Il linguaggio delle intellettuali femministe è noto per essere criptico e il più delle volte incomprensibile ai più (la qual cosa non è casuale ma lascio ai lettori e alle lettrici l’onere di interrogarsi sulle ragioni di questo fenomeno).
Non fa eccezione Luisa Muraro, storica e indiscussa ideologa del cosiddetto “femminismo della differenza”, in questo suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera (La differenza sessuale c’è. È dentro di noi).
E tuttavia, ciò che appare evidente anche a noi comuni mortali è una certa inquietudine che emerge dalle sue parole. Indicativa in tal senso è la chiusura dell’articolo che riporto testualmente:” Ad ogni buon conto, se il nuovo regime politico-economico usa le invenzioni del femminismo per plasmare la soggettività umana, non prendiamo la postura della critica contro, quel NO ripetitivo e sterile, e riprendiamoci quello che è nostro con la spada in mano, se così posso esprimermi”.
In parole ancora più povere (non posso aspirare alle sue vette…) la Muraro è consapevole (come potrebbe essere altrimenti? Solo un cieco potrebbe non accorgersene) della deriva del femminismo o di una parte del femminismo (quello che lei stessa nell’articolo definisce come “femminismo di stato, quello dei diritti e dell’eguaglianza”) o meglio, di come questo sia stato assunto e utilizzato dal potere, cioè dal sistema dominante, a suo dire per meglio combattere il femminismo autentico, “rivoluzionario”, cioè quello della separatezza (il suo).
Naturalmente io non credo affatto che il suo femminismo abbia alcunché di rivoluzionario e ritengo anzi che sia il più sessista ed estremista (e anch’esso del tutto funzionale al sistema non fosse altro che per la qualunquistica, interclassistica e generalizzata criminalizzazione del genere maschile) anche se abilmente camuffato e incistatosi da sempre nella sinistra cosiddetta radicale. Infatti, uno degli assunti di questo femminismo detto appunto della differenza o della separatezza, per capirci, è quello in base al quale “la violenza è maschile”, essendo, fra le altre cose, la “ sessualità maschile intrinsecamente pervasiva e violenta” mentre la “specificità” femminile non la contemplerebbe. Il sessismo e il razzismo contenuti in questo paradigma sono evidenti anche a chi non ha occhi per vedere (spiccano in tal senso, gli “intellettuali” di sinistra), ma ora l’oggetto della nostra riflessione è un altro e rimandiamo l’approfondimento del tema ad altro momento.
La Muraro prende quindi atto di come una parte del femminismo sia stato assimilato e fagocitato dal sistema dominante (omettendo però di dire che è quello stesso femminismo che si è lasciato fagocitare). Si tratta di una degenerazione o quella deriva era già inscritta nel suo codice genetico? A mio parere entrambe le cose, ma anche in questo caso rimandiamo la riflessione ad un’altra occasione (i temi che tocchiamo, come si vede, sono molto complessi, e ciascuno merita un’analisi specifica).
Ma a turbare i sonni della Muraro non c’è solo il femminismo dell’eguaglianza (dell’omologazione). Un altro soggetto, forse ancor più pericoloso (perché entra oggettivamente in conflitto con il principio della differenza) ha fatto da tempo la sua comparsa: la teoria del gender. Quest’ultima rischia di minare alla radice il femminismo della differenza.
Leggiamo la Muraro:”… il cosiddetto «genere» è dilagato come uno pseudonimo di «sesso», o come un eufemismo: il «genere» non fa pensare al femminismo e ha l’ulteriore vantaggio che si può adottare nel linguaggio ufficiale e accademico senza suscitare imbarazzanti associazioni sessuali. In breve, la differenza sessuale si avvia ad essere esclusa dalle cose umane, per essere sostituita da un travestitismo generalizzato senza ricerca soggettiva di sé, disegnato dalle mode e funzionale ai rapporti di potere. Insomma: l’insignificanza della differenza e l’indifferenza verso i soggetti in carne e ossa. Ma a questo esito, piuttosto congeniale alla cultura dell’economia finanziaria, non si arriva senza passare sopra il movimento delle donne cominciato con il femminismo degli anni Sessanta-Settanta”.
Sempre tradotto in parole povere per noi comuni mortali, la Muraro sta in fondo dicendo quello che alcuni di noi (anche se da un punto di vista opposto e contrario al suo) sostengono da sempre, per lo più sbeffeggiati dai salotti intellettuali della “sinistra”, tutta, senza esclusione (suggeriamogli a questo punto, di leggere la Muraro, a lei sicuramente presteranno attenzione). E cioè che il “genderismo” è un’ ideologia che ha come finalità quella di annullare le soggettività, di minare le identità sessuali (e quindi le differenze) e per questa ragione risulta del tutto funzionale ad un sistema capitalistico assoluto che deve ridurre l’umanità ad una massa di lavoratori precari e di consumatori passivi al contempo, e a tal fine deve distruggere tutto ciò che potrebbe rappresentare un ostacolo all’affermazione del capitale stesso e della “forma merce” e alla loro “libera”, ininterrotta e in linea teorica illimitata riproduzione. Per la realizzazione di questo obiettivo diventa necessario distruggere ogni forma di coscienza (e quindi di identità), a partire da quella di classe, per arrivare a quella culturale e addirittura a quella sessuale. Per chi avesse voglia di approfondire, entro un po’ più nel dettaglio in questi due articoli:
Ovviamente, come è evidente anche dal fatto che nel suo articolo non fa neanche un cenno in tal senso (del resto pubblicato sul Correre della Sera, non su un foglio rivoluzionario…), alla Muraro della contraddizione di classe non gliene può importare di meno, anche perché il femminismo “differenzialista”, anche se lei ovviamente lo nega, è ciò che di più interclassista non potrebbe esistere. Ciò che la preoccupa è l’inevitabile perdita di egemonia culturale e politica che per il femminismo della differenza ne deriverebbe in caso di affermazione della teoria del gender.
Naturalmente – la Muraro è una vecchia volpona, non è certo l’ultima arrivata – non sceglie il muro contro muro con le intellettuali gender, anzi, cerca i punti di apertura e di contatto, perché il suo obiettivo resta comunque quello di “salvare” il femminismo (nel suo complesso) e di attribuire le sue concrete determinazioni storiche e politiche (leggi le sue derive) a processi degenerativi determinati da fattori esogeni, cioè le ingerenze del sistema dominante che per lei resta a trazione patriarcale e maschilista, e la capacità di questo di far sue e piegare a proprio vantaggio anche le istanze più critiche. La stessa operazione viene compiuta anche da altre femministe che non possono, come lei, non prendere atto (pena la perdita di ogni credibilità) di come il femminismo si sia storicamente e politicamente determinato (quello che potremmo definire come “femminismo reale”). Insomma, il tentativo, per dirla sempre in parole molto povere, di non gettare il bambino insieme all’acqua sporca (che è tanta, rischia di diventare un fiume in piena e di travolgere tutte, e ne sono consapevoli).
Per questo apre a Judith Butler (che a sua volta lascia la porta aperta, come vediamo…), ideologa americana della “gender theory” (chissà come mai tutte queste teorie nascono sempre negli USA, nota superpotenza comunista…) riprendendo il suo libro “Fare e disfare il genere” e citando due suoi passaggi:” Judith Butler, nota proprio come teorica della gender theory, intitola così un capitolo: «Fine della differenza sessuale?» E così lo conclude: questa rimarrà una questione persistente e aperta. Con ciò, aggiunge, «intendo suggerire di non avere alcuna fretta di dare una definizione inconfutabile di differenza sessuale, e che preferisco lasciare la faccenda aperta, problematica, irrisolta, e promettente».
E aggiunge (è la Muraro che parla ora):”Parole oneste e intelligenti, tanto più che ci arrivano per un passaggio molto significativo, che non è né teorico né ideologico, è «il fatto» della sfida del soggetto femminile per la sua libertà sessuale. Quanto alla ragione che porta la filosofa statunitense a considerare promettente il problema della differenza sessuale, sono d’accordo con lei: si tratta della «inestinguibile impossibilità di stabilire confini certi tra il «biologico» e lo «psichico», il «discorsivo» e il «sociale”..
Di nuovo, non è la teoria del gender di per se il problema – ci dice in sostanza la Muraro (e secondo me non né affatto convinta ma lo deve dire…) – ma l’uso distorto che ne fa il sistema (patriarcale e maschilista).
Che dire? Siamo all’anticamera di una rottura o di una nuova alleanza? Fino ad ora il femminismo si è diviso in diverse sottocorrenti che però non sono mai entrate in conflitto fra loro. Anzi, il più delle volte, se non sempre, queste divisioni si sono tradotte in un gioco delle parti.
E’ quindi assai probabile che si possa arrivare ad un minimo comune denominatore che inevitabilmente non potrà che essere, come peraltro è sempre stato fino ad ora, l’ostilità nei confronti del genere maschile. Non sarà però facile, questa volta, giungere ad un accordo e ad una sintesi condivisa.
P.S. la prima parte dell’articolo della Muraro (circa i due terzi) è una lunga premessa in cui l’autrice ripropone e tesse le lodi del “suo” femminismo”, quello della differenza, di quanto sia autentico e rivoluzionario e abbia operato una rottura non solo con il sistema dominante ma anche con il femminismo successivamente “normalizzato” e “istituzionalizzato” (quello dell’eguaglianza) e con le pratiche della sinistra tradizionale. Può essere saltato a piè pari, per quanto mi riguarda, onde risparmiare tempo. E’ solo un suggerimento, sia chiaro…