«Trump è stato capace di dare una forma nazionalistica, razzista e interclassista agli immaginari e ai discorsi di un gruppo sociale proprio perché nessuno è stato capace di dargli una forma conflittuale». Un primo commento a caldo sul voto USA.
“Questo è il prezzo da pagare per non aver affrontato i costi reali della deindustrializzazione e della globalizzazione che è avvenuta negli Stati Uniti negli ultimi 35-40 anni e per non aver capito quanto questa abbia avuto un impatto sulla vita delle persone e abbia scavato delle ferite profonde: al punto che la gente vuole qualcuno che gli dica di avere una soluzione. È questo quello che fa Trump: dare risposte semplici a problemi molto complessi. Risposte sbagliate a problemi molto complessi. E questo può essere molto seducente”. Sono le parole non di un analista politico ma di Bruce Springsteen che in un’intervista di qualche settimana fa a Rolling Stone (nella quale poi bollava Trump come un “deficiente” e un “white nationalist”) dava inconsapevolmente la migliore interpretazione ante-litteram di quello che poi sarebbe successo ieri sera con le elezioni presidenziali americane.
Ma la stessa cosa l’aveva scritta anche Sandro Portelli qualche giorno fa su il manifesto (“I lavoratori americani dimenticati dai democratici”, 6 novembre) parlando di come ormai da molto tempo il Partito Democratico americano abbia abbandonato i luoghi dal lavoro e della classe e di come l’America liberal, e il suo messaggio sempre più urbanizzato e sempre più declinato su simboli e consumi “culturali”, consideri la figura del lavoratore bianco, maschio, rurale come “altro da sé” consegnandolo di fatto al discorso reazionario della destra repubblicana. Si tratta beninteso di un fenomeno tutt’altro che nuovo, che ha un genesi lunga e complessa e le cui cause non sono liquidabili nei tempi stretti di una tornata elettorale ma che ha senz’altro prodotto negli ultimi decenni negli Stati Uniti (non molto diversamente dall’Europa) una sempre più evidente separazione tra il discorso della “sinistra urbana” e l’America rurale dei lavoratori e della middle-class impoverita. È quello che si può riassumere in una fortunata formula sintetica ma efficace: “una sinistra senza classe e una classe senza sinistra”. Un esempio lampante di questo fenomeno sono quei video divenuti popolarissimi sui social network dove dei giornalisti liberal si intrufolano nei comizi di Donald Trump e intervistano i suoi supporter per ridere di quanto le loro parole siano assurde, razziste, semplificate, piene di stereotipi e di paranoie da complotto etc. Immagini che per quanto vogliano essere “di sinistra” esprimono al di là del loro “testo esplicito” un unico messaggio: “guardate quanto siete ignoranti!”, “quanto vi disprezziamo, voi degli stati del Sud o delle cittadine del Midwest”. Immagini che insomma vogliono esprimere un neanche tanto malcelato “odio di classe” delle elite nei confronti dell’America rurale.
Invece basterebbe saperne un po’ di cinema o avere una minima sensibilità politica di classe per capire che il discorso di un subalterno di fronte a una macchina da presa (o nello spazio pubblico in generale) è più o meno articolato solo in base alle domande che gli si fanno e in base al modo in cui lo si guarda. Quell’America che ieri è andata in massa a votare Donald Trump non è vero che non sa esprimersi: in realtà non ha mai smesso di parlare e di fare anche dei discorsi di una radicalità significativa. Il problema è che forse a sinistra non si ha avuto abbastanza orecchie in grado di ascoltarla: è diventata talmente estranea – verrebbe quasi da dire “antropologicamente” – da quel mondo da non capirne più la lingua, gli immaginari, i codici. Eppure non ci voleva molto. È quello che, giusto per fare un esempio, ha fatto molto banalmente un giornale non certo barricadiero come il The Guardian in questo breve video dove un paio di giornalisti sono andati a McDowell County, in West Virginia – la singola contea dove Donald Trump ha preso più voti durante le primarie e dove ieri ha preso un bulgaro 75% dei voti – per provare a capire il perché del declino dei democratici e del consenso del candidato repubblicano in una delle zone più povere degli interi Stati Uniti. McDowell County è infatti una zona dove l’aspettativa di vita maschile è di 63,5 anni (se fosse una nazione sarebbe 136esima, cioè molto al di sotto della maggior parte dei paesi del Terzo Mondo), dove il 32% della popolazione vive in condizione di grave povertà; una contea che nel 1950 sfiorava i 100mila abitanti mentre adesso ne ha poco più di 22mila. Il motivo? Il declino dell’industria del carbone, una volta fiore all’occhiello dell’economia americana e traino dell’industria manifatturiera nazionale e ora in inarrestabile declino, schiacciata da un processo produttivo inquinante e obsoleto e dalla concorrenza internazionale. Basta vedere la differenza tra una Clinton che afferma tronfia di voler mettere tutte le industrie del carbone out of business per puntare sulle energie rinnovabili e un Donald Trump che in un comizio a Charleston, West Virginia senza la minima vergogna si mette l’elmetto da minatore e dice «we’re gonna put the miners back to work» (rimetteremo al lavoro tutti i minatori) per capire quello che è successo. Poco importa che le promesse di Trump si scioglieranno come neve al sole e che tra quattro anni la contea di McDowell sarà nella stessa situazione di oggi, se non peggiore. Per capire una delle più grandi débâcles della storia del Partito Democratico bisogna partire proprio da qui: dal lavoro e da un’intera classe di lavoratori bianchi impoveriti e precarizzati che ha deciso di dare fiducia a un ciarlatano sessista e incompetente.
Le avvisaglie per prevedere un successo di Trump insomma c’erano tutte. I pezzi del puzzle erano tutti sul tavolo: bastava solo metterli insieme e guardare quello che in ogni caso doveva già essere evidente a tutti. I dati dei movimenti elettorali di ieri infatti sono chiarissimi: la Clinton da centrista qual è, ha pensato che decisivi sarebbero stati gli Swing States della Florida, del North Carolina, della Virginia. Sono Stati dove i due candidati sono finiti per essere molto vicini e dove la Clinton ha più o meno tenuto: ha perso di poco la Florida; ha perso con un po’ più di margine il North Carolina che comunque era lo stato più tradizionalmente repubblicano, mentre ha vinto anche con un distacco considerevole la Virginia. Il problema è che la partita si è però spostata – inaspettatamente, ma nemmeno troppo – in tutt’altra zona, cioè nella rust belt, la cosiddetta “cintura della ruggine”, quella degli Stati dell’industria manifatturiera del Midwest che vivono una crisi non molto diversa dalla contea di McDowell, dove ci sono le fabbriche automobilistiche e metallurgiche che hanno pagato il prezzo più alto per l’impoverito della classe media. Sono il Michigan, il Wisconsin, l’Indiana, l’Ohio, la Pennsylvania: Union States in declino con un’alta percentuale di lavoratori bianchi sindacalizzati che se non sono stati uccisi delle delocalizzazioni negli anni Ottanta hanno ricevuto il colpo di grazia con la crisi del mercato immobiliare del 2008. Qui il sentimento di odio anti-establishment nei confronti delle élites finanziarie newyorkesi ritenute responsabili della crisi ha dominato il discorso politico e la Clinton che di quell’establishment è sempre stata espressione ha finito per essere vissuta come un candidato nemico.
La cosa però interessante è che tutti gli Stati della rust belt è ormai da molte tornate elettorali che erano sempre stati saldamente in mano ai democratici: Obama vinse il Michigan di 17 punti nel 2008 e di 10 nel 2012, in Wisconsin di 14 punti nel 2008 e 7 nel 2012, la Pennsylvania di 10 e poi di 5. Trump invece è riuscito a vincerli tutti (tranne l’Illinois, che però è sbilanciato per la presenza di Chicago) ribaltando anche le previsioni più ottimistiche nei suoi confronti. Il problema è che gli Stati Uniti – che a noi piace sempre pensare come “anticipatori” di processi sociali, ma che spesso invece vanno a ruota di cambiamenti avvenuti altrove – hanno vissuto con questa tornata elettorale la prima vera elezione dominata da un discorso anti-establishment e anti-politico. È stato chiaro fin da subito come le primarie di entrambi i partiti venissero dominate da figure (Sanders e Trump) che costruivano gran parte del loro appeal sul fatto di non essere parte dell’establishment. E infatti sarebbe bastato guardare la distribuzione dei voti di Bernie Sanders nelle primarie degli Stati della rust belt per capire che forse la sua candidatura avrebbe avuto più chance di quella di Hillary Clinton, che invece ha raccolto la gran parte dei voti da portare alla convention dei Democratici in Stati del Sud nei quali sarebbe comunque andata a perdere.
Tuttavia sarebbe un errore fatale fare di questo sentimento anti-establishment un fenomeno direttamente di classe. La base elettorale di Trump non è riducibile alla working-class dell’Ohio o alle ex-miniere del West Virginia; alle acciaierie di Youngstown o al declinante Michigan: vorrebbe dire fare un favore eccessivo a un Presidente che comunque – forte anche di una maggioranza schiacciante sia al Congresso sia al Senato – si appresta, ad esempio, ad approvare una delle legislazioni più anti-sindacali d’Occidente (le cosiddette right-to-work laws, già in vigore in molti stati del Sud e che Trump vuole allargare a tutta la nazione). Come è sempre stato nel dna della destra americana Trump mette insieme interessi e gruppi sociali eterogenei giocando sul significante nazione («Make America Great Again») e facendo passare surrettiziamente l’idea che gli interessi dei lavoratori dell’Ohio o dei businessman che chiedono più protezionismo siano la stessa cosa e possano cooperare per degli interessi comuni. L’ambiguità sta già in quell’espressione così tipicamente americana – middle class – che, come dice Bruno Cartosio, negli Stati Uniti ha una connotazione puramente ideologica, dato che mette insieme chiunque si trovi in mezzo fra il vivere sotto la soglia di povertà e il possedere un jet privato. Non ha senso dire semplicemente che Trump abbia il consenso della middle class impoverita come se questa fosse intrinsecamente reazionaria (il consenso in politica non è un fenomeno “naturale” ma è creato in conseguenza di un intervento nella società): Trump semmai è stato capace di dare una forma nazionalistica, razzista e interclassista agli immaginari e ai discorsi di un gruppo sociale proprio perché nessuno è stato capace di dargli una forma conflittuale. Un progetto il suo che è nazionalistico proprio perché interclassista ma è anche e soprattutto razzista: l’ingrediente esplosivo di questa presidenza rischia infatti di essere proprio la questione razziale, perché è sulla linea del colore che si giocano gran parte delle tensioni tra i lavoratori bianchi rurali e impoveriti e tutti quei lavoratori de-qualificati del terziario e dei servizi – soprattutto ispanici e afro-americani e soprattutto concentrati nelle aree urbane – la cui condizione di impoverimento è persino più critica e grave di quelli della rust belt. È su questo sintomo – il più grave dei diversi fallimenti della Presidenza Obama – sul quale Trump ha irresponsabilmente speculato durante tutta la sua campagna elettorale e che rischia ora di diventare uno dei più esplosivi e devastanti conflitti “orizzontali” nella storia della società americana.
Fonte: http://www.dinamopress.it/news/white-mirror