La filosofia italiana degli ultimi decenni del Novecento e dei primi anni Duemila è stata ampia, frastagliata e dunque assai difficile da ricondurre all’interno d’uno schema esauriente e onnicomprensivo. Pur considerando che ogni regola ha le sue eccezioni, si può tuttavia rilevare assai sinteticamente che la filosofia italiana del periodo in questione, abbia vissuto la fine del comunismo e l’avvento della globalizzazione, in maniera perfettamente funzionale alle nuove esigenze che si andavano facendo strada nel corpo di un sistema capitalistico elevato ormai a pensiero unico. Date queste premesse, la filosofia italiana ha concentrato tutti i suoi sforzi nel tentativo (perfettamente riuscito) di allinearsi al sistema. Del resto, ora non era più il partito che pagava i contratti editoriali e che garantiva il successo di una posizione filosofica ma era ormai soltanto il grande capitale che poteva decidere le filosofie “sommerse” e quelle “salvate”: vi era, dunque, da parte di tanti filosofi accademici, la necessità impellente di comprendere e portare rapidamente a compimento la volontà dei nuovi padroni. A tal fine, la filosofia italiana prevalente aveva prontamente cercato di emanciparsi dalle filosofie della storia della stagione precedente, procedendo manu militari alla cancellazione dell’idea davvero antica e fuori moda secondo cui la filosofia è un oggetto privilegiato e uno strumento di trasformazione della realtà. I filosofi avevano dunque preso a riconoscersi “semplicemente” nel ruolo di de-costruttori di quelle stesse filosofie della storia e di quelle soggettività “forti” che le avevano elaborate. Da questo punto di vista, due correnti si erano fatte strada in particolare. La prima (debolista) riteneva che il compito della filosofia dovesse coincidere, per così dire, con una sorta di estenuazione di se stessa, con una operazione di “disincanto” perpetuo. La filosofia, cioè, avrebbe dovuto gioiosamente accogliere il suo desacralizzarsi e il suo entusiastico concedersi al mondo e alle sue produzioni. In altre parole, la filosofia avrebbe dovuto immolarsi (mi perdonino i debolisti) sull’altare del divenire, accettandolo in tutta la sua creatività, leggerezza e libertà espressiva. La seconda posizione, in quanto pensiero “forte”, granitico nella sua imperturbabile immutabilità, appariva essere nient’altro che il rovescio speculare della prima. Questa, infatti, aveva ritenuto addirittura di negare il divenire del mondo, considerando quest’ultimo nient’altro che il frutto acerbo di una fede illusoria. Secondo questa filosofia, tutto è eterno e perfino la morte, in realtà, non esiste. La morte toglie dal cerchio dell’apparire ma non può escludere dall’essere, poiché in realtà, il nulla non esiste. Per questa ultima filosofia, di conseguenza, l’intera storia dell’Occidente e tutto ciò che in venticinque secoli vi si è prodotto, non sarebbe altro che un “sentiero della notte” a cui contrapporre la “lieta novella” della verità dell’essere immutabile. Ritengo che entrambe queste impostazioni teoriche, tese in fondo a scimmiottare (mutatis mutandis), venticinque secoli dopo, le grandi prospettive filosofiche di Eraclito e di Parmenide, pur essendo state tanto influenti nella filosofia italiana, e anzi proprio per questo, abbiano reso impossibile pensare ciò che più conta, ossia la vita e la morte dell’uomo, il potere e la storia. Ritengo altresì che tali filosofie abbiano creato nel nostro paese le condizioni per una resa senza condizioni del pensiero alla globalizzazione capitalistica, attraverso la costruzione di una soggettività perfettamente adeguata al capitalismo globale imperante. La prima esaltando la “leggerezza dell’essere”, la seconda appesantendo l’essere fino al punto da renderlo storicamente inagibile.