Come riportano alcune importanti testate (quali La Repubblica ed Il Tempo) un giudice di sorveglianza del veronese, Vincenzo Semeraro, si è pronunciato nel seguente modo circa la morte per suicidio della detenuta Donatella Hodo: “Gli istituti penitenziari sono strutturati per gli uomini, per contenerne la violenza, ma le detenute hanno bisogno di altro. Il carcere non è per le donne”. Confermando la nostra più totale solidarietà alla povera ragazza, vittima di un sistema classista e violento, un’affermazione di questo genere rappresenta quanto di più discriminatorio e razzista potesse essere detto da una carica istituzionale quale è un giudice di sorveglianza: eppure nessuno si è mosso.
Un’affermazione del genere contiene al suo interno almeno due preconcetti del tutto dogmatici ed arbitrari, oltre che falsi: il primo è che la violenza sarebbe una prerogativa esclusivamente maschile, ed il secondo che gli uomini non possono essere danneggiati dalla violenza (o ancor peggio, non hanno diritto ad aver riconosciute le proprie sofferenze a riguardo).
Il signor Semeraro, che in quanto giudice di sorveglianza esercita un ruolo affatto marginale all’interno del sistema penitenziario, sembra dimenticarsi che la popolazione carceraria maschile non è scevra da quelle stesse forme di sofferenza che tanto lo hanno colpito nel momento in cui è stata una donna a diventarne vittima. Anzi, si dà il caso che le carceri italiane (e non solo…) siano fresche di un oscuro record: l’atroce soglia di trentadue suicidi in carcere del 2011 è stata superata dai quarantadue del 2021, dei quali quattro femminili e trentotto maschili.
Inoltre, pur non essendo questa la sede per approfondire tutte le altre forme di sofferenza e violenza che la popolazione carceraria maschile subisce (tra le quali percosse, stupri e omicidi), si può affermare tranquillamente che esse esistano non al pari ma in numero maggiore rispetto a quelle subite dalla popolazione carceraria femminile. In numero maggiore, certo! Perché la questione carceraria è un dramma sociale e prevalentemente maschile, in quanto sono proprio gli uomini a rappresentare il 95% della popolazione carceraria. Proprio questo dato, troppo spesso nascosto o strumentalizzato al fine di argomentare la solita storiella dell’indole bestiale (e quindi inferiore) maschile, è invece la riprova di un sistema sociale discriminatorio ed emarginante nei confronti degli uomini.
La maggior parte dei detenuti in Italia è in carcere per piccoli reati di spaccio e furto, il sistema penitenziario ha sempre rappresentato e rappresenta il terminale di controllo del potere vigente e non c’è mai una equa distribuzione dei detenuti per classe sociale: a farne le spese è la popolazione più povera e subordinata. Povertà e subalternità alla quale una gran parte degli uomini viene sempre più spinta da una crescente tendenza alla marginalizzazione sociale (anche nei termini dei reati di spaccio e possesso di stupefacenti, vista la maggior attitudine maschile verso la tossicodipendenza), relegando gran parte degli uomini a una condizione di emarginazione che li porta (di fatto li obbliga) ad occupare il fondo della piramide sociale ed economica del nostro sistema. Un ceto popolare maschile che rappresenta la forza lavoro non solo della grande industria legale, ma anche di quella illegale ed estesa nelle trame della malavita organizzata .
Tutti questi aspetti e risvolti contraddittori e socialmente controversi, che rappresentano sia il mondo carcerario che il suo contesto del quale è espressione, non sono ignorati solo dal giudice Semeraro. Si potrebbe dire che lo stesso Semeraro è solo l’ennesima voce di un ridondante ed estenuante coro che si ripete quotidianamente alimentato da mille sorgenti. Dalle dichiarazioni di Concita De Gregorio al discorso celebrativo della Casellati il primo maggio (poi fortunatamente ritrattato a seguito di forti proteste), solo per fare degli esempi recenti, l’humus ideologico nel quale le istituzioni sono immerse non permette di presentate come un caso raro e fortuito il discorso fatto dal giudice di sorveglianza. È il contesto storico e politico del nostro occidente neoliberista ad imporre (tramite l’ideologia politicamente corretta) questa forma di discriminazione subdola: un politicamente corretto che, nel suo camuffarsi da corrente libertaria ed egualitaria, contamina la collettività con un pensiero “suprematista” e razzista.
In un occidente nel quale tale delirio è normalizzato, frutto di un mondo che si proclama difensore e generatore del sistema democratico e paritario, persone che ricoprono cariche istituzionali e si fanno garanti della giustizia, si prendono la libertà di dire con leggera ingenuità che gli “istituti penitenziari sono strutturati per gli uomini, per contenerne la violenza”. Strano che quando si tratta di considerare se siano strutturati per contenere la violenza di chi ci lavora e ha ucciso i vari Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e Aldo Bianzino, non si muova una mosca. Altro che mosche! Quando però le vittime della crudele realtà carceraria sono femminili, in quei rari casi (e lo scrivo per mera statistica) ronzeranno i calabroni assieme a tutto l’alveare, e i giudici di sorveglianza proporranno un trattamento penitenziario diverso in base al genere.
Questa, signori miei, è proto-apartheid.
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