Ho appena letto questo articolo Tutte zitte se il “raptus” viene attribuito a una madre assassina? di “Eretika” (questo è il nick che utilizza da tempo e con cui è conosciuta), una “femminista critica” – definiamola così – sulla recente sentenza che ha di fatto assolto la madre di Lecco che aveva assassinato le sue tre figlie.
Eretika ha assunto da tempo posizioni sicuramente coraggiose, molti dei suoi articoli sono apprezzabili e condivisibili, per lo meno in parte, e in un’ occasione in cui fu duramente attaccata da alcune sue ex compagne ed ex compagni, presi anche pubblicamente le sue parti, esprimendole la mia solidarietà.
Tuttavia non riesce (non vuole? non può?…) a fare il salto definitivo (e anche il più coerente…), cioè a fuoriuscire dall’ideologia femminista che pure ha sottoposto ad una critica molto severa. Ma questo è eventualmente un suo problema. L’ articolo in ogni caso ha avuto il merito di sollecitarmi ad una riflessione più ampia e la ringrazio per questo.
Per lei l’attuale contesto sociale sarebbe tuttora dominato dalla cultura maschilista e patriarcale, e anche quest’ultimo articolo lo conferma. E’ ovvio che dal mio punto di vista è un’analisi a dir poco obsoleta, perché l’attuale sistema capitalistico tutto può essere e tutto è tranne certamente che maschilista e patriarcale. Al contrario, come abbiamo spiegato in tanti articoli fra cui questo Il nuovo orizzonte del Capitalismo: la cancellazione delle identità sessuali, e non solo su questo giornale, il neo ultra capitalismo assoluto dominante ha necessità di rimuovere ogni potenziale ostacolo sul suo cammino, ivi compreso il vecchio sistema valoriale borghese e “patriarcale” (Ha ancora senso considerare il patriarcato come l’architrave delle società capitalistiche occidentali? e Perchè si distrugge il “paterno”? ) divenuto ormai di impaccio al suo pieno dispiegarsi.
A tal fine, il processo di distruzione di ogni identità, sistematicamente e scientemente perseguito, a cominciare ovviamente da quella di classe; la prima, in ordine di tempo e di necessità, che doveva e deve essere assolutamente distrutta. E al momento, purtroppo, questo obiettivo è stato in larghissima parte raggiunto grazie ad un’offensiva culturale e ideologica (oltre che politica e sociale) senza precedenti che ha portato la grande maggioranza delle persone a smarrire se non ancor peggio a rifiutare la propria identità (e coscienza) di classe, cioè la consapevolezza di essere dei soggetti sociali subordinati all’interno del contesto sociale (cosa che, al contrario, non vale ovviamente per i soggetti sociali dominanti i quali sono ben provvisti di coscienza di classe…). Oggi i soggetti sociali subalterni non si sentono, o meglio, non vogliono sentirsi più tali e, anzi, per lo più arrivano a vergognarsi della loro condizione; la stessa che una volta rivendicavano invece con fierezza. Non più quindi “proletari” consapevoli della propria condizione, perché muniti di coscienza di classe (come soggetti singoli e collettivi agenti all’interno del processo sociale e storico) ma “individui”, in senso generico, fra altri “individui” o, al meglio, “cittadini” fra altri “cittadini” (ma quest’ultimo è già uno stadio “superiore” che necessita di un tasso di coscienza civica e politica ancora più elevato che naturalmente il sistema stesso, al di là dei proclami formali, si guarda bene dall’incentivare…) .
La vittoria dell’ideologia liberal-liberista è stata pressoché quasi totale, sotto questo punto di vista, per lo meno in questa fase storica, essendo riuscita ad occupare lo “spazio psichico” della stragrande maggioranza degli “individui”, con l’eccezione di alcune sacche di “resistenti” ancora presenti in settori molto minoritari di ciò che resta della vecchia classe operaia di fabbrica e, sia pure in minima parte, dei cosiddetti nuovi ceti “proletari intellettuali” o “intellettuali proletarizzati”. Qualcuno (pochi) fra questi, infatti, anche se qualificato, con tanto di laurea e specializzazione in tasca, ha ormai capito di essere condannato ad una sostanziale marginalità sociale, e questa situazione sta cominciando ad aprire delle contraddizioni anche in quelle fasce sociali che una volta avremmo definito “medio borghesi” che da sempre hanno individuato e individuano nella mobilità sociale verticale la loro ragione di esistenza. Siamo comunque ben lontani da una vera e propria coscienza di classe intesa in senso classico, cioè marxiano. Siamo piuttosto di fronte ad una frustrazione individuale, sia pure molto diffusa, ma del tutto incapace di fare un salto di qualità in termini di consapevolezza sociale e politica
Ma distruggere l’identità (e la coscienza) di classe significa annichilire la possibilità stessa di una risposta collettiva al dominio capitalistico. Significa minare alle fondamenta il proprio antagonista “interno”, quello inevitabilmente generato dal sistema capitalista stesso e anche quello potenzialmente più pericoloso nel momento in cui fosse appunto provvisto di coscienza, sia a livello individuale che collettivo.
Questo è stato ed è tuttora il primo dei tre obiettivi strategici del capitale.
Poi è la volta di quello “culturale”, cioè la distruzione delle identità culturali dei popoli, delle comunità, delle diverse etnie ecc. Ed è anche facile capire il perchè. Se l’obiettivo (del capitale) è quello di trasformare il mondo in un metaforico (e non solo) gigantesco Mc Donald, è ovvio che si devono necessariamente distruggere anche le identità culturali che oggettivamente costituiscono un ostacolo in tal senso nonchè un potenziale antagonista. Anche se può apparire paradossale questo paradigma è applicabile in tutte le direzioni. Vale per le culture e per le religioni così come per gli usi, i costumi, le tradizioni locali, addirittura per le tradizioni culinarie. Volendo portare un esempio banalissimo ma forse efficace, se si deve portare la gente, da Los Angeles a Singapore, da Roma a Buenos Aires, da Londra a Shangai e via discorrendo, dal Polo Nord all’Antartide, a ingozzarsi di hamburger, patatine fritte e coca cola in un “fast food” (letteralmente cibo veloce…), la si deve anche convincere che le sue precedenti abitudini alimentari non fossero “adeguate”. L’esempio, come ripeto, è senz’altro e volutamente banale. Proviamo però a portarne degli altri più “pesanti”. Pensiamo ad esempio alle religioni o in generale a tutto ciò che ha attinenza con la sfera “sacrale” e spirituale di un popolo o di una comunità. Una religione, al di là della dimensione trascendentale, rappresenta comunque un sistema di precetti e regole di ordine etico e morale. E cosa se ne fa ormai il capitalismo, interessato solamente alla sua illimitata auto riproduzione, di un “papocchio” tanto ingombrante quale quello rappresentato da un sistema di precetti etico-morali? Tanto più in assenza di un’ideologia antagonista (leggi il comunismo) che ha osato metterlo in discussione, quei sistemi di regole e precetti religiosi (anche se non necessariamente tali) etico-morali, a suo tempo utili (al di là della loro effettiva natura e/o della loro strumentalizzazione politica) alla perpetrazione stessa del suo dominio, rischiano di diventare un fardello, una zavorra di cui liberarsi. Ciò apre, specie per i marxisti, una riflessione sulla questione religiosa, su come essa si sia evoluta o trasformata nel tempo, e sulla funzione anche politica che hanno assunto oggi alcune religioni; penso all’Islam, ad esempio, sia pur nelle sue spesso molto diverse (e confliggenti) articolazioni. Ma questa è una questione assai complessa che ci porterebbe lontano e che merita una riflessione specifica.
Per ora, ciò che è importante sottolineare è che un popolo che smarrisce le sue origini, la sua storia, la sua o le sue culture (senza con questo negare, ovviamente, la contraddizione di classe), è molto facile da colonizzare, sotto ogni punto di vista (economico e culturale) specie da parte di un sistema globalizzato altamente pervasivo e al contempo seducente e seduttivo come quello capitalistico. Con popoli e comunità siffatte, senza più storia né identità, non c’è neanche più bisogno di usare le maniere forti; il metaforico “Mc Donald” di cui sopra e tutto l’armamentario di “luci” e ammennicoli che il mondo capitalista occidentale (quindi anche quello “orientale” occidentalizzato) è abilissimo a produrre e a proporre, sono più che sufficienti a sottometterli.
Infine – questo il capolavoro dell’attuale ideologia dominante – l’attacco alla identità sessuale (leggi quella maschile), perché è ovvio che se si devono ridurre gli esseri umani a meri consumatori, li si deve anche privare o comunque indebolire fortemente nella loro identità primaria, cioè quella sessuale. E sappiamo benissimo – come abbiamo già spiegato negli articoli linkati poco sopra – che questo processo prevede la castrazione psicologica del maschile e del paterno.
“La cosiddetta “società liquida” (per dirla con Z. Bauman) neocapitalistica postmoderna, infatti – riporto testualmente uno stralcio di uno dei miei articoli già linkati – ha necessità di individui “non sociali” (parafrasando il titolo di un celebre libro di Pietro Barcellona), ridotti ad una sorta di monadi incapaci di relazionarsi fra loro se non attraverso la forma alienata e alienante dello scambio mercantile. Qualsiasi altra istanza o soggettività che non sia funzionale a questo “progetto”, cioè sostanzialmente al flusso ininterrotto e illimitato della forma merce, cioè dell’unica forma di “auctoritas” oggi di fatto consentita (al di là delle liturgie formali e ideologiche del tutto artificiose, cioè della produzione della marxiana falsa coscienza socialmente necessaria), deve essere rimossa. Da qui la tendenza (in atto) finalizzata alla cancellazione o quantomeno al sostanziale indebolimento di ogni identità, a partire proprio dall’identità sessuale. La qual cosa non è ovviamente casuale; cosa esiste infatti di più potente e di più naturale dell’identità sessuale, dell’appartenenza al proprio sesso, prima ancora dell’appartenenza sociale, etnica o culturale? Ecco, dunque, per il capitalismo, giunto al suo stadio apicale (per lo meno per ora, non siamo in grado di conoscere la sua eventuale e anche altamente probabile e ulteriore espansione, specie perché in stretta comunione con la Tecnica, ossia la sua più potente alleata), la necessità di intervenire non solo sul piano sociale tradizionale ma addirittura su quello antropologico e genetico”.
“Il paterno – come spiega in modo infinitamente più brillante e dettagliato rispetto a quanto non possa fare il sottoscritto in brevissimi cenni – Erich Neumann, nel suo saggio“Storia delle origini della coscienza”, rappresenta l’irruzione nell’Uroboros dell’io nel non-io, del distinto nell’ indistinto, del limite nell’illimitato, della “forma” nella/sulla materia. Senza questa irruzione, senza questo metaforico ma anche sostanziale strappo, l’individuo (inteso come persona) non potrà mai costituirsi in quanto tale, nella sua autonomia e consapevolezza. Egli resterà sempre un soggetto privo di una sostanziale identità, fluttuante nel metaforico “brodo” di cui sopra, incapace cioè di definirsi come uomo o come donna (anche se il problema, per ovvie ragioni, riguarda oggi prevalentemente gli uomini) nel mondo. Da qui l’attacco sfrenato al paterno e al maschile, dove paterno sta per patriarcato e maschile per maschilismo; non sono ammesse altre interpretazioni”.
E cosa è oggi, concettualmente parlando, la “forma merce”, il “mercato totale”, se non un metaforico Uroboros postmoderno? E come fuoriuscire da questo “brodo”, cioè come trasformare la realtà superando questo stadio, se soprattutto oggi le strutture stesse della soggettività vengono, guarda caso, negate? Si discute da tempo sul possibile futuro soggetto della altrettanto possibile trasformazione rivoluzionaria. Ma quale potrà essere questo soggetto se è la soggettività stessa che viene negata a monte?
Queste sono, a mio parere, le tre direttive strategiche sulle quali si muove il capitale. Esse fanno parte di un unico processo all’interno del quale si intersecano e si sovrappongono. Risulta evidente come la sfera psichica e il suo controllo non possa più essere considerata come un mero aspetto sovrastrutturale.
Questo poteva valere in altre epoche storiche dove il dominio sociale si esercitava innanzitutto attraverso il controllo della sfera pubblica delle persone (il lavoro, in primis, quindi i famosi rapporti di produzione), prima ancora di quella privata. Oggi la situazione è in larga parte mutata (nel senso che a quei rapporti di produzione si sono aggiunte e sovrapposte altre dinamiche) e diventa sempre più difficile, a mio parere, stabilire quale sia la struttura e quale la sovrastruttura, stante proprio la complessità e la complementarietà della loro relazione. Forse sarebbe meglio parlare semplicemente (si fa per dire…) di struttura o di strutture. Questione assai complessa che non ho certo la pretesa né la presunzione di chiudere e che necessiterebbe di una riflessione ben più ampia che, purtroppo, guarda un po’, è del tutto assente a “sinistra” (in tutte le sue articolazioni) dove un certo economicismo, un certo sociologismo e un certo ideologismo e politicismo continuano anacronisticamente a farla da padroni e ad impedire la pur necessaria esplorazione di altri “territori”
Mi permetto di dire che tutto ciò vale anche per la nostra amica Eretika che ancora si ostina a sostenere che l’attuale società capitalistica affondi le sue radici nella cultura maschilista e patriarcale. Il suo anacronistico approccio interpretativo è anch’esso figlio di quella incapacità e di quella paura (anche personale) a mollare determinati ormeggi.