Il Ministro (o la Ministra) Giannini, comunica (da Repubblica del 02/09/2015) che l’87% degli insegnanti recentemente neoassunti sono donne.
Nessuna novità, quindi, rispetto al trend in corso ormai da decenni, che vede un processo di sostanziale e sistematica “femminilizzazione” della scuola. Le donne continuano ad “occuparla” mentre gli uomini continuano a disertarla. Eppure di questi tempi di crisi economica strutturale, di precarietà diffusa e di disoccupazione di massa, un posto di lavoro pubblico, stabile, sicuro (dove ci si può stressare e affaticare ma certamente non si crepa precipitando da un ponteggio) e a tempo indeterminato dovrebbe far gola a tutti/e, quindi anche e in primis agli uomini.
Quali, dunque, possono essere le ragioni di questa massiccia ritirata, di questo abbandono maschile della scuola? Eppure una volta la figura del maestro (anche elementare), del professore (anche se oggi “degradato” al rango di “prof.”, dal momento che il titolo di Professore con la P maiuscola appartiene ormai di diritto e di fatto solo al corpo degli accademici) aveva anche un grande rilievo sociale. E allora? Cosa è successo da una quarantina di anni a questa parte?
Crisi di vocazione unilaterale? Bassi salari? Una professione scarsamente qualificata, appunto perché poco remunerata e considerata poco appetibile per chi è stato allevato (condizionato, costretto) con l’idea di dover guadagnare di più della propria moglie altrimenti si sente un fallito (questo è un pesantissimo e devastante fardello, per gli uomini, un condizionamento psicologico, non certo un privilegio)? Non mi pare però che tante altre categorie di lavoratori siano meglio retribuite, a meno di non pensare (ma sarebbe un pensare dal mio punto di vista non condivisibile e fuorviante), che un vigile del fuoco, un infermiere specializzato, un ferroviere (ma anche un informatico, un tecnico di laboratorio o un giornalista free lance, le cui remunerazioni, specie se precari, non sono certo superiori a quelle di un insegnante) siano mestieri meno utili o meno qualificati.
Un processo di degrado complessivo del sistema scolastico, concepito ormai sempre più (da tutti, non solo dai giovani, in primis dalle istituzioni politiche) come una sorta di parcheggio in attesa della “vita vera”, cioè della capacità di affermarsi nella società, di farsi largo, costi quel che costi, nella competizione economica e sociale sfrenata della società capitalista dove “non servono il latino, il greco e la dialettica platonica ma la capacità di fare soldi?” Oppure, ancora, il ruolo del maestro, del professore, è entrato in crisi contestualmente alla crisi del padre e del paterno (le due figure sono evidentemente contigue), ormai da tempo concepito, declinato e interiorizzato sempre e comunque nella sua accezione negativa, cioè come patriarcato, e quindi la funzione educativa deve essere di fatto delegata alle sole donne?
La crisi della scuola è solo una crisi di risorse economiche – mancano le aule, gli insegnanti di sostegno, i cancellini, i gessetti, le lavagne, le strutture sono fatiscenti, i laboratori inadeguati e privi di mezzi, ecc. ecc. – oppure è lo specchio dellao crisi profonda, non solo economica ma culturale e valoriale, della nostra società?
La scuola è una istituzione – nel senso alto del termine – educativa e formativa, fondamentale ai fini dello sviluppo e della crescita di persone dotate di coscienza e autonomia intellettuale e morale, oppure serve soltanto a costruire degli “abili e arruolati”, dei “tecnici” più o meno specializzati (quando va bene…) in base al tipo di scuola frequentata (cioè licei per i figli delle classi abbienti e istituti tecnici e professionali per i figli delle classi popolari), degli individui privi di una vera consapevolezza e quindi incapaci di sviluppare una reale capacità critica?
La mia opinione è che tutti questi fattori (e molti altri ancora), sia pur sommariamente elencati, contribuiscano a determinare la crisi strutturale del sistema scolastico.
La politica (p rigorosamente minuscola, in questo caso), fedele specchio del contesto sociale e culturale e ridotta ormai ad ancella del mercato, anzi del Mercato, risponde (si fa per dire…) a questa crisi con delle leggi ridicole (nel merito delle quali non voglio neanche entrare) che cercano di adeguare il sistema scolastico alle logiche del Mercato. Di più non è in grado di fare né comunque gli sarebbe consentito farlo, qualora ne avesse anche le possibilità/capacità (che comunque non ha, ed è sufficiente gettare uno sguardo sugli uomini e le donne che ci governano per capirlo).
La questione è estremamente complessa, come vediamo, e necessiterebbe di una ben più approfondita analisi.
Mi limito in questa sede a lanciare una provocazione, in linea con lo spirito e la filosofia di questo giornale (e con quello che ho già scritto poc’anzi). La scuola è ormai femminilizzata, lo dicono i numeri, non il sottoscritto. A parti invertite, con una scuola “occupata” al 90% da uomini, sarebbe stato sollevato un pandemonio (a dir poco…) contro l’ennesima intollerabile discriminazione nei confronti delle donne. Non solo, la causa o una delle cause fondamentali (se non la fondamentale) della crisi della scuola sarebbe ovviamente già da tempo stata individuata nella più che preponderante presenza maschile e, naturalmente, nella cultura maschilista che pretende di esercitare la propria egemonia su quello che è e dovrebbe essere per ogni società civile degna di questo nome, un ganglo vitale se non addirittura l’asse centrale della società stessa.
Così non è, come sappiamo e come è evidente. E allora? Questa evidente sproporzione fra docenti maschi e docenti femmine, come deve essere interpretata? Come una discriminazione nei confronti dei maschi o come l’ennesimo processo di marginalizzazione delle donne in un ruolo considerato appunto marginale o vissuto come tale?
Quali conseguenze e ricadute comporta questa situazione sui destinatari del processo educativo/formativo (di fatto gestito dalle donne)?
Si aprano le danze. Il dibattito è aperto. Nel frattempo vi suggerisco la lettura di questa breve ma molto interessante riflessione del mio amico Rino Della Vecchia che a suo tempo (insieme al sottoscritto e ad altri amici) lanciò la proposta della quote azzurre nella scuola:
“Non ci sono dubbi sul fatto che è indispensabile riequilibrare l’asse educativo con riferimento al peso dei due Generi anche nella scuola. Ma perché e come? Quali i presupposti e quali le implicazioni?
Il motivo è banale: l’assenza maschile in campo educativo produce danni (da leggeri a gravissimi, da temporanei a permanenti) a carico delle nuove generazioni maschili e – quantomeno – causa lacune, strabismi, deformazioni in quelle femminili.
Presupposto.
Il presupposto è ovvio ed è che esistono differenze psicologiche tra M ed F correlate alla diversa costituzione dei due, che alla diversità del corpo sia associata una diversità della psiche, irriducibile, non vicariabile, non surrogabile e ciò tanto negli educandi/e quanto negli educatori/trici. In caso contrario quel che fa un educatore lo potrebbe fare anche un’educatrice. Basterebbe istruire-formare queste in modo diverso e così la presenza maschile (a scuola, in casa e altrove) a fini educativi diverrebbe superflua. Il riconoscimento di una diversità irriducibile (nella sua radice) non comporta né la pretesa di poterla descrivere compiutamente né quella di individuarne i confini, i punti di sovrapposizione, di contrasto, di ridondanza etc. Infatti nel processo educativo (di questo si tratta) abbiamo a che fare quasi del tutto con l’inconscio sia degli uni (gli adulti) che degli altri (i piccoli). Tra i 4 terminali di quel processo (M e F educatori M e F educandi) si instaurano relazioni diverse e complementari a prescindere dal fatto che ne siamo consci e/o in grado di descriverli, ciò in risposta a esigenze, potenzialità, attitudini, vocazioni diverse che esigono quelle risposte simmetricamente differenti che i due Generi possono dare.
Educazione e istruzione.
La trasmissione di conoscenze (saperi, competenze etc.) in sé potrebbe prescindere dal Genere che le veicola e le somministra. Potrebbe trattarsi anche di un dispositivo elettronico o di un androide. La questione che si pone infatti è quella educativa, della formazione, della crescita e della maturazione non quella dell’istruzione (“leggere, scrivere, far di conto”). Impossibile qui non rilevare che questa funzione, che pure è quella capitale, in ambito scolastico è considerata centrale solo alla materna, di una qualche importanza (ma non decisiva) alle elementari e praticamente nulla alle medie e superiori, gradi di scuola dove ci si aspetta che il giovane assorba e ripeta nozioni e dove la funzione educativa è tanto marginale per i programmi quanto vissuta come un peso, un ingombro dal corpo insegnante (un onere che altre agenzie, la famiglia e/o la scuola degli anni precedenti o …non si sa chi… avrebbe dovuto accollarsi). Del resto gli esami non vertono su quel che un alunno/studente è diventato, ma su quel che ‘sa’ (inteso come “ciò che sa ripetere-risolvere”).
Maschi educatori.
Porre la questione della presenza maschile a scuola significa quindi porre il problema del suo compito primario. Invece essa oggi è centrata sull’istruzione (intesa come preparazione alla professione e finalizzata – anche se in Italia di fatto velleitariamente- a obiettivi economici) mentre considera marginale la funzione educativa. Qui siamo costretti a leggervi un altro riverbero di quella che Fabrizio Marchi definisce “ragione strumentale”: oggi scopo della scuola non è la formazione, la crescita umana, l’evoluzione psicoemotiva integrale, la maturazione equilibrata (=la salute psicologica) del singolo e quindi la sanità mentale della società. No: lo scopo è produrre degli ingranaggi adatti al meccanismo economico. I costi di questa deformazione non importano, non importano né la gravità né l’estensione sociale dei danni. Ora, sarebbe per noi assurdo darci da fare per avere più maschi istruttori. Quel che vogliamo è la reintegrazione del maschio educatore nelle agenzie formative il che implica e comporta il rovesciamento aperto delle priorità scolastiche: prima la formazione e dopo (molto dopo, direi) l’istruzione (che oggi ha mille modi per trasmettersi): si tratta di un rovesciamento dirompente. Non maschi per istruire, ma maschi per co-educare.
Quote? Sì, certamente!
Come è vero che i maschi devono rientrare nella scuola per esigenze di formazione e non di istruzione, così devono esser là non per rispondere a questioni di equilibri professionali, di generica parità tra gli adulti in quella istituzione, ma per garantire la presenza del maschile nella formazione delle nuove generazioni. I maschi adulti non vi devono rientrare per interessi degli adulti ma dei maschi (e delle femmine) in età evolutiva. Questo fatto capitale risolve l’annoso problema presente: rivendicare le quote a scuola per M significa implicitamente accreditare, approvare le quote rosa ovunque. Falso. Le quote rosa non sono state pensate e imposte a vantaggio delle femmine (e men che mai dei maschi) in età evolutiva, ma come prebende (una forma spuria di eredità) per le femmine adulte delle classi medio-alte. Questa motivazione è essenziale e fa piazza pulita dei dubbi sulle quote maschili nella scuola che hanno motivazioni diametralmente opposte a quelle delle quote rosa altrove (tanto che per le prime sarebbe meglio adottare un nome diverso).
Rivalutare la maschilità.
Ovviamente la presenza di un adeguato numero di maschi nelle aule non basta, questo rientro deve essere accompagnato dalla rivalorizzazione del maschile, compito su cui tutti concordiamo, su cui sia il sottoscritto che Fabrizio siamo impegnati. Senza rigenerazione del prestigio maschile, senza rivalutazione del ruolo insostituibile della presenza maschile nel mondo, senza la rinascita del valore della maschilità quella presenza sarebbe quasi del tutto sterile, forse persino dannosa perché deformante. Sarebbe come trasferire il mammo da casa a scuola… brrr! Dunque l’obiettivo è duplice e il bunker scolastico va conquistato da entrambi i versanti. Compito di portata storica”.