grandezza di valore del prodotto del lavoro? Formule che portano scritta in fronte la loro appartenenza ad una formazione sociale in cui il processo di produzione asservisce gli uomini invece di esserne dominato, valgono per la loro coscienza borghese come ovvia necessità naturale quanto lo stesso lavoro produttivo.[2]
Nonostante affermazioni del genere da parte di Marx, la connessione tra forma valore e feticismo — il rovesciamento perverso all’interno del quale gli uomini sono dominati dai risultati della loro stessa attività — non ha avuto un gran ruolo nell’interpretazione del Capitale fino al 1960. Al contrario, alcune interpretazioni del «pensiero economico di Marx» hanno enfatizzato l’idea, in apparenza semplice, contenuta nei primi due paragrafi del primo capitolo del Capitale, dove il lavoro è riconosciuto come fonte del valore delle merci. Gli ultimi due paragrafi del capitolo — sulla forma valore e il feticismo — venivano generalmente intesi come un modo piú o meno complicato di descrivere il mercato e venivano quindi letti frettolosamente. Di conseguenza non venne approfondito il modo attento con cui Marx distinse la propria concezione dall’economia politica classica di Ricardo.[3]
Quando i marxisti si sono occupati della teoria del valore lavoro, l’hanno fatto secondo l’aspetto quantitativo della sostanza e grandezza del valore piuttosto che da quello qualitativo della forma del valore. Contro la rivoluzione neoclassica nell’economia borghese, che aveva rinnegato la teoria del valore lavoro, i marxisti cercarono di riaffermare la posizione classica secondo cui il lavoro è la sostanza del valore e il valore è il lavoro incorporato nel prodotto. Proprio come l’economia politica classica, i marxisti non afferrarono la peculiarità del processo di riduzione sociale necessario affinché grandezze incommensurabili possano venire comparate. Anch’essi quindi non posero la questione del perché il lavoro appare nella forma valore del suo prodotto e quale tipo di lavoro possa apparire in questo modo. Tuttavia, secondo le indicazioni di Marx, è solo capendo la complessità della forma valore che si possono capire le forme successive del denaro e del capitale o il modo in cui l’attività umana assume la forma dell’accumulazione di capitale.
Per Marx, la forma valore è l’espressione del carattere duplice del lavoro nel capitalismo: da una parte lavoro concreto che si manifesta nel valore d’uso della merce e dall’altra lavoro astratto che si manifesta nella forma valore. Nonostante il lavoro astratto sia una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, il mancato raggiungimento di un’adeguata distinzione di questi due aspetti del lavoro conduce a considerare la forma valore come espressione del semplice e naturale lavoro umano in quanto tale. Il lavoro come contenuto o sostanza del valore era inteso come lavoro fisiologico, come qualcosa di indipendente dalla sua forma sociale. In questo senso la sostanza è intesa come qualcosa che risiede naturalmente nell’oggetto, ma per Marx il lavoro astratto e il valore sono qualcosa di piú complesso. Il valore è una relazione o un processo che si dispiega e si mantiene attraverso forme differenti — in un determinato momento come denaro, poi come merce necessaria al processo di produzione (merce forza lavoro compresa), successivamente come merce-prodotto, e poi ancora come denaro — anche se mantiene sempre una relazione con la merce quando è denaro e viceversa. Per Marx dunque, il valore non è né l’incarnazione del lavoro nella merce e nemmeno una sostanza immobile. È piuttosto una relazione o un processo che domina coloro che lo mettono in moto: una sostanza che è allo stesso tempo soggetto. Tuttavia nella tradizione marxista ortodossa non si comprendeva che il «lavoro astratto» è una forma socialmente e storicamente determinata di una parte dell’attività umana, che implica la trasformazione degli esseri umani in fattore per l’incremento senza limiti di questa attività e la conversione dei suoi risultati in un fine in sé. Comprendere il valore come una forma semplicemente imposta (dalla proprietà privata dei mezzi di produzione) su un contenuto di base non problematico in sé stesso andò di pari passo con una visione del socialismo inteso essenzialmente come una versione a direzione statale di quella stessa divisione industriale del lavoro che però nel capitalismo viene organizzata dal mercato. In questa visione il lavoro, governato dal mercato nel capitalismo, diventerebbe nel socialismo il principio cosciente di organizzazione della società.
Un’importante eccezione alla tradizionale mancanza di attenzione del marxismo per la forma valore e il feticismo fu rappresentata dall’economista russo Isaak Rubin. In un pionieristico lavoro svolto negli anni ’20, ha riconosciuto che la teoria del feticismo è anzi la base dell’intero sistema economico di Marx, e in particolare della sua teoria del valore,[4] e che il lavoro astratto in quanto contenuto del lavoro non è un in sé a cui si aggiunga dal di fuori la forma; ma è piuttosto il contenuto stesso che, nel corso del proprio sviluppo, si dà la forma già latente in esso.[5]
Ma il lavoro di Rubin, occultato in Russia, rimase piú o meno sconosciuto. Per l’ortodossia (ovvero «l’economia politica marxista») il fatto che la critica borghese vedesse in Marx essenzialmente un seguace di Ricardo non era da mettere in discussione. Piuttosto egli veniva difeso proprio su questa base, come colui che aveva corretto e messo in ordine il riconoscimento di Ricardo del lavoro come contenuto del valore e del tempo di lavoro come sua grandezza, e aggiunto ad esso solo una teoria dello sfruttamento definibile come «ricardiana di sinistra».
In questa visione il lavoro esiste quasi naturalmente nel prodotto, e lo sfruttamento è visto come un problema di distribuzione di quel prodotto — per questo la «soluzione» al capitalismo è intesa come un riorientamento della distribuzione in favore dei lavoratori, operata da questi tramite lo stato o altri mezzi. Se si concepisce lo sfruttamento come sottrazione di una porzione del prodotto sociale da parte di una classe dominante parassitaria allora il socialismo non deve modificare sostanzialmente la forma della produzione di merci, ma può semplicemente prenderne possesso, eliminare la classe parassitaria e distribuire il prodotto equamente.
Un retroterra comune.
La mancata considerazione della forma e del feticismo nella lettura del Capitale ha iniziato ad essere seriamente messa in discussione solo dalla metà degli anni ’60 — in parte grazie ad una riscoperta di Rubin — in un numero di approcci etichettati in momenti diversi come «teoria della forma valore». Il dibattito sulle sottigliezze della forma valore, su questioni di metodo, sulla questione del rapporto tra Marx e Hegel e cosí via, emersero allora, contemporaneamente alla teoria della comunizzazione. Sia la teoria della forma valore sia la comunizzazione sono l’espressione di un’insoddisfazione per le comuni interpretazioni di Marx e quindi di un rifiuto del marxismo «ortodosso» o «tradizionale». Per noi c’è un’implicita convergenza tra la teoria della forma valore e la teoria della comunizzazione, a tal punto che entrambe si possono influenzare reciprocamente in modo positivo. Analizzeremo qui i parallelismi storici tra queste due tendenze e i loro punti di convergenza.
Tra la metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 il capitalismo a livello mondiale era caratterizzato da intense lotte di classe e movimento sociali radicali: dalle rivolte urbane negli USA agli scioperi insurrezionali in Polonia, passando dai i movimenti studenteschi e la «ribellione giovanile» alla caduta di governi eletti democraticamente o meno in seguito alle agitazioni dei lavoratori. Consolidate relazioni sul posto di lavoro venivano ora messe in discussione, cosí come la famiglia, le questioni di genere e la sessualità, la salute mentale, e il rapporto tra uomo e natura, in un clima di generale contestazione che attraversava tutta la società. Collegato a queste lotte, il boom postbellico terminò in una crisi di accumulazione di capitale con inflazione alta e disoccupazione crescente. A molti il superamento del capitalismo e delle sue pseudoalternative dell’est sembrava essere all’ordine del giorno.
La comparsa sia del marxismo critico caratteristico della teoria della forma valore sia della teoria della comunizzazione trovavano i loro presupposti in queste lotte e nelle speranze rivoluzionarie da esse generate. Nello stesso modo in cui le due tendenze emersero in contemporanea, cosí tramontarono insieme all’ondata di lotte che le aveva prodotte. La crisi dell’accumulazione degli anni ’70, invece di condurre ad un’intensificazione delle lotte e al loro sviluppo in una direzione rivoluzionaria, provocò piuttosto una ristrutturazione radicale del capitalismo durante la quale i movimenti e le aspettative rivoluzionarie a loro collegati vennero globalmente sconfitti. Questa ristrutturazione portò alla relativa eclissi di queste discussioni. Cosí come la discussione sulla comunizzazione emerse in Francia nei primi anni ’70, per poi affievolirsi negli anni ’80 e primi ’90 e infine riapparire di nuovo recentemente […].
Comunizzazione.
Non l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio con la natura, e di conseguenza la loro appropriazione della natura, bensí la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che è posta compiutamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale, ha bisogno di una spiegazione ovvero è il risultato di un processo storico.[6]
La teoria della comunizzazione comparve come critica di varie concezioni della rivoluzione ereditate sia dalla Seconda che dalla Terza Internazionale, cosí come anche dalle tendenze dissidenti e dalle opposizioni. L’esperienza del fallimento della rivoluzione nella prima metà del 20° secolo sembrava porre come questione fondamentale il sapere se i lavoratori potevano o dovevano esercitare il loro potere attraverso lo stato e il partito (Leninismo, Sinistra Comunista Italiana) o organizzandosi sul posto di lavoro (anarcosindacalismo, Sinistra Comunista Tedesco-Olandese). Da una parte alcuni sostennero che fu l’assenza del partito — o del tipo giusto di partito — che condusse al mancato successo rivoluzionario in Germania, Italia o Spagna, dall’altra parte altri dissero che fu proprio il partito, e la concezione «statista» e «politica» della rivoluzione, che fallí in Russia e che giocò un ruolo negativo anche altrove.
Coloro che svilupparono la teoria della comunizzazione si rifiutarono di interpretare la rivoluzione in termini di forme di organizzazione, e al contrario tentarono di concepire la rivoluzione in termini di contenuto. La comunizzazione presupponeva il rifiuto della visione della rivoluzione come di un evento in cui i lavoratori prendono il potere seguito da un periodo di transizione: veniva invece concepita come un movimento caratterizzato dall’adozione di misure comuniste immediate (come ad esempio la distribuzione di beni) non solo per il pregio intrinseco a tali misure, ma anche come mezzo di distruzione delle basi materiali della controrivoluzione. Se, dopo una rivoluzione, la borghesia viene espropriata ma i lavoratori continuano a produrre in aziende separate, dipendendo dal rapporto con quel posto di lavoro per la propria sussistenza, e continuano a commerciare con altre aziende, rimanendo in poche parole dei lavoratori, a quel punto che il cambiamento sia autoorganizzato dai lavoratori o diretto centralmente da uno «stato operaio» conta poco: il contenuto capitalistico rimane, e prima o dopo il ruolo distinto o la funzione del capitalista risorgerà. Al contrario, la rivoluzione come movimento comunizzatore distruggerebbe — smettendo di costituirle e riprodurle — tutte le categorie capitalistiche: scambio, denaro, merce, l’esistenza di aziende separate tra loro, lo stato e — piú fondamentalmente — il lavoro salariato e la stessa classe lavoratrice.
Perciò la teoria della comunizzazione sorse in parte dal riconoscimento che opporre al modello partito-stato leninista un differente set di forme organizzative — consigli democratici, antiautoritari — non avrebbe portato alla radice del problema. In parte, questo nuovo modo di pensare alla rivoluzione sorse dalle caratteristiche e dalle forme della lotta di classe che uscí allo scoperto in quel periodo — come il sabotaggio, l’assenteismo e altre forme di rifiuto del lavoro — e da movimenti sociali esterni al luogo di lavoro, i quali negavano l’affermazione del lavoro e dell’identità operaia come base della rivoluzione. Un grande sprone allo sviluppo della nozione di comunizzazione fu il lavoro dell’Internazionale Situazionista (IS) che, con la propria prospettiva di una rivoluzione totale basata sulla trasformazione della vita quotidiana, aveva percepito e teorizzato i nuovi bisogni espressi nelle lotte, e che venne poi riconosciuta come miglior anticipazione ed espressione dello spirito del ’68 francese.
Ma se il concetto di comunizzazione fu in un senso il prodotto delle lotte e degli sviluppi del tempo, la capacità dell’ambiente francese di esprimerlo fu inseparabile da un ritorno a Marx, e in particolare la scoperta e la diffusione di un «Marx sconosciuto» presente in testi come i Grundrisse e i Risultati del processo immediato di produzione (da qui in poi Risultati). Prima che questi testi fossero resi disponibili nei tardi anni ’60, l’IS e altri critici del marxismo ortodosso tendevano ad attingere ad esempio dal giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Anche nel caso dell’IS e della Scuola di Francoforte, dove pure c’era un uso della teoria del feticismo e della reificazione presa dal Capitale, questo era mediato tramite Lukacs, e non era il prodotto di un’appropriazione dettagliata dei tre volumi del Capitale. Perciò la critica matura dell’economia politica come un tutto unico tendeva ad essere lasciata nelle mani del marxismo tradizionale. Come abbiamo già indicato, all’interno dell’interpretazione positivistica, la rilevanza della descrizione di Marx del suo stesso lavoro come una critica dell’economia politica e l’importanza della forma valore e del feticismo vennero quasi del tutto tralasciate. Testi nuovamente disponibili come i Grundrisse erosero le letture tradizionali e permisero di riconoscere la radicalità della critica matura.
Attraverso la loro marginale relazione con il marxismo ortodosso, coloro che si identificavano con la critica della Sinistra Comunista del bolscevismo e di ciò che avvenne in Russia erano in una buona posizione per leggere i testi di Marx nuovamente disponibili.
M Jacques Camatte e la rivista Invariance.
Molto importante nel contesto francese fu Jacques Camatte e la rivista Invariance che apparve la prima volta nel 1968. Oltre ad aver espresso un’apertura dell’eredità della tradizione della Sinistra bordighista italiana sia all’esperienza della Sinistra tedesco-olandese che alle lotte attuali del tempo, Invariance fu la sede di una nuova lettura di Marx. L’ex collaboratore di Camatte, Roger Dangeville, tradusse i Grundrisse e i Risultati in francese — mettendo i bastoni tra le ruote all’interpretazione di Marx antihegeliana di Althusser dominante in Francia. In Invariance Camatte pubblicò un importante commento a questi testi.[7]
Il testo di Camatte ebbe per la Francia post ’68 un ruolo simile a quello avuto nello stesso periodo da Genesi e struttura del Capitale di Marx di Rosdolsky per le discussioni in Germania.[8] Entrambi ricorrono abbondantemente alle citazioni per introdurre ed esplorare il significato dei testi marxiani che erano largamente sconosciuti all’epoca. Rosdolsky offre uno studio esauriente dei Grundrisse, mentre il resoconto meno sistematico di Camatte attinge da altri manoscritti di Marx, in particolare i Risultati. Nonostante Camatte riconosca i meriti del libro di Rosdolsky,[9] una differenza sta nel fatto che mentre Rosdolsky in ultima analisi riduce i Grundrisse a una mera preparazione per il Capitale, Camatte è piú in sintonia con il modo in cui questo e gli altri manoscritti del Capitale vanno al di là dell’interpretazione che i marxisti hanno ricavato dal lavoro piú maturo. Camatte riconobbe che i differenti modi in cui Marx introdusse e sviluppò la categoria di valore nelle varie versioni della critica dell’economia politica hanno un significato che va al di là del progressivo miglioramento dell’esposizione. Alcune delle prime analisi espongono aspetti come l’autonomizzazione del valore, la definizione del capitale come valore in processo e l’importanza della categoria di sussunzione, in una forma piú chiara rispetto alle versioni pubblicate. Nella lettura da parte di Camatte dei testi nuovamente disponibili troviamo il riconoscimento del fatto che le implicazioni della critica dell’economia politica marxiana erano di gran lunga piú radicali di quanto non avesse creduto l’interpretazione positivista ad opera del marxismo.[10]
Nel lavoro di Camatte c’è un’affascinante rottura con i presupposti marxisti tradizionali, una rottura che spicca nettamente nel contrasto tra il suo commento originale di metà anni ’60 e le note da lui aggiunte nei primi anni ’70. Mentre il commento antecedente è alle prese con la classica teoria marxista della transizione, nelle note posteriori gli assunti di questa teoria vengono respinti.[11] Cosí Camatte conclude le sue note del 1970 con un appello alla comunizzazione:
Dal momento che la quasi totalità degli uomini si leva contro il capitale e contro il lavoro, si tratta di una lotta contro il capitale e contemporaneamente contro il lavoro, come due aspetti della stessa realtà. In altri termini, il proletariato deve lottare contro il proprio dominio al fine di potersi negare in quanto classe e, dunque, distruggere sia il capitale sia le classi. Una volta conseguita la vittoria — su scala mondiale — la classe universale che si è realmente formata nel corso dell’ampio processo che ha preceduto la rivoluzione stessa, nella lotta contro il capitale (formazione del partito secondo Marx), che si è trasformata psicologicamente e ha trasformato a sua volta la società, non può che scomparire giacché diventa l’umanità stessa. Non ci sono piú gruppi al di fuori di essa. Soltanto allora il comunismo può svilupparsi liberamente. Non c’è piú da realizzare nessun comunismo inferiore e la fase di dittatura del proletariato si riduce alla lotta per la distruzione della società capitalistica, del potere del capitale.[12]
Frammenti e manoscritti.
Per la maggior parte dei teorici posteriori della comunizzazione, gli scritti di Marx precedentemente non disponibili divennero testi fondamentali. La traduzione dei Grundrisse e del suo famoso «frammento sulle macchine» influenzò direttamente il ragionamento originale di Gilles Dauvé sulla comunizzazione.[13] In questo frammento Marx descrive come il capitale, nel suo impulso ad aumentare la grandezza del pluslavoro, riduca il tempo di lavoro necessario al minimo attraverso l’applicazione massiccia della scienza e delle conoscenze alla produzione. Questo genera la possibilità dell’appropriazione da parte di tutti di quel sistema alienato di conoscenza, permettendo la riappropriazione del tempo di pluslavoro come tempo disponibile. Il comunismo è perciò inteso non nei termini di una nuova distribuzione della stessa tipologia di ricchezza fondata sul tempo di lavoro, ma come fondato su una nuova forma di ricchezza misurata sul tempo disponibile.[14] Il comunismo non è altro che una nuova relazione con il tempo, o addirittura un altro tipo di tempo. Per Dauvé, attraverso questa attenzione sul tempo, Marx sottintende una rottura radicale tra capitalismo e comunismo che «esclude l’ipotesi di qualsiasi via gradualistica al comunismo attraverso la progressiva distruzione della legge del valore» e dimostra pertanto l’inadeguatezza dell’alternativa consigliarista e democratica al leninismo.[15] |
I primi manoscritti mostravano inoltre una concezione piú radicale della rivoluzione, ad un piú fondamentale livello ontologico. I manoscritti rivelano che per Marx la critica dell’economia politica chiama in questione la divisione tra soggettività e oggettività, cosa significhi essere un individuo e ciò in cui consiste o meno il nostro stesso essere. Per Marx queste questioni ontologiche sono essenzialmente sociali. Egli considerò che gli economisti politici erano piú o meno riusciti a chiarire le categorie che definivano le forme sociali di vita nel capitalismo. Ma mentre la borghesia tendeva a presentare queste come necessità astoriche, Marx le riconobbe in quanto forme storicamente specifiche della relazione tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Il fatto che l’attività umana sia mediata da relazioni sociali tra cose imprime alla soggettività umana un carattere atomizzato e senza oggetto. L’esperienza individuale nel capitalismo è pura soggettività, con tutta l’oggettività esistente contro di essa sotto forma di capitale:
La separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non — capitale in quanto tale è 1) lavoro non oggettivato, negativamente concepito […] separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresí come non valore); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività del lavoro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva. […] 2) È lavoro non oggettivato, non valore, concepito positivamente, o negatività riferentesi a se stessa […]. È il lavoro non come oggetto, ma come attività non come valore esso stesso, ma come sorgente viva del valore. […] Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività o piuttosto i due lati di questa tesi del tutto contraddittoria si condizionano reciprocamente e derivano dalla natura del lavoro, giacché questo, come antitesi, come esistenza antitetica del capitale, è il presupposto dal capitale, e d’altra parte presuppone da parte sua il capitale.[16]
[…]
Il dibattito in Germania
La nuova appropriazione di Marx dalla quale è sorta la prospettiva della comunizzazione fu parte di un processo molto piú vasto di riappropriazione e sviluppo di letture radicali di Marx. Dopo la rivoluzione ungherese del 1956, il comunismo ufficiale perse l’egemonia sul dissenso e sull’interpretazione di Marx nei paesi occidentali. Mentre Marx aveva detto «dubitate di tutto», il marxismo ortodosso o tradizionale tendeva a presentarsi come una visione del mondo unitaria con una risposta per ogni questione. Aveva una filosofia onnicomprensiva (il «materialismo dialettico»), una visione meccanicistica della storia (il «materialismo storico») e il proprio pensiero economico (l’«economia politica marxista»).[17] Questi pilastri della versione ufficiale del marxismo furono messi in discussione attraverso un ritorno allo spirito critico di Marx, che ricordava da vicino il modo in cui una generazione precedente di marxisti critici era fiorita nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione russa.[18]
La rivitalizzazione della teoria marxiana in quel periodo, cosí come negli anni ’20, comportò una rottura dalla visione del marxismo come un sistema positivo di conoscenza e un rinnovo del riconoscimento della sua dimensione critica — un passaggio nel quale la relazione di Marx con Hegel fu nuovamente messa in questione. Da metà anni ’60, il rifiuto delle interpretazioni generalmente accettate di Marx iniziò ad estendersi al Capitale, il suo lavoro centrale. Nuove letture attinsero a precedenti manoscritti della critica dell’economia politica, ed erano interessate non solo ai risultati a cui Marx giunse, ma anche al metodo utilizzato per arrivarvi. Il Capitale venne in Francia riletto in modo strutturalista, in Italia Tronti e l’operaismo vi si dedicarono «dal punto di vista della classe operaia» e in Germania sorse una Neue Marx-Lektüre («nuova lettura di Marx»).
La lingua tedesca dette alla Neue Marx-Lektüre un chiaro vantaggio sullo studio di Marx rispetto ad altri paesi. Questi nuovi testi del «Marx sconosciuto» generalmente divennero disponibili e conosciuti prima in tedesco che nelle altre lingue, e non si presentavano problemi legati alla traduzione.[19] Inoltre, la grande risorsa culturale che Marx usò nella critica dell’economia politica — l’idealismo classico tedesco — non era soggetto agli stessi problemi di ricezione che il pensiero hegeliano aveva in altri paesi. Cosí, mentre in Italia e in Francia le nuove letture di Marx tendevano ad avere una forte impronta antihegeliana in reazione a precedenti fascinazioni per l’hegelismo e contro il «marxismo hegeliano», le discussioni in Germania furono capaci di sviluppare un quadro piú sfumato e informato del vincolo Hegel-Marx. Fondamentalmente si resero conto che, nella descrizione della struttura logica della totalità reale delle relazioni sociali capitalistiche nel Capitale, Marx era in debito non tanto con la concezione hegeliana di una dialettica storica, ma con la dialettica sistematica della Logica. Il nuovo marxismo critico (a volte spregiativamente chiamato Kapitallogik) aveva di conseguenza meno in comune con il precedente marxismo critico di Lukacs e Korsch che con quello di Rubin e Pašukanis. La Neue Marx-Lektüre non fu una scuola omogenea ma un approccio critico con all’interno accese discussioni e vere divergenze tra interlocutori che nondimeno condividevano una certa direzione.
Il contesto politico in cui sorsero i dibattiti tedeschi fu l’ascesa di un movimento studentesco radicale. Il movimento aveva due poli: uno tradizionale, alle volte collegato con lo Stato della Germania dell’est e con un orientamento marxista ortodosso verso il movimento operaio, e un piú forte polo antiautoritario influenzato dalla teoria critica della scuola di Francoforte, in modo particolare dalla sua dimensione psicoanalitica, che offriva una spiegazione al perché i lavoratori sembravano disinteressati alla rivoluzione.[20] Grazie, e non in piccola parte, all’influenza della scuola di Francoforte, il movimento studentesco tedesco ottenne rapidamente fama per la sofisticatezza teorica dei suoi dibattiti. La visione, ma anche l’instabilità e l’ambivalenza, del polo antiautoritario trovarono espressione nella traiettoria del suo leader carismatico Rudi Dutschke. Nel 1966, influenzato fortemente da Korsch, decretò anacronistica «la teoria dei due stadi» della rivoluzione comunista e «del tutto discutibile per noi» dal momento che
pospone l’emancipazione reale della classe lavoratrice nel futuro e considera la presa del potere statale borghese da parte del proletariato come di primaria importanza per la rivoluzione sociale.[21]
Ma coniò anche lo slogan «lunga marcia nelle istituzioni» che divenne la ragion d’essere del partito tedesco dei Verdi (a cui lui aderí, insieme all’altro leader antiautoritario Daniel Cohn-Bendit). Oggi è la riformista e del tutto statista Die Linke (il partito di sinistra in Germania) che si identifica piú fortemente con la sua eredità politica. Una figura piú importante dal punto di vista teorico all’interno della SDS fu Hans Jürgen Krahl, in modo particolare dopo che spararono a Dutschke. Krahl era uno studente di Adorno e portò molti dei concetti chiave delle «teoria critica» nel movimento, ma era anche un attivista (in un episodio tristemente famoso, Adorno denunciò alla polizia Krahl e i suoi compagni quando occuparono uno degli edifici dell’Istituto) e mantenne un orientamento ancorato al proletariato e alla lotta di classe.[22] Nonostante la Scuola di Francoforte, dedicandosi a questioni di psicoanalisi, cultura e filosofia, avesse in gran parte abbandonato lo studio della critica marxiana dell’economia politica nelle mani dei marxisti, furono Krahl e altri studenti di Adorno — Hans George Backhaus, Helmut Reichelt — che diedero inizio alla Neue Marx-Lektüre.
Cosí, mentre a rendere aperto il milieu «comunizzatore» alla radicalità dei nuovi testi marxiani fu il background nel comunismo dei consigli e in altre posizioni della sinistra comunista critiche del bolscevismo, in Germania — dove queste tendenze erano state distrutte nel periodo nazista[23] — fu Adorno e la scuola di Francoforte a giocare un ruolo in qualche modo equivalente. Sia il comunismo dei consigli che la scuola di Francoforte si svilupparono a partire dalla riflessione circa il fallimento della rivoluzione tedesca nel 1918–1919. Mentre la relazione del consigliarismo con la rivoluzione tedesca è piú immediato, Sohn-Rethel, parlando della scuola di Francoforte e di pensatori vicini come Lukàcs e Bloch, cattura con un’espressione paradossale la loro relazione piú complessa con quel periodo:
lo sviluppo moderno del pensiero marxista in Germania, di cui testimonia ad esempio la scuola di Francoforte, deriva da impulsi di allora, e quindi, in un certo senso, dipende dalla struttura teoretica ed ideologica della mancata rivoluzione tedesca[24]
Sebbene distaccata da qualsiasi ambiente proletario, la scuola di Francoforte aveva provato a mantenere vivo un marxismo critico ed emancipatore contro il suo sviluppo come ideologia apologetica per l’accumulazione statale in Russia. L’affinità con il comunismo dei consigli è piú evidente nei primi testi come Lo stato autoritario di Horkheimer, che gli studenti antiautoritari pubblicarono con la disapprovazione dello stesso Horkheimer, divenuto col tempo piuttosto conservatore. Ciononostante, una critica radicale della società rimane al centro dei testi meno immediatamente politici di Adorno come quelli degli anni ’50 e ’60 e forse proprio per il fatto di evitare la logica dell’efficacia politica immediata. Mentre «l’ultrasinistra» ha provato a mantenere viva la promessa emancipatrice della teoria marxista contro gli sviluppi concreti del movimento dei lavoratori enfatizzando l’autonomia contro la rappresentazione e le istituzioni della classe lavoratrice, la scuola di Francoforte ha provato a fare lo stesso, paradossalmente allontanandosi dalla lotta di classe immediata e dalle «questioni economiche».
Questo fece sí che la riappropriazione radicale di Marx negli anni ’60 in Germania assunse necessariamente la forma al contempo di una continuazione e di una rottura con la tradizione della scuola di Francoforte. L’intersezione tra una sensibilità ispirata dalla scuola di Francoforte e l’attenzione per lo studio approfondito della critica dell’economia politica da essi evitata, viene espressa da un aneddoto su Backhaus. Secondo Reichelt, l’origine del programma della Neue Marx-Lektüre può essere individuata nel momento in cui Backhaus, mentre era in un alloggio per studenti a Francoforte, incappò accidentalmente in una prima edizione del Capitale,[25] all’epoca molto rara. Notò che le differenze con la seconda edizione balzavano immediatamente all’occhio, ma anche che questo fu possibile esclusivamente perché egli seguí le lezioni di Adorno sulla teoria dialettica della società, per cui:
Se Adorno non avesse ripetutamente presentato l’idea di un «concetto nella realtà stessa», di un vero universale che può essere individuato nell’astrazione dello scambio, senza le sue domande sulla costituzione delle categorie e la loro relazione interna con l’economia politica, e senza la sua concezione di una struttura oggettiva che è diventata autonoma, questo testo sarebbe rimasto silenzioso — semplicemente come lo fu per i già (allora!) cento anni di discussione sulla teoria del valore di Marx.[26]
I dibattiti sulla nuova lettura del Capitale iniziarono realmente dopo il 1968. Le questioni che portarono allo scoperto, che vennero generalmente affrontate solamente anni dopo e spesso in maniera meno profonda all’interno di discussioni in altre lingue, riguardavano: il carattere del metodo marxiano e la validità della sua interpretazione engelsiana; la relazione tra lo sviluppo dialettico delle categorie nel Capitale e la dialettica hegeliana; il significato degli aspetti non completati del programma di Marx per la sua critica; l’importanza del termine critica e la differenza tra la teoria del valore di Marx e quella delle economia politica classica; la natura dell’astrazione nel concetto marxiano di lavoro astratto e nella critica dell’economia politica in generale.
Nonostante il loro carattere spesso filologico e astratto, ai dibattiti sulla nuova lettura del Capitale veniva attribuita un’importanza politica nell’attrito tra il polo antiautoritario e quello tradizionale all’interno del movimento studentesco, dove il secondo sosteneva che la cornice del marxismo ortodosso necessitava solo di essere aggiornata e aggiustata.[27] La Neue Marx-Lektüre mise in discussione questo progetto di un’ortodossia rinnovata schierandosi niente meno che per una ricostruzione fondamentale della critica dell’economia politica.[28]
Al tempo, la visione dominante del metodo di lavoro utilizzato nel Capitale era una variante di quello logico-storico proposto da Engels in testi come la sua recensione del 1859 del Contributo ad una critica dell’economia politica di Marx e la sua prefazione e integrazione al terzo volume del Capitale. In questa visione, la progressione delle categorie del Capitale segue da vicino il loro reale sviluppo storico, cosí che i primi capitoli del Capitale sono intesi come descrizione del periodo precapitalistico di «produzione semplice di merci» quando la «legge del valore» avrebbe agito in un modo puro. Nei dibattiti in Germania e successivamente a livello internazionale, l’autorità di Engels — cosí come quella del marxismo tradizionale che da essa derivava — venne del tutto messa in discussione. La Neue Marx-Lektüre affermava che né l’interpretazione di Engels, né una delle sue modifiche proposte,[29] diedero giustizia al movimento che stava dietro l’ordine e lo sviluppo delle categorie nel Capitale. Piú che un avanzamento da un stadio non capitalistico, o un ipotetico modello semplificato, di semplice produzione di merci verso uno stadio avanzato, o un modello piú complesso, della produzione capitalistica di merci, il movimento nel Capitale doveva venire inteso come presentazione della totalità capitalistica fin dall’inizio, muovendo dall’astratto al concreto. In The Logical Struure of Marx’s Concept of Capital (La struttura logica del concetto di capitale in Marx), Helmut Reichelt sviluppò un concetto che, sotto diverse forme, è ora basilare per i teorici della dialettica sistematica: ossia che la «logica del concetto di capitale» in quanto processo autodeterminato corrisponda all’andare al di là di se stesso del concetto nella Logica di Hegel.[30] Secondo questa visione il mondo del capitale può essere visto come oggettivamente idealista: per esempio la merce è una «cosa sensibile sovrasensibile».[31] La dialettica della forma valore dimostra come, partendo dalla piú semplice forma merce, gli aspetti materiali e concreti del processo della vita sociale sono dominati dalle astratte e ideali forme sociali del valore. Per Marx, come Reichelt nota:
Il capitale è concepito come un continuo cambiamento di forme, nel quale il valore d’uso è costantemente integrato e allo stesso tempo espulso. In questo processo, anche il valore d’uso, assume la forma di un oggetto eternamente evanescente. Ma questa scomparsa continuamente rinnovata dell’oggetto è la condizione per la perpetuazione del valore stesso — è attraverso il cambio di forme costantemente rinnovato che si conserva l’unità immediata di valore e valore d’uso. Ciò che dunque viene a costituirsi è un mondo capovolto nel quale il sensibile nel suo senso piú vasto — come valore d’uso, lavoro, scambio con la natura — è degradato a mezzo della auto riproduzione di un processo astratto che sottostà all’intero mondo oggettivo in continuo cambiamento. […] L’intero mondo sensibile degli esseri umani che riproducono se stessi attraverso il soddisfacimento dei propri bisogni e il lavoro è, pezzo per pezzo, risucchiato in questo processo, nel quale tutte le attività sono «in sé stesse capovolte». Sono tutte nella loro apparenza evanescente, immediatamente il loro opposto, la persistenza del generale.[32]
Questo è il capovolgimento ontologico, la possessione della vita materiale da parte del capitale. È ciò che Camatte comprese nel suo riconoscimento dell’importanza della comprensione del capitale in quanto valore in processo e come sussunzione. Se non c’è valore d’uso che non sia nella forma di valore nella società capitalistica, se valore e capitale costituiscono una potente, totalizzante forma di socializzazione che modella ogni aspetto della vita quotidiana, il loro superamento non è una questione di semplice sostituzione dei meccanismi del mercato attraverso un controllo statale o l’autogestione dei lavoratori di queste forme, ma richiede la trasformazione radicale di ogni sfera della vita. Per contrasto, la concezione tradizionale del marxismo derivata da Engels — secondo cui la legge del valore preesisteva al capitalismo — creò una separazione tra la teoria del mercato e del valore e quella del plusvalore e dello sfruttamento e cosí facendo creò la possibilità di idee come la legge del valore socialista, una forma di denaro socialista, un «mercato socialista» e cosí via.
Un Marx incompleto?
Parte della natura dogmatica del marxismo ortodosso consisteva nel considerare i lavori di Marx come un sistema completo al quale si doveva aggiungere solamente l’analisi storica degli stadi successivi del capitalismo, come l’imperialismo. La scoperta dei manoscritti e del piano di lavoro per la critica dell’economia politica dimostrò che il Capitale era incompleto, non solo nel senso che i volumi due e tre, e le Teorie sul plusvalore, non sono stati terminati da Marx e sono stati redatti rispettivamente da Engels e Kautsky,[33] ma anche che questi costituivano solo il primo di sei libri pianificati, insieme ai libri sulla proprietà della terra, il lavoro salariato, lo stato, il commercio estero, e «Il mercato mondiale e le crisi.»[34] Il riconoscimento del fatto che ciò che esiste è solo un frammento del progetto di Marx fu di grandissima importanza, poiché implicò una visione della teoria marxiana come progetto radicalmente aperto e diede inizio allo sviluppo di aree di indagine che vennero a malapena toccate dallo stesso Marx. Il cosiddetto dibattito sullo stato e il dibattito sul mercato mondiale furono tentativi di sviluppare alcune di quelle aree che Marx stesso non trattò sistematicamente nel Capitale.[35]
Attingendo al pionieristico lavoro di Pašukanis, i partecipanti al dibattito sulla derivazione dello stato intesero la separazione tra «sfera economica» e «sfera politica» come caratteristica peculiare della dominazione capitalistica. L’implicazione fu che — lontana dal dar vita ad un’economia socialista e uno stato dei lavoratori, come nel marxismo tradizionale — la rivoluzione dovrebbe essere concepita come distruzione sia della «sfera economica» che dello «stato». Nonostante l’aspetto astratto, e alle volte scolastico, di questi dibattiti, si inizia in questo modo a vedere come il ritorno critico a Marx, sulla base delle lotte dei tardi anni ’60 in Germania, ebbe implicazioni specifiche e radicali per la concezione del superamento del modo di produzione capitalistico.
Questo è ugualmente vero per il centrale concetto marxiano di lavoro astratto per come è concepito nei dibattiti tedeschi sul valore. Mentre nella scienza sociale borghese, e nella forma dominante del marxismo, l’astrazione è un fatto mentale, Marx affermò che nel capitalismo era presente una forma differente di astrazione: «astrazione reale» o «pratica» che le persone mettono in atto nello scambio senza nemmeno rendersene conto. Come indica l’aneddoto di Reichelt su Backhaus, fu l’idea di Adorno di un concetto oggettivo nella vita sociale capitalistica ad ispirare l’approccio caratteristico della Neue Marx-Lektüre alla critica marxiana dell’economia politica. Questa idea di Adorno e la sua nozione di «pensiero dell’identità» sono state a loro volta ispirate dalle idee che Alfred Sohn-Rethel gli comunicò negli anni ’30. Il dibattito in Germania avanzò cosí in seguito alla pubblicazione, avvenuta nel 1970, di queste idee nel libro di Sohn-Rethel Lavoro manuale e lavoro intellettuale.[36] In questo lavoro Sohn-Rethel identifica l’astrazione dall’uso che si da nel processo di scambio come la radice non solo dello strano tipo di sintesi sociale nella società della merce, ma proprio dell’esistenza del ragionamento concettuale astratto e dell’esperienza dell’intelletto indipendente. La tesi di Sohn-Rethel è che il «soggetto trascendentale» teorizzato esplicitamente da Kant non è altro che un’espressione teoretica e allo stesso tempo cieca dell’unità o identità della cose costituite attraverso lo scambio. Tali idee, insieme a quelle di Pašukanis su come il «soggetto legale» e la merce siano storicamente coprodotte, fanno parte di un periodo di disamina critica in cui tutti gli aspetti della vita, incluso il nostro senso di soggettività interna e la coscienza, vennero concepite come forme determinate dal capitale e dal valore.
Per Marx l’esempio piú calzante di «astrazione reale» è la forma denaro del valore, e probabilmente il contributo piú longevo del dibattito tedesco consiste nello sviluppo di una «teoria monetaria del valore» lungo la via già tracciata da Rubin. In un passaggio importante della prima edizione del Capitale Marx descrive il denaro come un’astrazione che perversamente prende un’esistenza nel mondo reale in maniera indipendente dalle sue particolarità —
È come se a fianco e al di là di leoni, tigri, conigli e tutti gli altri animali reali… esistesse in aggiunta anche l’animale, l’incarnazione indipendente dell’intero regno animale.[37]
I prodotti del lavoro privato devono essere scambiati con queste rappresentazioni concrete di lavoro astratto affinché la loro validità sociale possa essere realizzata in pratica. Cosí un’astrazione, piú che essere un prodotto del pensiero, esiste nel mondo come un oggetto dotato di oggettività sociale di fronte al quale tutto si deve inchinare.
Il marxismo tradizionale non diede importanza a questo dibattito, e seguí generalmente Ricardo e gli economisti borghesi nel vedere il denaro come un semplice mezzo per facilitare lo scambio di valori-merce preesistenti. Al contrario il dibattito tedesco notò lo strano tipo di oggettività del valore — che non fa parte di nessuna merce particolare, ma esiste solo nella relazione delle equivalenze tra una merce e la totalità delle altre merci — un qualcosa che può essere generato solo attraverso il denaro. Questo ruolo del denaro in una società mercantile generalizzata influisce sull’esperienza dello stesso lavoro vivo. Dal momento che il lavoro è semplicemente un’attività svolta per il denaro, il tipo di lavoro svolto non ha importanza ed è casuale. Il legame organico che esisteva in società precedenti tra individui particolari e specifiche forme di lavoro è spezzata. Un soggetto capace di muoversi indifferentemente tra diverse forme di lavoro si è formato:
Qui, dunque, l’astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione piú semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna.[38]
Il lavoro astratto, quindi, in quanto astrazione pratica è una forma di lavoro fondamentalmente capitalistica, un prodotto della riduzione di tutte le attività all’attività astratta finalizzata al generare denaro. Nella visione tradizionale, il superamento del modo capitalistico di produzione non necessita di abolire il lavoro astratto: il lavoro astratto, secondo questa visione, è una astrazione generica, una verità generale e transtorica sottostante l’apparenza della forma mercantile nel modo di produzione capitalistico. Questa verità risplenderebbe nel socialismo, dopo avere eliminato il ruolo parassitario dei capitalisti e aver rimpiazzato l’organizzazione anarchica del mercato del lavoro sociale con la pianificazione statale. Da un punto di vista critico, il marxismo tradizionale aveva trasformato delle forme e leggi capitalistiche in generali leggi storiche: in aree relativamente arretrate come la Russia, dove il marxismo diventò l’ideologia di uno sviluppo industriale a guida statale, il Capitale divenne una sorta di «manuale delle istruzioni». Al contrario, per i teorici della forma valore, la teoria del valore di Marx, in quanto teoria monetaria del valore, non è una teoria circa la distribuzione della ricchezza sociale, ma piuttosto una teoria della costituzione della totalità sociale sotto i dettami della produzione capitalistica della merce.39
La questione venne dunque spostata dalla distribuzione al superamento della forma del lavoro, della ricchezza e del modo di produzione stesso.
In diversi paesi, alle volte grazie alla conoscenza dei dibattiti tedeschi ma anche indipendentemente, ispirati da testi come i Grundrisse e i Saggi di Rubin, sorsero questioni simili a cui vennero trovate simili risposte. Per esempio, l’importanza della forma valore venne ripresa da Jacques Ranciere, allora seguace di Althusser. Althusser aveva correttamente identificato la completa rottura con il terreno teoretico di Ricardo e dell’economia politica classica ma fu incapace di identificare l’analisi della forma valore come centrale per questa rottura, perché la rifiutò a causa del suo «hegelismo». Ranciere, ad ogni modo, notò che ciò che distingue radicalmente Marx dalla teoria economica classica è l’analisi della forma valore della merce (o della forma merce del prodotto del lavoro).[40]
Questo riconoscimento fu fatto proprio anche da un altro antihegeliano, Colletti,[41] e alimentò un dibattito in Italia iniziato da lui stesso e Napoleoni,[42] che giunse a conclusioni vicine a quelle dei teorici della forma valore. Nel dibattito anglofono, dove pochissimo del dibattito tedesco venne tradotto fino alla fine degli anni ’70, Rubin ebbe una grande importanza.[43] Nella Conferenza degli economisti socialisti, un forum centrale per queste discussioni, ci fu un acceso conflitto tra la teoria del valore basata sul lavoro sociale astratto e ispirata da Rubin e una piú tradizionalista teoria del valore basata sul lavoro incarnato. Quelli del primo gruppo si diressero verso una teoria monetaria del valore, come nelle discussioni tedesche, ma la Logica di Hegel venne discussa troppo poco e la sua rilevanza troppo poco apprezzata per comprendere la relazione sistematica delle categorie nel Capitale.[44] In assenza di una traduzione di Reichelt e Backhaus, i pochi anglofoni che seguirono i tedeschi nell’intento di ricostruire il Capitale,[45] la scuola di Konstanz-Sydney, identificata come «value-form school» (scuola della forma valore), veniva vista dalla maggior parte dei partecipanti come eccessivamente estrema. È una caratteristica della dialettica sistematica, per come è emersa recentemente, quella di avere al centro della discussione le suggestioni del bisogno di una ricostruzione piú radicale.
(Anti)Politica della teoria del valore.
La rilevanza critica della teoria della forma valore consiste nel mettere in questione qualsiasi concezione politica basata sull’affermazione del proletariato in quanto produttore di valore. Riconosce il lavoro di Marx come una critica essenzialmente negativa della società capitalista. Attraverso la ricostruzione della dialettica marxiana della forma valore, dimostra come il processo della vita sociale venga sussunto, o determinato nella sua forma, dalla forma valore. Ciò che caratterizza tale «determinazione della forma» è una perversa priorità della forma sul contenuto. Il lavoro non preesiste semplicemente alla sua oggettivizzazione nella merce capitalista come terreno positivo da liberare nel socialismo o nel comunismo attraverso la modificazione della sua espressione formale. Piuttosto, in modo fondamentale, il valore, in quanto primaria mediazione sociale, preesiste e di conseguenza ha il dominio sul lavoro. Come argomenta Chris Arthur:
Al livello piú profondo, il fallimento della tradizione che usa il modello della «simple commodity produion», consiste nel focalizzarsi sull’individuo umano come origine delle relazioni del valore, piú che vedere l’attività umana come oggettivamente inscritta nella forma valore… Ad ogni modo, in verità, la legge del valore è imposta alle persone attraverso l’efficacia di un sistema con il capitale al suo cuore, il capitale che subordina la produzione di merci è l’obbiettivo della valorizzazione ed è il vero soggetto (identificato in quanto tale da Marx) che ci affronta.[46]
Mentre sembra vero e politicamente efficace[47] dire che noi produciamo capitale con il nostro lavoro, è in realtà piú corretto dire (in un mondo che è veramente sottosopra) che noi, in quanto soggetti del lavoro, siamo prodotti dal capitale. Il tempo di lavoro socialmente necessario è la misura del valore solo perché la forma valore pone il lavoro come suo contenuto. In una società non piú dominata da forme alienate, non piú organizzata attorno l’autoespansione di ricchezza astratta, l’ossessione per il lavoro che caratterizza il modo capitalistico di produzione scomparirà.[48] Con la scomparsa del valore, il lavoro astratto scompare in quanto categoria. La riproduzione degli individui e i loro bisogni diventano il vero fine in sé. Senza le categorie di valore, lavoro astratto e salario, il «lavoro» cessa di avere il suo ruolo sistematico come determinato dalla primaria mediazione sociale: il valore.
Questo è il motivo per cui la teoria della forma valore, per quanto riguarda la nozione di rivoluzione che muove da essa, è orientata nella stessa direzione della comunizzazione. Il superamento delle relazioni sociali capitalistiche non può comprendere una semplice «liberazione del lavoro»; piuttosto, l’unica «via di uscita» è la soppressione del valore stesso, della forma valore che pone il lavoro astratto come misura della ricchezza. La comunizzazione è la distruzione della forma merce e la simultanea fondazione di relazioni sociali immediate tra gli individui. Del valore, inteso come forma totalitaria della mediazione sociale, non ce ne si può sbarazzare solo a metà.
Il fatto che pochi teorici della forma valore hanno esplicitamente dedotto queste radicali conclusioni politiche dal loro lavoro è del tutto irrilevante: queste conclusioni politiche (o antipolitiche) radicali sono per noi le implicazioni logiche dell’analisi.
Un ritorno a Marx?
Il riconoscimento da parte della teoria della forma valore del «nocciolo nascosto» della marxiana critica dell’economia politica potrebbe suggerire che già nel 1867 Marx comprese il valore come una forma totalizzante di mediazione sociale da superare in blocco. In questo senso il marxismo, con la sua storia dell’affermazione del lavoro e l’identificazione con «l’accumulazione socialista» a guida statale, potrebbe essere visto come una storia del fraintendimento di Marx. La lettura corretta, che punta ad una negazione radicale del valore è stata, secondo questo punto di vista, in qualche modo mancata. Ad ogni modo, se la teoria marxiana della forma valore implicava la comunizzazione nella moderna accezione, allora era un’implicazione che lo stesso Marx evidentemente non scorse.
Infatti, l’atteggiamento di Marx verso l’importanza della sua teoria del valore fu ambivalente. Da una parte Marx insistette sull’importanza «scientifica», ma in reazione alle difficoltà che i suoi lettori ebbero nel comprendere le sue sottigliezze sembrò voler venire a compromessi su di essa per il bene della ricezione del resto del proprio lavoro.[49] Oltre a voler volgarizzare il suo lavoro e «nascondere il suo metodo», permise ad Engels (che come abbiamo visto fu uno di quelli che ebbero difficoltà su questo aspetto del lavoro del proprio amico) di scrivere varie recensioni in cui l’analisi del valore e del denaro veniva minimizzata in modo da non «ridurre l’argomento principale». Sembra che Marx ebbe questa posizione:
La teoria del valore è il prerequisito logico della sua teoria della produzione capitalista, ma non è indispensabile per la comprensione di ciò che questa seguente teoria significhi, e specialmente cosa sia la critica della produzione capitalista. Il dibattito marxista negli ultimi anni ha adottato questa presunta attitudine marxiana (cfr. anche il consiglio di Marx alla signora Kugelmann)[50] in ogni direzione ponendo il problema se la teoria marxiana del valore è necessaria per la teoria marxiana dello sfruttamento di classe.[51]
Marx sembrò accettare che una lettura piú o meno ricardiana di sinistra del suo lavoro potesse essere adeguata per le necessità del movimento dei lavoratori. I suoi scritti politici supponevano che una potente classe lavoratrice, unendosi attorno un’identità di classe sempre piú omogenea, avrebbe semplicemente esteso, tramite i suoi sindacati e i suoi partiti, le sue lotte quotidiane in un superamento rivoluzionario della società capitalistica. Contro Lassalle e il marxismo socialdemocratico dei suoi tempi, Marx scrisse la caustica Critica del Programma di Gotha nella quale ne attaccò fortemente le posizioni a favore del lavoro e gli assunti incoerenti in materia di politica economica. Ma non pensò fosse necessario pubblicarlo. E in piú le idee che propone anche nella Critica (che venne poi pubblicata da Engels) non sono per niente prive di problematiche. Includono una teoria della transizione nella quale il diritto borghese continuerebbe a prevalere nella distribuzione attraverso l’uso di buoni lavoro e in cui la descrizione del «primo stadio del socialismo» è molto piú vicino al capitalismo di quanto lo sia al piú attraente secondo stadio, ma senza spiegare il meccanismo secondo cui il primo evolve nel secondo.[52]
Sarebbe sbagliato suggerire che i dibattiti tedeschi ignorarono la distanza tra la posizione radicale che molti di loro stavano deducendo o sviluppando a partire dalla critica marxiana e la politica dello stesso Marx. Nei tardi anni ’70 un modo significativo in cui questa questione iniziò ad essere compresa fu nei termini di una differenza tra un «Marx esoterico» con una critica radicale del valore in quanto forma di una mediazione sociale totalizzante e un «Marx essoterico» in sintonia e in appoggio degli obbiettivi del movimento dei lavoratori del suo tempo.[53] Il Marx essoterico veniva inteso come se fosse basato su una lettura sbagliata del potenziale radicale del proletariato del 19° secolo. Una forte tendenza nel contesto tedesco divenne quella di rifiutare il Marx essoterico in favore del Marx esoterico. L’idea di Marx del capitale come soggetto automatico e inconscio rimpiazzò l’idea, che anche lui sembrò avere, di un proletariato come soggetto della storia. La lotta di classe non viene negata in questa visione ma vista come «immanente al sistema» — come qualcosa che si muove attraverso le categorie — e l’abolizione delle categorie viene ricercata altrove. Secondo questa visione Marx semplicemente sbagliò a identificarsi con il movimento dei lavoratori, che con il senno di poi ci ha dimostrato essere un movimento per l’emancipazione all’interno della società capitalistica e non il movimento di abolizione di quella società. Questa tendenza è esemplificata dai gruppi della «critica del valore» Krisis e Exit. Nonostante non usi la distinzione esoterico/essoterico, Moishe Postone, che ha sviluppato il suo pensiero a Francoforte nel primi anni ’70, argomenta essenzialmente in favore dello stesso tipo di posizione. In Time, Labor and Social Domination (Tempo, lavoro e dominazione sociale) vede Marx offrire una «critica del lavoro nel capitalismo» (il Marx esoterico) piuttosto che, come nel marxismo tradizionale, una «critica dal punto di vista del lavoro» (il Marx essoterico). È interessante rivelare che a parte il fatto di aver tolto l’attenzione dalla classe, Postone è piú esplicito della maggior parte dei marxisti accademici della forma valore nel dedurre le conclusioni dalla sua teoria che in termini politici lo posiziona nell’ultrasinistra o addirittura in accordo con le tesi della comunizzazione.[54] […]
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Nota redazionale.
Di piú, il marxismo si è decomposto nelle due forme del materialismo dialettico e del socialismo; il processo del comunismo è orientato verso l’accettazione dei valori della società opulenta, misurata dal sociologismo. Dunque perdita della dimensione del passato (è ciò che la società borghese ha accettato dal marxismo realizzandosi come puramente borghese, separata dal riferimento ad ogni altro valore che la «mistificava»), ma insieme di quella dell’avvenire. Dunque, alla realizzazione della pienezza e della libertà umana si è sostituito il processo di involuzione dell’uomo nell’animalità, cioè il nichilismo radicale. Espressione di questa borghesia soltanto tale, cioè di una società ridotta ai puri rapporti economici, è l’attuale democrazia pura, come democrazia elevata a valore, che differisce dal totalitarismo nei precisi termini in cui la «perdita del sacro» differisce dall’ateismo, e soltanto in essi: perché è anch’essa fondata, in ultima analisi, sulla forza, come quantità di voti, né riconosce, oltre alla forza, autorità di altri valori. (Augusto Del Noce. l problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 566–569
Il lettore del Covile si sarà forse chiesto perché una rivista di taglio conservatore è da qualche tempo attenta ad aree culturali che si richiamano al marxismo, cercando di vedere i risvolti e gli esiti della discussione al loro interno. Abbiamo definito gli autori di queste aree marxisti antimoderni, a significare che attingono il loro pensiero da quello di Marx in modo diverso ma altrettanto legittimo rispetto ai partiti comunisti protagonisti della lunga e tragica stagione rivoluzionaria del novecento conclusasi con la dissoluzione dei socialismi reali, ma anche rispetto a coloro che, prendendo atto del fallimento delle rivoluzioni comuniste, intendono ancora riferirsi a Marx come campione del progressismo culturale. Abbiamo voluto cioè far risaltare che nell’analisi marxiana del capitale esistono concetti quali quelli ad esempio di alienazione e estraniazione, mai rinnegati dal suo autore anche se largamente trascurati dalla sua lettura egemone, che pongono o dovrebbero porre serissimi interrogativi: ovviamente a chi al marxismo si richiama, ma non solo a costoro. Come sostenne Giovanni Paolo II dopo la caduta dei regimi comunisti atei, per la quale si era molto adoperato, ora un altro e ancor piú temibile avversario si stagliava all’orizzonte: quello di un capitalismo altrettanto ateo, o meglio a-religioso, attento solo agli aspetti materiali dell’esistenza. Le parole di Augusto Del Noce riportate sopra hanno identico significato. Oggi, a ormai tanti anni di distanza, possiamo ben dire che ciò che allora appariva solo come una possibilità, in realtà era consustanziale all’essenza stessa del capitale. Se Del Noce parlava di una borghesia soltanto tale, cioè di una società ridotta ai soli rapporti economici, e senza discutere in questa sede se la borghesia (e il proletariato) esistono ancora all’epoca del capitalismo finanziario globalizzato, appare ormai chiaro che la desacralizzazione, l’alienazione e l’estraniazione generalizzate, la deidentificazione e l’omologazione degli esseri umani ridotti a macchine per il consumo, cloni l’uno dell’altro a dispetto del conclamato sdoganamento di ogni diversità, non sono aspetti accidentali o contingenti del capitale, ma la sua vera realtà, il suo begriff (concetto). Finalmente liberatosi da bardature e freni che lo appesantivano (irrilevanza concreta delle religioni col loro portato di esigenze etiche e morali, sottomissione ferrea del politico all’economico), il capitalismo può dispiegare pienamente sé stesso. Tutto ciò interroga necessariamente il marxismo, soprattutto la lettura di Marx in chiave progressista sul piano culturale col corollario della inesistenza di una natura in sé degli esseri umani, e la pretesa della sua scientificità come scoperta definitiva delle leggi di trasformazione sociale. Sempre Del Noce, trattando de Il suicidio della rivoluzione, ebbe a scrivere parole illuminanti:
Ma la riduzione della ragione marxista a semplice ragione scientifica, non sembra significare affermazione della naturalità filosofica del marxismo? E affermare questo non è anche smorzarne lo spirito rivoluzionario? Si può ancora parlare di rivoluzione quando questa non attinge i valori?
Ma gli esiti oggi evidenti del capitalismo interrogano pesantemente anche il pensiero conservatore classico [55] e quello cattolico, o meglio quella sua parte, del resto assolutamente prevalente, che, legatasi al capitalismo liberale in opposizione all’ateismo marxista dei paesi comunisti, ha creduto di poter realizzare in esso, o per suo tramite, le proprie istanze. Lo vediamo ogni giorno, ad esempio nell’illusione di conciliare il capitalismo con la difesa della vita dal concepimento alla sua fine o con la difesa della differenza sessuale; in generale nell’illusione che le liberaldemocrazie occidentali siano il luogo politico, economico e culturale in cui le istanze conservatrici in termini di etica e di morale ma anche di consolidati usi, costumi, tradizioni popolari e religiose, insomma in tutto ciò che Burke definiva come ordine sociale, possa meglio essere preservato.
Si dà allora la necessità di una reciproca, profonda riflessione, senza cadere nel sincretismo o perorare alleanze politiche spurie. Crediamo che il testo di Endnotes sulla forma valore che proponiamo in questo numero, esemplare nella sua chiarezza, possa essere un contributo importante di rivisitazione della propria cultura, non solo per chi si richiama al marxismo, ma anche per coloro che, da posizioni culturali opposte, intuiscono gli esiti finali della modernità. Del resto, cosí come il marxismo piú intelligente è debitore verso il grande pensiero conservatore, non c’è nulla di scandaloso nell’ammettere anche il contrario.
[1] Marx, Il Capitale, a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi, Torino, Utet, 2009, vol. 1, p. 160, nota a.
[2] Marx, Il Capitale, cit., vol. 1, pp. 158–59.
[3] Allo stesso tempo, Marx stesso sembrò riconoscere l’esistenza di un problema nella sua analisi della forma valore, che lo portò a redigere almeno quattro versioni sull’argomento. Ci sono differenze notevoli nello sviluppo del concetto di valore nei Grundrisse, Urtext, il Contributo, la prima edizione del Capitale con la sua appendice, e la seconda edizione del Capitale; e le versioni successive non possono in nessun modo essere considerate come miglioramenti generali rispetto a quelle precedenti. Infatti le presentazioni in qualche modo piú popolari — che Marx sviluppò in risposta alla difficoltà che persino chi gli era vicino ebbe nel comprenderlo — persero alcune sottigliezze dialettiche, e si prestarono di piú alle letture «ricardiane di sinistra» del ragionamento marxiano che avrebbero poi dominato il movimento dei lavoratori. Vedi Hans-Georg Backhaus, «On the Dialeics of the Value-Form» Thesis Eleven 1 (1980); Helmut Reichelt, «Why Marx Hid His Dialeical Method» in Werner Bonefeld et al., eds, Open Marxism vol. 3 (Pluto Press, 1995).
[4] Isaak Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 5.
[5] Ibid., p. 94. Riccardo Bellofiore ha fatto notare che Rosa Luxemburg fu un’altra eccezione all’interno del marxismo tradizionale nell’aver posto attenzione alla forma valore. Vedi la sua introduzione a Rosa Luxemburg and the Critique of Political Economy (Routledge 2009), p.6.
[6] K. Marx, Forme che precedono la produzione capitalistica, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 29–30.
[7] Jacques Camatte, Il Capitale totale. Il «capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica. Edizioni Dedalo, Bari, 1976. Originariamente pubblicato in Invariance Prima serie n.2 (1968).
[8] Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del Capitale di Marx. Edizioni Laterza, Bari, 1971. Originariamente pubblicato in tedesco nel 1968.
[9] Camatte tuttavia critica Rosdolsky per «non giungere al punto di affermare ciò che crediamo sia fondamentale: il capitale è valore in processo, che diventa uomo.» Jacques Camatte, Il Capitale totale, cit., p.19.
[10] Questo è una lettura dei Grundrisse che piú tardi verrà identificata con Negri. Infatti è stato sostenuto che i primi lavori di quest’ultimo siano debitori per certi versi nei confronti di Camatte. Al di là delle notevoli ambivalenze della politica dell’autonomia, il capitolo «Comunismo e transizione» in Marx oltre Marx (1978) di Negri argomenta essenzialmente in favore della comunizzazione.
[11] Commentando la sua precedente idea di un «dominio formale del comunismo» Camatte scrive: «la periodizzazione perde oggi la sua validità; inoltre la rapidità della realizzazione del comunismo sarà accelerata rispetto a quanto si è pensato in precedenza. Infine dobbiamo specificare che il comunismo non è ne un modo di produzione, né una società..» Questa nota compare nell’edizione inglese a p. 148, n.19 mentre nella traduzione italiana la stessa nota compare a p. 466 n. 25 ma senza l’aggiunta del 1972 qui riportata. La traduzione dall’inglese è quindi nostra.
[12] Ibid., p. 25 (Nota del 1970).
[13] Gilles Dauvé (Jean Barrot) «Sur l’Ultragauche» (1969), prima edizione in inglese con il titolo «Leninism and the Ultraleft» in: Jean Barrot (Gilles Dauvé) e François Martin, Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement, Black and Red, 1974, p. 104.
[14]«Giacché la ricchezza reale è la produttività sviluppata di tutti tutti gli individui. E allora non è piú il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza.» Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1978, II volume, p. 405. È interessante il fatto che Moishe Postone, il quale ha chiarito esplicitamente le implicazioni politiche radicali dell’approccio «forma valore» ponga questi passaggi alla base della propria reinterpretazione di Marx. Si veda: Time, Labor and Social Domination (Cambridge University Press 1993).
[15] Gilles Dauvé, Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement, Black and Red, 1974, p. 61, traduzione nostra
[16] K. Marx, Lineamenti, cit., I vol., pp. 279–80.
[17]Per un’interpretazione del «marxismo tradizionale» come «marxismo filosofico» («worldview marxism») si veda Michael Heinrich, «Invaders from Marx: On the Uses of marxian Theory, and the Difficulties of a Contemporary Reading», Left Curve 31 (2007) pp. 83.8. Questo modo di caratterizzare il «marxismo tradizionale» sembra avere origine con il marxista umanista Iring Fetscher, con il quale Reichelt e Postone studiarono. Si veda il suo Marx and Marxism (Herder and Herder 1971).
[18] Lavori di spicco di quel periodo sono Storia e coscienza di classe di Lukács, Marxismo e filosofia di Korsch, Saggi sulla teoria del valore di Marx di Rubin e La teoria generale del diritto e il marxismo di Pašukanis. Una delle caratteristiche del nuovo periodo fu la riscoperta di molti testi di questo periodo precedente, e un approfondimento delle loro tematiche.
[19] Come nota Chris Arthur, un esempio significativo di ciò consiste nel fatto che quasi tutti i riferimenti al lavoro «incorporato» nel Capitale sono traduzioni del termine tedesco Darstellung che potrebbe essere tradotto in modo migliore con «rappresentato». Si veda «Reply to Critics» Historical Materialism 13.2 (2005) p.217
[20] Questo includeva un interesse per Freud e Reich combinato con i feroci attacchi di Adorno al revisionismo della psicoanalisi contemporanea, il Marcuse di Eros e civiltà e L’uomo ad una dimensione e l’analisi della Scuola della «personalità autoritaria».
[21] Rudi Dutschke, «Zur Literatur des revolutionären Sozialismus von K.Marx bis in die Gegenwart» SDS-korrespondenz Sondernummer 1966
[22] Krahl morí in un incidente automobilistico nel 1970. La collezione dei suoi scritti e discorsi pubblicata postuma — Konstitution und Klassenkampf — non è stata ancora tradotta in inglese. [In italiano: Hans Jürgen Krahl, Costituzione e lotta di classe, Milano, Jaca Book, 1973. (N.d.R.)]
[23] Un eccezione significativa fu quella di Willy Huhn, che influenzò alcuni membri della SDS di Berlino. Membro di «Rote Kämpfer», un nuovo raggruppamento di membri del KAPD dei tardi anni ’20, Huhn fu imprigionato per un breve periodo dai nazisti nel 1933–34, dopodiché tornò al lavoro teorico che include un’importante critica della socialdemocrazia: Der Etatismus der Sozialdemokratie: Zur Vorgeschichte des Nazifaschismus. Ciononostante fu solo dopo il picco del movimento che i comunisti dei consigli vennero riscoperti a dovere e pubblicati.
[24] Egli aggiunge: «La condizione paradossale di questo movimento ideologico può aiutare a spiegare la sua quasi esclusiva preoccupazioni per questioni sovrastrutturali, e l’evidente mancanza di attenzione per la base economica e materiale sottostante.» Alfred Sohn-Rethel, Lavoro manuale e lavoro intellettuale, Feltrinelli, 1977, p. 19 Cfr. la prima riga della Dialettica Negativa di Adorno: «La filosofia che una volta sembrò superata si mantiene in vita perché è stato mancato il momento della sua realizzazione.» Theodor Adorno, Dialettica Negativa, Einaudi, 2004, p. 5.
[25] La prima edizione tedesca del Capitale presentava grosse differenze — specialmente nella struttura e nello sviluppo del primo capitolo sulla merce e sul valore — rispetto alla seconda edizione, che fu la base delle successive edizioni leggermente modificate e delle traduzioni in altre lingue
[26] Helmut Reichelt, Neue Marx-Lektüre: Zur Kritik sozialwissenschaftlicher Logik (VSA-Verlag, 2008) p.11.
[27] Mentre il polo marxista tradizionale della SDS fino al 1968 fu essenzialmente riformista, appellandosi ad una transizione legale al socialismo, quello che emerse dopo il 1968 fu antirevisionista in senso maoista-stalinista. Questo fu il periodo in cui molti che un tempo furono antiautoritar persero la loro critica del marxismo partitico e vennero coinvolti nella fondazione dei «K-Groups» («K» stava per Kommunist).
[28] Si veda Michael Heinrich, «Reconstruion or Deconstruion? Methodological Controversies about Value and Capital, and New Insights from the Critical Edition» in Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi, eds., Re-Reading Marx: New Perspeives after the Critical Edition (Palgrave Macmillan 2009).
[29] Ad esempio, Grossman propose l’idea di successive approssimazioni nelle quali Il Capitale avrebbe presentato una serie di modelli analitici via via piú complessi in relazione all’aggiunta di ulteriori aspetti della realtà.
[30] Helmut Reichelt, Zur logischen Struktur des Kapitalbegriffs bei Karl Marx (Suhrkamp Verlag 1970). Quanto stretta sia da essere intesa questa corrispondenza è oggetto di grande dibattito. Si veda la discussione tra Chris Arthur, Tony Smith e Roberto Finelli in Historical Materialism (numeri 11.1, 15.2 e 17.1). In Germania Michael Heinrich e Dieter Wolff criticherebbero, sotto diversi aspetti, l’idea di «un’omologia» tra capitale e spirito.
[31] Questa è la piú accurata traduzione ad opera di Bonefeld di «sinnlich übersinnlich» tradotta malamente nelle edizioni inglesi del Capitale. Si veda la sua nota come traduttore a: Helmut Reichelt, «Social Reality as Appearance: Some Notes on Marx’s Conception of Reality», in: Werner Bonefeld e Kosmas Psychopedis, eds., Human Dignity. Social Autonomy And The Critique Of Capitalism (Hart Publishing 2005), p.31.
[32] Ibid., p. 46–47.
[33] Quando a Mosca vennero ripubblicate le Teorie sul plusvalore, furono in grado di mettere in discussione le decisioni editoriali di Kautsky, cosa che non avrebbero mai preso in considerazione per i notevoli cambiamenti apportati da Engels al Terzo Volume. Una pubblicazione dei Manoscritti originali (in tedesco) rivela che il lavoro di Engels comprendeva importanti riscritture e discutibili decisioni editoriali, ma un tale mettere in discussione il corpus centrale del marxismo appariva come un anatema al marxismo tradizionale. Si veda Michael Heinrich: «Engels’ Edition of the Third Volume of Capital and Marx’s Original Manuscript», in: Science & Society, vol. 60, no. 4, 1996, pp. 452–466
[34] Rosdolsky polemicamente sostiene che il secondo e terzo libro sono incorporati in un piano modificato del Capitale, ma anche se uno dovesse essere d’accordo con lui piuttosto che con le controargomentazioni di Lebowitz e Shortall, i rimanenti tre libri sono chiaramente un’impresa incompiuta.
[35] Per il dibattito sulla derivazione dello Stato si veda: John Holloway e Sol Picciotto, eds,. State and Capital: A Marxist Debate (University of Texas Press 1978) e Karl Held e Audrey Hill, The Democratic State: Critique of Bourgeois Sovereignity (Gegenstandpunkt, 1993). È stato tradotto molto poco (in lingua inglese n.d.t) del dibattito sul mercato mondiale, ma si veda: Oliver Nachtwey e Tobias Ten Brink, «Lost in Transition: the German World-Market Debate in the 1970s», Historical Materialism 16.1 (2008), pp. 37–70.
[36] Alfred Sohn-Rethel, Geistige und körperliche Arbeit. Zur Theorie gesellschaftlicher Synthesis (Suhrkamp 1970). Trad. italiana: Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale (Feltrinelli Editore 1977).
[37] Marx, «The commodity, Chapter One, Volume One of the first edition of Capital» in Value: Studies by Karl Marx, trad. di A. Dragstedt (New Park 1976), p. 27. Traduzione nostra.
[38] K. Marx, Lineamenti, cit., I vol., p. 32.
[39] Michael Heinrich, «Invaders from Marx: On the Uses of Marxian Theory, and the Difficulties of a Contemporary Reading», Left Curve 31 (2007)
[40] Jacques Rancière, «Le Concept de Critique et la Critique de l’Economie Politique des Manucrits de 1844 au Capital», in Althusser et al, Lire le Capital (RUF 1996), p.128. Ed. italiana in commercio: Leggere il Capitale (Mimesis, 2006) oppure Critica e critica dell’economia politica. Dai «Manoscritti del ’44» al «Capitale», Feltrinelli, 1973.
[41] Lucio Colletti, Il marxismo e Hegel: Materialismo dialettico e irrazionalismo (Laterza, 1969).
[42] Si veda Riccardo Bellofiore, «Quanto vale il valore lavoro? La discussione italiana intorno a Marx: 1968–1976», Rivista di Politica Economica, vol. 89 (1999).
[43] Tuttavia, stranamente, l’importanza di Rubin venne sottostimata nei dibattiti tedeschi. Gli Studi vennero tradotti dall’inglese in tedesco solo nel 1973, e venne omesso il primo capitolo sul feticismo. Si veda Devi Dumbadze «Sachliche Vermittlung und soziale Form. I.I. Rubins Rekonstruktion der marxschen Theorie des Warenfetischismus» in Kritik der politischen Philosophie Eigentum, Gesellsschaftsvertrag, Staat II
[44] Un’importante eccezione è rappresentata dal pionieristico saggio di Jairus Bnaji: «From the Commodity to Capital: Hegel’s Dialeic in Marx’s Capital», in Diane Elson, ed., Value: The Representation of Labour in Capitalism (CSE Books 1979).
[45] e.g: Michael Eldred, Critique of Competitive Freedom and the Bourgeois-Democratic State: Outline of a Form-Analytic Extension of Marx’s Uncompleted System (Kurasje 1984).
[46] Chris Arthur, «Engels, Logic and History» in Riccardo Bellofiore, ed., Marxian Economics a Reappraisal: Essays on Volume III of Capital, vol. 1 (Macmillan 1998), p. 14. Trad. nostra.
[47] Mike Rooke per esempio critica Chris Arthur e l’approccio della dialettica sistematica per il fatto di «reificare la dialettica» e di perdere il suo significato di «dialettica del lavoro». «Marxism, Value and the Dialeic of Labour», Critique Vol. 37, No. 2, May 2009, pp. 201–216.
[48] Al di là della società di classe «il lavoro» — il bisogno umano di scambio con la natura («il corpo inorganico dell’uomo…con il quale deve rimanere in perpetuo scambio se non vuole morire [Manoscritti economico-filosofici]) non è un obbligo esterno ma un’espressione della propria natura. La decisione, ad esempio, di dover fare qualcosa per mangiare, non è un obbligo.
[49] Per una discussione (sulla scorta di Backhaus) [in lingua inglese, N.d.T] si veda Michael Eldred, Prefazione a Critique of Competitive Freedom and the Bourgeois-Democratic State (Kurasje 1984), xlv-li.
[50] Marx consigliò alla moglie del suo amico di saltare, a causa della sua difficoltà, la prima parte del Capitale (sul valore e il denaro) — Eldred si riferisce qui al fatto che molti lettori di Marx come quelli influenzati da Sraffa e Althusser che questo sia il modo giusto per approcciarsi a Marx.
[51] Michael Eldred, Ibid. pp. Xlix-l.
[52] Si veda R. N. Berki, Insight and Vision: The Problem of Communism in Marx’s Thought (JM Dent 1984) capitolo 5.
[53] Nonostante possa benissimo derivare da Backhaus, secondo Van der Linden la distinzione fu coniata da Stefan Bruer in «Krise der Revolutionstheorie» (1977). Marcel van der Linden, «The Historical Limit of Workers’ Protest: Moishe Postone, Krisis and the Commodity Logic», Review of Social History, vol. 42 no. 3 (December 1997), pp. 447–458.
[54] Come Dauvé, Postone prende il «Frammento sulle macchine» per indebolire le tradizionali concezioni marxiste del socialismo; egli vede il marxismo come un marxismo ricardiano alla ricerca dell’autorealizzazione del proletariato piuttosto che, come in Marx, la sua autoabolizione, concepisce l’URSS come capitalista, e […] sottolinea la costituzione storica sia dell’oggettività che della soggettività. Ad ogni modo quando si tratta di giungere a posizioni pratiche nel presente si orienta verso riforme, affermando significativamente che le sue analisi «non significano che io sono un ultra». Moishe Postone e Timothy Brennan, «Labor and the Logic of Abstraion: an interview» South Atlantic Quarterly 108:2 (2009) p. 319.
[55] Sulle differenze all’interno del conservatorismo, che qui non possiamo discutere, si veda Il Covile n° 841, marzo 2015.
Fonte articolo: https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_928_EndNotes.pdf