Questa narrazione corrisponde, più o meno, a una speranza. Quella di chi vuole scorgere nello smart working un modo per provare a uscire dalla routine della giungla d’asfalto cittadina, dalle ore passate su un Grande Raccordo, dalle metropolitane affollate, dai propri uffici/isole che assomigliano ad alveari impersonali. Desiderio comprensibile. Riportare l’esistenza a cadenze più lente, che si confanno ad aspirazioni personali non necessariamente legate alla produttività. Fosse così si assisterebbe a un vero cambiamento di paradigma. Invertire l’apriorismo culturale del neo-liberismo: la felicità si trova dentro la produzione e negli interstizi dell’aspirazione al consumo.
Una volta però infranto il sogno a occhi aperti, se si lascia stare per un momento la visione di quei lavoratori/creativi immersi nelle loro elucubrazioni immateriali, i quali hanno difficoltà nel riconoscere il proprio status di sfruttati poiché inglobati nella promessa della meritocrazia individualista e nei meccanismi di costruzione dell’uomo/impresa e quindi educati alla resilienza acritica, si può dire che le cose non vadano esattamente così. Certo per puro spirito di calunnia qualche buontempone – tra tutti l’ineffabile Ichino – non perde tempo nel sostenere che i lavoratori in smart working si beino della loro propensione all’accattonaggio, soprattutto i “pubblici” paragonati a dei veri e propri cospiratori per un nuovo potere parassitario. Insultare chi lavora un tanto al chilo nell’era dei mercati è operazione sempre ripagata con qualche medaglietta al valore da indossare con fierezza.
La verità è che non esistono condizioni ideali concesse dal capitale. Lo scenario idilliaco di un lavoratore ripagato da un’esistenza placida e tranquilla grazie al lavoro da casa non potrà mai avverarsi senza conflitto. L’idea manipolatrice – propagandata negli ultimi decenni – secondo la quale esisterebbe un’impresa etica, solidale, filantropica corrisponde a un preciso dettame ideologico teso a convincere i più dell’inesistenza delle ragioni politiche dello scontro tra capitale e lavoro. Così come i lavoratori perseguono più o meno i medesimi interessi del capitalista, lo stesso potrà poi offrire – per pura inclinazione alla bontà d’animo – condizioni lavorative più appaganti.
Tanto non funziona così che chi lo smart working proprio non può farlo, per le condizioni oggettive della produzione – per esempio operai di fabbrica, della logistica, personale sanitario, chiunque appartenga alla filiera alimentare – in questi mesi ha visto peggiorare di netto le proprie condizioni lavorative con meccanismi di sempre maggior sfruttamento fatto passare per etico eroismo. Esempi di vite che si sacrificano senza dar troppa importanza al salario o alla salute. Per poi essere dimenticati quando oggi iniziano a rivoltarsi – dopo l’esaltazione paternalistica – per ottenere giustizia. E non funziona così neanche per chi gode del “privilegio” di lavorare a casa.
Lo smart working non nasce durante l’emergenza COVID. Molte aziende private hanno iniziato a testare questa pratica ben prima. La sperimentazione è stata avviata a singhiozzo. Qualche giorno alla settimana, qualche lavoratore e altri no. Il capitale così ha iniziato a sgravarsi di qualche costo per esempio assicurare un ufficio, della tecnologia adeguata, luoghi ricreativi o di ristoro, buoni pasto. Quest’ultimi tra l’altro incidono sul salario reale poiché possono essere utilizzati a piacimento anche fuori dall’orario di lavoro per il sostentamento del proprio nucleo familiare. Il lavoro da casa quindi ha un impatto diretto sulla quota di profitto del capitale, ma perché esso potesse essere attuato senza tante reticenze, occorreva che fosse accompagnato da stringenti meccanismi di controllo sulla produttività ma esercitabili da remoto.
Oggi la tecnologia permette questo tipo di sorveglianza. Non appena il lavoratore accede a qualsiasi sistema operativo la propria attività è scandagliata fino al midollo. Si possono controllare i minuti passati a inserire dati, classificare le telefonate eseguite, verificare quante mail sono state evase, indire riunioni operative grazie alle piattaforme informatiche e persino contare le battiture dei polpastrelli sui tasti del PC. Certo questo avveniva da tempo si dirà ma avveniva in ufficio. Ancora esisteva – seppur labilmente – un certo potere nel lasciare una scrivania vuota o un telefono interno che squilla senza risposta. Se qualcuno si avventurava a quel punto in una chiamata fuori orario al telefono mobile sapeva in cuor suo di dover perlomeno premettere delle scuse.
La tecnologia ha sì permesso l’avvento del cosiddetto lavoro 24 su 24 – anche il semplice trillo, prova dell’arrivo di una mail che potrà anche essere ignorata, comporterà pensieri e stati di agitazione – ma la separazione fisica tra luogo di lavoro e vita privata lo rendeva ancora ufficialmente un sopruso. La confusione dei due luoghi può rendere naturale quasi amichevole un contatto fuori tempo massimo. Ci si scorda così del diritto a un orario e che a quell’orario corrisponde quella determinata quota di valore determinata nel salario. Anzi si proverà a dire – ci si può scommettere – che quel salario appare, nelle mutate condizioni, ingiustificato. Senza spostamenti la propria abitazione diventa una comodità e così ai costi d’impresa che vengono meno si aggiungerebbe la quota di salario sottratta.
Chi sta raccontando lo smart working narra di giornate all’insegna di una nuova alienazione, quando va bene. L’ossessione data dal sovraccarico di tempo dedito alla concentrazione su uno schermo, la consapevolezza di poter essere sempre reperibili e con i propri strumenti di lavoro lì a portata di mano si sommano alla solitudine della propria giornata. Quando va male tutto ciò è aggravato da condizioni familiari oppressive, abitazioni inadeguate, prole numerosa. Altro che Arcadia, si consumano giornate nelle quali lavoro e tempo libero, sonno e veglia, impegno e ristoro assumono contorni indistinguibili.
Ma non è tutto. La propensione dell’impresa nel proporre il lavoro da casa somiglia molto a un manifesto individualista. Il fatto che i lavoratori non si incontrino più in un luogo fisico esalta quella tendenza – facilitata dalla precarizzazione dei contratti e dall’ideologia dell’imprenditore di sé stesso – secondo la quale il rapporto di lavoro si costruisce solo attraverso una contrattazione individuale. La mancanza di vicinanza con i propri colleghi accentua il rischio di psicologizzare l’eventuale fallimento personale o il possibile licenziamento. Quella derivata ideologica che ha permesso di spostare il diritto al lavoro da questione sociale a mera problematica psicologica.
I lavoratori – già immessi nel sistema della concorrenza interna e privati degli strumenti politici collettivi utili alla rivendicazione dei propri diritti – perderebbero totalmente, nell’isolamento casalingo, il controllo sulle eventuali ingiustizie ai danni dei propri colleghi che diventerebbero invisibili. Una chat interna non appare strumento adatto alla crescita della solidarietà. Quello che Sennett ha chiamato “potere senza volto” della nuova impresa si espanderebbe senza limiti. Un demiurgo delle attività produttive protetto dall’anonimato. Con questo non si vuole dire che gli ultimi decenni siano stati caratterizzati da una forte coscienza politica e di classe, anzi.
Si afferma che lo spazio per la rivendicazione collettiva si assottiglierebbe ancora di più, data l’impossibilità per i lavoratori sia di controllare sul campo le vicende aziendali che di riunirsi con facilità per contrastarle ove necessario. Senza una dimensione politica e di conflitto e un conseguente riequilibrio dei rapporti di forza quindi il lavoro da casa – oggi percepito da molti come una grande opportunità e da altri come un insopportabile privilegio in favore di fannulloni patentati – darebbe al capitale l’opportunità di aumentare la quota di profitto, di poter cristallizzare una sorta di taylorismo informatico, di sfiancare qualsiasi germoglio di contestazione organizzata alle decisioni aziendali. Un lavoratore solo, docile, obbligato alla performance chiuso in una nuova alienazione esistenziale.
Fonte foto: Emirates Community Hub (da Google)