Capitalismo astratto
Il terzo libro del Capitale di Marx pubblicato da Engels nel 1894 è sostanziale per comprendere dinamica ed effetti dei processi di capitalizzazione. L’analisi di Marx svela e rivela il fondamento veritativo del capitalismo finanziario. L’accumulo si struttura in assenza del capitale materiale, il quale è solo titolo di credito. Il capitale d’interessi si moltiplica in modo geometrico autoproducendosi, nuova divinità terrena che si autocrea e si autopone dal nulla, pertanto è ontologicamente ostile alla vita ed al lavoro. Divora i debitori, le loro vite e le muta in “interessi” con cui accumulare capitali, la cui genesi non è il lavoro, ma il tasso d’interesse. I debitori hanno perso il controllo del loro debito, sono oggetto di processi finanziari. La vendita dei titoli di credito è percepita dai capitalisti della finanza solo come fonte di investimento ed accumulo. Le vite dei debitori scompaiono dietro i titoli di credito, per lasciare al loro posto solo il calcolo degli interessi. Ogni debitore è così solo un numero, una data in scadenza, un nemico da cui astrarre la linfa vitale che tiene in vita il capitalismo finanziario. L’essere umano è trasformato in fonte per l’accumulo. Al capitalista non giunge nulla della sua sofferenza e della quotidiana tragedia per sopravvivere. Il debitore, in questo gioco, è sospinto nel suo olocausto, poiché se non sta al gioco del grande capitale è sospinto ulteriormente ai margini del sociale, è il paria da cui tutti fuggono. La violenza del capitalismo finanziario agisce secondo diverse direttive: dall’alto esige il pagamento con gli interessi in date non contrattabili, ma vi è, anche, la violenza orizzontale che fortifica l’automatismo finanziario. Il debitore subisce i sospetti del suo contesto di relazionale, lo si fugge e disprezza, poiché la religione del capitale non perdona gli sconfitti. Colui che si indebita e naufraga nei debiti è colpevolizzato, in quanto non è stato all’altezza del martello dell’economia che batte nella testa di ciascuno. Il capitalista, invece, è oggetto di una liturgica ed invidiosa adorazione, è il vincente che trasforma i titoli di credito riscossi in potere, è la nuova divinità mondana che ha fatto del calcolo e dell’astratto la sua formula algebrica di vita.
Automatismi
Marx ha anticipato la trasformazione del capitalismo in capitalizzazione, in denaro che produce denaro. Il titolo di credito come la obbligazione è capitale illusorio, capitale che non c’è, perché è stato già speso, ma continua a produrre denaro. Dal nulla si generano immense ricchezze sulla pelle degli indebitati, la cui vita passa di creditore in creditore. Il capitalista finanziario diviene il compratore di anime morte. Non produce nulla, nessun servizio, nessuna merce, solo denaro che si autoriproduce secondo meccanismi automatici. Scompaiono i fini, resta solo il mezzo fine a se stesso, che si autoriproduce, è il cattivo infinito che avanza per lasciare dietro di sé deserti sterili. Religione senza merito, il capitalismo finanziario è l’idolatria dell’astratto. Marx ne ha denunciato la genesi. Lo studio dei processi economici, in Marx, è sempre sostenuto dallo scandalo etico che ne pervade gli scritti[1]:
“Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, considerandolo in base al saggio medio dell’interesse come provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in prestito a questo saggio d’interesse; se ad esempio il reddito annuo corrisponde a 100.000 €. e il saggio d’interesse è del 5%, i 100.000 €. rappresenterebbero allora l’interesse annuo di 2.000.000 €. e questi 2.000.000 €. sono considerate come il valore – capitale del titolo giuridico di proprietà sui 100.000 €. annui. Per colui che acquista questo titolo di proprietà, i 100.000 €. di reddito annuo rappresentano effettivamente il pagamento d’interessi del suo capitale investito al 5%. Svanisce così anche l’ultima traccia di qualsiasi rapporto con l’effettivo processo di valorizzazione del capitale e si consolida l’idea che rappresenta il capitale come automa che si valorizza di per se stesso.
Anche in quei casi in cui l’obbligazione — il titolo di credito — non rappresenta, come si verifica per il debito pubblico, un capitale puramente illusorio, il valore-capitale di questo titolo è puramente illusorio. Abbiamo visto precedentemente che il sistema del credito produce capitale associato. I titoli di credito sono considerati titoli di proprietà che rappresentano questo capitale. Le azioni delle società ferroviarie, minerarie e di navigazione ecc. rappresentano capitale effettivo, precisamente il capitale investito e operante in queste imprese, oppure la somma monetaria che è stata anticipata dagli azionisti al fine di essere spesa come capitale in tali imprese. Il che tuttavia non esclude affatto che esse possano anche rappresentare delle semplici truffe. Ma questo capitale non ha una duplice esistenza, una volta di valore-capitale dei titoli di proprietà, delle azioni, un’altra di capitale effettivamente investito o da investire in queste imprese. Esso esiste unicamente sotto questa ultima forma e l’azione non è altro che un titolo di proprietà, pro rata (in proporzione) sul plusvalore che verrà realizzato da questo capitale.
A può vendere questo titolo a B e B cederlo a C.
Queste transazioni non mutano per nulla la sostanza della cosa.
A, oppure B, ha in tal caso convertito il suo titolo in capitale, ma C da parte sua ha convertito il suo capitale in un semplice titolo di proprietà sul plusvalore che ci si attende dal capitale azionario.
Il movimento autonomo del valore di questi titoli di proprietà, non soltanto dei valori di Stato, ma anche delle azioni, consolida l’apparenza che essi costituiscano un capitale reale accanto al capitale o al diritto sul capitale di cui essi sono eventualmente titolo giuridico. Essi si trasformano difatti in merci, il cui prezzo ha un movimento e un modo di fissarsi suoi propri. Il loro valore di mercato differisce dal loro valore nominale, indipendentemente dal cambiamento di valore del capitale effettivo (sebbene in legame col cambiamento della sua valorizzazione). Da un lato il loro valore di mercato oscilla in relazione all’ammontare e alla sicurezza dei proventi ai quali questi titoli danno diritto. Se il valore nominale di una azione, ossi la somma versata che rappresenta l’azione al momento dell’emissione, è di 100 €., e l’impresa frutta il 10% anziché il 5%, il valore di mercato di tale azione, rimanendo invariate le altre circostanze, ad un saggio dell’interesse del 5% si accresce a 200 €., poiché capitalizzata al 5%, essa rappresenta ora un capitale fittizio di 200 € . Colui che l’acquista a 200 €., ritrae da questo investimento d capitale un reddito del 5%. Il contrario si verifica quando gli utili dell’impresa diminuiscono. Il valore di mercato di questi titoli in parte speculativo, essendo determinato non dal provento reale ma dal provento previsto, calcolato in anticipo. Ma se noi supponiamo che la valorizzazione del capitale reale sia costante, oppure nei casi in cui il capitale non esiste, come adesempio accade per i debiti di Stato, supponiamo che il provento annuale sia legalmente determinato ed inoltre sufficientemente sicuro: in tal caso il prezzo di questi titoli aumenta o diminuisce in ragione inversa del saggio dell’interesse. Se il saggio dell’interesse aumenta dal 5 al 10%, un titolo che assicura un provento di 5 €. rappresenta soltanto un capitale di 50 €. Se il saggio dell’interesse si riduce al 2,5%, il medesimo titolo rappresenta un capitale di 200 €. In tutti i casi il suo valore è unicamente il provento capitalizzato, ossia il provento riportato in base al saggio dell’interesse corrente, a un capitale illusorio. In periodi di difficoltà per il mercato monetario, questi titoli subiranno quindi una duplice riduzione di prezzo; innanzitutto perché il saggio dell’interesse aumenta, e in secondo luogo perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro. Tale riduzione di prezzo si verifica indipendentemente dal fatto che il provento assicurato da questi titoli al loro proprietario sia costante come accade per i titoli di Stato, oppure che la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano risenta eventualmente un contraccolpo a causa di una perturbazione del processo di riproduzione come accade per le imprese industriali. In questo ultimo caso alla prima si aggiunge semplicemente una seconda svalutazione. Non appena la burrasca è passata questi titoli riprendono il loro valore precedente, eccettuato il caso in cui si tratti di imprese sfortunate o di bassa speculazione. Il loro deprezzamento durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari.
In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento. «Il 23 ottobre 1847 i fondi pubblici e le azioni dei canali e delle ferrovie avevano già subito una svalutazione di 114.752.225 Lst» (Morris, Governatore della Banca d’Inghilterra, deposizione nel rapporto su Commercial Distress 1847-48 [ pag 288, n. 3800]). In quanto la loro svalorizzazione non esprimeva un effettivo arresto della produzione e del traffico sulle ferrovie e sui canali, né l’interruzione di imprese in corso, o lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risultava impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nominale.
Tutti questi titoli non sono in realtà che una accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura, e il loro valore monetario o valore non costituisce capitale, come ad esempio nel caso del debito pubblico, oppure è determinato in modo completamente indipendente dal valore del capitale reale che essi rappresentano.
In tutti i paesi a produzione capitalistica esiste una massa enorme di cosiddetto capitale produttivo d’interesse o di moneyed capital sotto questa forma. E per accumulazione del capitale monetario si deve intendere in gran parte esclusivamente l’accumulazione di questi diritti sulla produzione, l’accumulazione del prezzo di mercato, del valore-capitale illusorio di questi diritti.
Una parte del capitale bancario è dunque investita in questi cosiddetti titoli fruttiferi. Si tratta di una parte del capitale di riserva, che non interviene nelle effettive operazioni di banca. La parte più importante è costituita da cambiali, ossia da promesse di pagamento da parte di capitalisti industriali o di commercianti. Per chi dà denaro in prestito queste cambiali rappresentano titoli fruttiferi; ossia al momento dell’acquisto viene detratto l’interesse per il tempo che manca alla loro scadenza. È questa l’operazione che si chiama sconto. L’entità della detrazione da farsi sulla somma che la cambiale rappresenta dipende dunque dal saggio dell’interesse.
L’ultima parte del capitale del banchiere consiste infine nella sua riserva monetaria aurea o cartacea. I depositi, quando non siano per stipulazione vincolati per periodi più lunghi, sono sempre a disposizione dei depositanti. Essi sono sottoposti ad una continua fluttuazione. Ritirati dagli uni vengono tuttavia sostituiti dagli altri, cosicché l’ammontare medio generale, in periodi di normalità nel campo degli affari, subisce variazioni di lieve entità”.
Glebalizzati
Il capitale di interesse regna, l’adorazione ha la sua causa nell’incapacità di raffigurarsi i passaggi sempre più complessi e meno trasparenti che producono il capitale di interesse. Il capitalismo vive e prolifera, perché necrotizza l’immaginazione: dietro i numeri strabilianti degli accumuli, vi è il dolore di singoli individui, la cui vita è stata devastata dalla necessità, dalla vana speranza di mobilità sociale o semplicemente dalla speranza di poter partecipare con l’indebitamento al banchetto a cui non si è stati invitati. Il capitalismo è divenuto automa che saccheggia la vita, apparentemente incontrollabile, ma il suo potere è nell’alienazione dei popoli glebalizzati. Evirati della loro capacità di pensare, i popoli divengono consumatori di denaro da restituire con gli interessi. La filosofia può riportare la concretezza critica ed immaginativa, dove impera il calcolo. Se ai numeri si restituisce con la genesi i volti dei cannibalizzati ed il volto meduseo del capitale finanziario, i popoli potranno decidere se “divergere il cammino” o restare nella palude della finanza con le sue sabbie mobili. Ad Auschwitz bisognerebbe porre accanto la tragedia del capitalismo finanziario che in nome del debito e dei crediti è genocidiario e demofobico. Il lavoratore sottopagato e precarizzato è una doppia fonte di reddito, mediante contratti capestro lo si costringe a sopportare l’insopportabile col ricatto della globalizzazione e della sua sostituibilità (l’immigrazione consente di sostituire facilmente i lavoratori e di abbassare il salario), e nel contempo il lavoratore si indebita, poiché non ha sufficiente denaro.
La nuova aristocrazia
Col capitalismo finanziario si realizza un salto quantico, la borghesia del lavoro muta la sua natura ed è sostituita dall’aristocrazia del denaro, la quale nega i principi meritocratici del lavoro, con l’affermarsi di una nuova aristocrazia nichilista senza storia e senza identità. Marx nel terzo libro del Capitale individua questa faglia tra capitalisti attivi e capitalisti monetari. I primi producono merci da immettere sul mercato e comprano dal capitalista monetario una merce “sui generis”, il denaro, da utilizzare nella competizione produttiva. Il denaro prestato rifluisce al prestatore aumentato. Il denaro è mosso da logiche che lo inducono ad uscire da sé per aumentare con gli interessi il potere d’accumulo del prestatore. L’enorme quantità di denaro è tale da condizionare e determinare le leggi dello Stato, fino a fare dei banchieri uno Stato nello Stato. La legge diviene l’abile strumento per mantenere in vita l’aristocrazia della finanza. Il capitalista monetario è interno alle logiche strutturali di produzione del capitale di interesse, al punto da essere il servo fedele del feticcio-denaro che ha innalzato. Il feticcio che cela i rapporti di produzione, nella contemporaneità, è innalzato sugli altari, è il corpo mistico indiscutibile che regge le ingiustizie del mondo.
Separazioni
Il capitalismo monetario palesa che il regno del capitale non è solo sviluppo illimitato, ma nel suo processo di autosviluppo produce separazioni e contraddizioni. Queste ultime sono interne alla stessa borghesia capitalistica scossa da frizioni interne, benché sia sempre pronta a compattarsi contro i subalterni. Il capitale di interesse è il prodotto della separazione e della contraddizione tra lavoro e profitto. Il capitale è per il capitalista monetario il mezzo per smungere altro capitale. Marx ha il merito di aver mostrato il polimorfismo dell’accumulo e del profitto. L’accumulo illimitato è inoltre veicolo delle “bolle finanziarie” e dei “derivati”. Dinanzi alle vive contraddizioni e separazioni la struttura capitalistica è scossa da crisi endemiche, che non sono sufficienti al suo crollo. Decolonizzare la mente dalla rendita è una necessità irrinunciabile per poter far fronte alla condizione attuale.
Nichilismo e sostanza
Marx palesa la faglia e la complicità tra capitalismo monetario e capitalismo attivo. Se si segue la traccia donataci da Costanzo Preve, si potrebbe affermare che il capitalismo finanziario è il compimento del capitalismo che per sua “natura” è nichilistico. Costanzo Preve rintraccia nella crisi della sostanza, nella critica effettuata dagli empiristi inglesi l’evento teoretico che legittima il capitalismo nella sua ascesi e specialmente ne decreta il nichilismo. Per Preve la sostanza è metafora della comunità e sancisce il limite all’arricchimento. Il suo dissolversi formalizza l’illimitato e dunque fonda il capitalismo nella cornice nichilistica[1]:
“In David Hume, invece, la costituzione formalistica del soggetto giunge al suo culmine con la distruzione dello stesso concetto di soggetto come sede di un’identità stabile e permanente. Hume non ha alcun bisogno di identità stabili e permanenti, perché il suo concetto ipostatizzato di “natura umana” ricopre integralmente lo scambio capitalistico delle merci, e si riassume in un sistema psicologico di anticipazioni ed aspettative”.
Marx e Costanzo Preve ci donano categorie per comprendere i processi di formazione del profitto, senza le quali non è possibile ipotizzare “alternative”. Il capitalismo monetario è la verità del capitale, il suo disvelamento, al punto che ne decreta il trionfo, ma anche il limite espansivo.
Warren Buffet uno degli uomini più ricchi del pianeta ha affermato in un’intervista che la lotta di classe la sta vincendo il capitale, ma fin quando i classici continueranno a vivere con noi, a tracciare linee di possibilità nel presente, la vittoria del capitale sarà solo una dolorosa tregua.
[1]Marx Il Capitale Libro III Sezione V Suddivisione del profitto in interesse e guadagno d’imprenditore. Il capitale produttivo d’interesse. Capitolo 29
[2] Costanzo Preve Una nuova storia alternativa della Filosofia Petite plaisance Pistoia 2013 pag. 387